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Girodivite - n° 54 / giugno 1999 - Filosofia,
Hannah Arendt
Socrate al caffè?
a cura di Pina La Villa. Questo testo è stato pubblicato come
n° 54 di Girodivite, in formato opuscolo nella collana GiroBook.
Il testo è stato preparato in occasione della conferenza tenuta
da Pina La Villa a Caltagirone, per il book festival del 4 giugno 1999.
Vi si parla di Hannah Arendt e del problema della responsabilità
dell'individuo nei confronti degli avvenimenti "politici"
della comunità. Nonostante la lunghezza del testo riteniamo che
l'importanza della discussione meriti la pubblicazione on-line.
Socrate, Il Filosofo, girava per la città, brutto, ironico, inquietante.
Fu condannato a morte perché insinuava il dubbio. Con lui i giovani
non rispettavano più le sacre tradizioni, i miti della città e le illusioni
della democrazia. Ma cosa faceva Socrate? Chiedeva le definizioni, insegniamo
a scuola. Ma cosa sono le definizioni? Socrate chiedeva: cos'è la virtù?
alla risposta, quella che tutti daremmo, diciamo quella che va per la
maggiore - generica, banale, scontata, ragionevole e piena di buon senso
- Socrate incalzava, ironizzava, demoliva, ampliava e restringeva il
discorso, prendeva in giro e accompagnava per mano l'interlocutore.
Fino a dove? Fino al luogo della consapevolezza, quando la risposta
non fosse più quella dei più. Socrate non dà le definizioni, non scrive,
aveva paura che il concreto, l'esperienza potesse rimettere in discussione
tutto. E allora occorreva ricominciare.
Il nome di Socrate è legato alla famosa massima "conosci te stesso".
Il richiamo a conoscere se stessi non è un richiamo all'interiorità.
Conosci te stesso significa parti da te per giudicare, per conoscere,
rifletti, pensa con la tua testa e il tuo cuore. Il caffè è il luogo
per eccellenza della chiacchiera inutile. L'accostamento a Socrate è
invito a immaginare la distanza tra la piazza, l'agorà di Atene, e il
caffè, in cui, rispetto alla piazza della città-stato, manca assolutamente
il contatto con la città e i suoi problemi, manca un potere di decisione,
per cui la chiacchiera diventa fine a se stessa. "Chiacchiere da bar"
diciamo, a indicare il più basso livello delle discussioni. Metti però
Socrate in questa specie di non-luogo - l'antropologo Marc Augé definisce
così i luoghi privi di storia e di identità, sede dell'anonimato, come
gli aeroporti e i supermercati - o meglio ancora, immaginalo in un luogo
della città - la proposta dei circoli filosofici cittadini - in cui
si riuniscono più di due persone per parlare, discutere. Non quindi
la filosofia dell'accademia e degli addetti ai lavori, ma la filosofia
come indagine e amore per la polis, per la politica.
L'idea è quella di un "nuovo" prendersi carico dei problemi da parte
dei cittadini. Ma questo pone altri problemi: chi sono i cittadini?
Hanno un potere di decisione? In quali ambiti? (Io mi pongo il problema
di cosa farò oggi pomeriggio se posso decidere cosa farò oggi pomeriggio;
se non ho un potere di decisione semplicemente me ne frego, attendo
che qualcuno mi dica cosa devo fare). Ho paura che su molte questioni,
nella società complessa in cui viviamo, noi abbiamo un potere di decisione
molto limitato. Anche perché abbiamo, per varie ragioni, smesso l'abito
della critica, della riflessione (o non l'abbiamo mai avuto?).
Cosa chiederebbe oggi Socrate ai suoi interlocutori? Quando ho fatto
questa domanda ai miei alunni dapprima hanno detto la pace, poi, sottovoce,
poiché io ho chiesto cosa veramente pensassero che interessava oggi,
qualcuno ha detto il sesso. Sono entrambe risposte indicative del potere
di decisione di cui parlavo prima. La pace è stata indicata perché era
quello che si aspettavano io volessi, il sesso era il campo sul quale
volevano sapere qualcosa di più, almeno fino a quando non si sono resi
conto che la guerra, presentata dai mass-media, soprattutto all'inizio,
in maniera così asettica e lontana, è in realtà molto vicina. E forse
merita che cerchiamo di capire se ci resta un margine di potere di decisione
in questo campo.
Oggi Socrate mi chiederebbe, ci chiederebbe: Cos'è la guerra umanitaria?
Cos'è il terrorismo? Cos'è la politica? Cos'è il giudizio? Perché sento
questo senso di impotenza? O almeno questo è quello che io mi sono chiesta
negli ultimi mesi. Non ho gli strumenti per affrontare un discorso di
questo genere, né è questo il tema del nostro incontro. Però spesso,
negli ultimi mesi, riflettendo su queste domande, e poi anche sul tema
di questa sera, mi è venuto in mente uno scritto di Hannah Arendt, filosofa,
o meglio pensatrice della politica, come preferiva definirsi. Mi riferisco
a La responsabilità personale sotto la dittatura.
Un testo che ritengo interessante sia per chiarire il senso dell'incontro
di questa sera, sia per proporre un tema possibile per una riflessione
non accademica: il giudizio. Perché Hannah Arendt e perché un suo testo
lo anticipo con le parole di Laura Boella, che ha dedicato ad Hannah
Arendt - e ad altre filosofe - un libro dal titolo Cuori pensanti. "Hannah
Arendt parla intensamente alle nostre società deluse dalla politica,
in quanto richiama a un'idea di potere come capacità di iniziativa,
non titolarità di un ruolo o di un'autorità per disporre dei destini
altrui. E richiama anche a un'idea della politica che è dimensione esistenziale,
attraversa ogni forma di attività e di esperienza, non è tecnica di
governo, ma arte e piacere di stare insieme, di scambiare idee e parole"
.
Nata nel 1906, morta nel 1975, ebrea tedesca, allieva di Heidegger
e di Jaspers , Hannah Arendt ha come orizzonte di pensiero il periodo
tra le due guerre, il nazismo e il totalitarismo. Occorre tenerne conto,
come e più che per altri pensatori, perché il suo pensiero cresce sulle
cose, sui problemi, sugli eventi drammatici fra le due guerre. La questione
ebraica, il nazismo, il totalitarismo, la società di massa, la libertà,
l'agire politico, l'identità, la differenza. Sono le sue esperienze,
la sua vicenda esistenziale - soprattutto l'esperienza dello sradicamento
- che diventano problema filosofico. Il risultato della sua riflessione
è la comprensione forse più acuta di questi fenomeni della storia del
nostro secolo. Nel 1933, con l'ascesa al potere di Hitler è costretta
a lasciare la Germania e a emigrare in Francia. Arrestata nella primavera
del 1940 per la sua attività a sostegno delle comunità ebraiche, riesce
a fuggire e a rifugiarsi negli Stati Uniti, ottenendone la cittadinanza.
Qui insegna filosofia della politica alla "New School for Social research"
di New York.
Nel 1961 fu inviata dal periodico "The New Yorker" a Gerusalemme per
seguire e commentare il processo a Rudolf Eichmann, il gerarca nazista
responsabile dell'olocausto e catturato dal Mossad in Sud America dove
si era nascosto. Queste cronache, poi raccolte in un volume che in Italia
è stato tradotto nel 1964 col titolo La banalità del male. Eichmann
in Gerusalemme, da Feltrinelli, suscitarono una polemica, nata soprattutto,
dice Arendt, da fraintendimenti, come spesso accade (il concetto di
banalità del male, rimasto a indicare l'orrore dei campi di sterminio
nazisti, subì una varietà di interpretazioni).
Su queste cronache, e sul dibattito che suscitarono, nel 1964 Arendt
scrive La responsabilità personale sotto la dittatura, che è
il testo di cui prima dicevamo. Non intendo in questo modo fare paragoni
tra i fatti sui quali oggi proviamo a riflettere e quelli sui quali
rifletteva Arendt. Niente di più lontano da un'arendtiana convinta del
valore dell'esperienza particolare e della necessità di un giudizio
che nasce dalle cose e non applica pedissequamente norme e principi
generali. Credo però che alcune questioni che il testo solleva ci possano
essere utili. Utili soprattutto a tener desta l'attenzione sui rischi
sempre in agguato per la società di massa in cui viviamo. Il testo dunque.
Arendt segue il processo al criminale nazista Eichmann (sarà poi condannato
a morte dal tribunale israeliano).
Quello che la colpisce, e che spinge la sua analisi, è la assoluta
tranquillità, anzi la assoluta normalità di Eichmann, un "banale" mostro:
un uomo che poteva compiere quei crimini e sentirsi tranquillo, giocare
coi bambini, essere un buon padre di famiglia. Non condivide né la linea
dell'accusa né quella della difesa: l'accusa pretendeva di processare,
con Eichmann, un sistema; la difesa, e l'imputato in primo luogo, ribattevano
che non si era trattato d'altro che di ubbidire agli ordini. In entrambi
i casi veniva sottovalutata la responsabilità personale. Arendt dimostra
quindi in primo luogo che esiste una responsabilità personale, esiste
nel caso di Eichmann, esiste nel caso di tutti gli altri "burocrati"
nazisti processati in quegli anni. Assodato questo resta il problema
di capire come sia stata possibile l'esistenza di tanti Eichmann, considerando
che non solo si trattava di ubbidire agli ordini ma, spesso, di condividerli.
Per quanto riguarda il primo punto: "Io ero partita dalla convinzione
che noi fossimo pur sempre d'accordo con Socrate che affermava: 'E'
meglio subire un torto anziché farlo'". Non era così, il ragionamento
che si faceva era che fosse impossibile resistere a qualsiasi tentazione.
Citazione da Mary McCarty (amica e corrispondente di Arendt): "Se uno
ti punta addosso un fucile e ti dice 'uccidi il tuo amico o io uccido
te', egli ti induce in tentazione, ecco tutto". Può esserci una giustificazione
giuridica, non morale. In realtà c'era, secondo Arendt, nel dibattito
suscitato dalle cronache, una diffusa paura di giudicare. Era più facile
ricorrere al concetto di colpa collettiva o, come voleva la difesa e
Eichmann, alla figura del capro espiatorio, che si assume le responsabilità
di tutti e che per questo può sperare di farla franca. Tutti colpevoli
è come dire nessuno colpevole. (Mi è capitato a scuola di mio figlio.
In gita scolastica i ragazzi avevano messo un sonnifero nelle bevande
dei professori - volevano andare a ballare fino a notte tarda. Qualcuno
ci riflette , confessa. Al ritorno si imbandisce un processo , per far
crescere i ragazzi , farli riflettere sul tema dell'omertà, farli confessare
tutti, soprattutto quelli che, sapendolo, non lo hanno detto in tempo
ai professori. I ragazzi, probabilmente guidati da qualche genitore,
hanno scelto la soluzione del capro espiatorio. Uno solo di loro , quello
che , per avere la madre che prendeva sonniferi e il padre medico, poteva
facilmente essere individuato come chi era in possesso del sonnifero,
si accollò la responsabilità, facendolo in modo tale, con l'aiuto determinante
della difesa materna, da risultare alla fine il vero eroe. Coperti i
singoli responsabili del gruppo che aveva architettato tutto, i veri
rei risultarono alla fine coloro che avendolo poi saputo, non avevano
confessato immediatamente - tra cui mio figlio, superficiale come tanti
- che hanno dalla loro però il fatto che non avevano avuto il tempo
di riflettere e di avere rimorsi come il ragazzo che poi confessò.
Diversi livelli di responsabilità - non fu nemmeno menzionata la possibile
responsabilità di chi aveva permesso che dei ragazzi in gita potessero
procurarsi e mettere un sonnifero nelle bevande - trattati in maniera
assolutamente diseguale e un processo altamente diseducativo). E' lo
stesso principio che vale in una società burocratizzata come quella
nazista, è il principio delle rotelle dell'ingranaggio, che faceva perdere
di vista che quello che si giudicava era un uomo. Al quale si può, nel
processo, ribattere: "E perché lei è diventato una rotella del sistema
o lo è rimasto, se quelle erano le circostanze?". Parte da qui la riflessione
sul regime totalitario, che Arendt distingue dalle dittature, dallo
stesso fascismo. Da un lato si chiede come fu possibile l'adesione di
molti, un'intera generazione, al nazismo, dall'altro tenta di rispondere
a chi, fra questi, accusa coloro che non collaborarono per non essersi
assunti la responsabilità di cambiare dall'interno il regime, di rimanere
al loro posto per esercitare un'azione moderatrice e salvare almeno
qualcuno. L'adesione "non era una simulazione ipocrita dettata dalla
paura, ma il fervore improvviso di non perdere il treno della storia.
Da un giorno all'altro ci fu un cambiamento di opinioni per così dire
sincero, che coinvolse la grande maggioranza della gente di tutti i
ceti e mestieri, e che allora fu accompagnato dall'incredibile facilità
con cui furono bruscamente troncate amicizie di una vita. Per farla
breve: quel che ci sconvolgeva non era il comportamento dei nostri nemici,
ma quello dei nostri amici, senza che questi avessero fatto nulla perché
ciò accadesse. Essi non erano responsabili del nazismo; erano soltanto
impressionati dal suo successo, e incapaci di dare il proprio giudizio
contro quello che ritenevano un verdetto della storia" (p.103).
Ci sono altri termini, meno eufemistici, per dire di questo meccanismo:
si sale sul carro del vincitore, si diventa più realisti del re (è il
caso di molti giornalisti italiani, non responsabili della guerra, ma
ardenti suoi sostenitori e per questo soprattutto propalatori di bugie
che nemmeno Clinton direbbe: al primo bombardamento di una colonna di
profughi, poi riconosciuto come "errore" dagli americani, in Italia
si dicevano tutti convinti che era stata una manovra serba per dare
la colpa agli americani). "Vi furono poche persone, nel Terzo Reich,
che approvarono incondizionatamente i crimini successivi; ma in cambio
furono molti coloro che [all'inizio] erano assolutamente pronti a commetterli"
(p.114). Sono quelli che dopo la guerra si giustificarono dicendo che
erano rimasti al loro posto, posizione secondo loro più "responsabile"
di coloro i quali si ritirarono a vita privata. Il loro argomento è
quello del male minore. "Quest'argomento dice che di fronte a due mali
si è obbligati a scegliere quello minore, mentre sarebbe irresponsabile
rifiutarsi addirittura di scegliere.
Coloro i quali denunciano la fallacia morale di quest'argomento vengono
normalmente accusati di sterile moralismo che nulla ha a che fare con
la realtà della politica: gente che non è disposta a sporcarsi le mani".
Su questo piano, secondo Arendt, è stato più il pensiero religioso che
quello filosofico - ad eccezione di Kant - a respingere qualsiasi compromesso.
Nel Talmud è scritto: "Se vi si chiede di sacrificare un uomo per il
bene della comunità, non lo consegnate. Se vi si chiede di consegnare
una donna da disonorare per la salvezza di altre donne, non lasciate
che sia disonorata" (p. 115). Secondo Arendt la debolezza dell'argomento
del male minore sta "nel fatto che chi sceglie il male minore dimentica
rapidamente di aver scelto a favore di un male" (p. 115). Ancora di
più Arendt osserva che questo argomento risale proprio all'epoca nazista,
allo "armamentario terrorista e criminale. L'accettazione del male minore
viene consapevolmente utilizzata per abituare i funzionari e la popolazione
ad accettare in generale il male in sé" (p.116). Era cioè il meccanismo
interno di funzionamento di un regime che aveva creato un nuovo diritto
la cui pietra angolare era il comandamento "tu devi uccidere". Allora
il problema non può essere il cambiamento dall'interno o il male minore,
il problema è se dare o no il proprio consenso, il proprio sostegno
di fatto a un regime di questo tipo.
Il problema è il giudizio e la capacità di non confondere il consenso
con l'obbedienza. Vale la pena di riportare per intero l'argomentazione
finale di Arendt, avendo presente, come ormai spero si sia capito, il
problema del giudizio, e in particolar modo il problema della necessità
del giudizio - e le sue implicazioni - sulla guerra in corso. "Coloro
che non collaborarono e furono accusati di irresponsabilità dalla maggioranza,
furono gli unici che osarono giudicare personalmente [non perché disponevano
di un sistema di valori migliore, furono anzi "gli elementi della società
rispettabile" i "primi a cedere cambiando semplicemente un sistema di
valori con un altro"]. Direi dunque che coloro che non collaborarono
si comportarono così perché la loro coscienza non funzionava in modo
per così dire automatico - vale a dire come se disponessimo di una serie
di regole apprese o innate che applichiamo quando occorre, cosicché
ogni nuova esperienza o situazione è già giudicata a priori e non dobbiamo
fare altro che eseguire quanto già sapevamo in anticipo o abbiamo appreso.
Io credo invece che essi abbiano adottato un altro criterio: che si
siano chiesti fino a che punto avrebbero potuto restare in pace con
se stessi se avessero commesso certi atti, e che abbiano quindi preferito
non commetterli. Non perché in questo modo il mondo sarebbe cambiato
in meglio, ma perché solo a questa condizione essi potevano continuare
a vivere restando se stessi. E quindi scelsero anche la morte quando
furono costretti a collaborare. Per dirla in termini estremi: si rifiutarono
di uccidere non perché ubbidivano rigorosamente al comandamento "non
uccidere", ma piuttosto perché non volevano convivere con un assassino
- cioè con se stessi. Il presupposto per formarsi questo tipo di giudizio
non è un'intelligenza altamente sviluppata o un senso morale estremamente
differenziato, ma semplicemente l'abitudine a convivere senza infingimenti
con se stessi, a trovarsi in quel silenzioso colloquio tra sé e il proprio
Io che da Socrate e Platone in poi siamo soliti chiamare "pensiero".
Pur essendo la base di ogni filosofare, questo tipo di pensiero non
è specialistico e non affronta questioni teoretiche. La linea di demarcazione
tra chi giudica e chi non si forma un giudizio passa trasversalmente
per tutte le differenze sociali, per tutte le differenze di civiltà
e di cultura" (p.124). Questo sintetico resoconto del testo di Hannah
Arendt non rende appieno la ricchezza di articolazioni del suo pensiero.
Tuttavia alcune considerazioni è possibile farle, soprattutto in relazione
al tema del nostro incontro. Intanto possiamo considerare questo testo
un modello per un approccio filosofico che nasce dal vivo dell'esperienza,
dall'analisi di fatti concreti e di problemi che ci impegnano in quanto
cittadini del mondo. Modello che contiene precise implicazioni, che
rimandano ad altri luoghi della riflessione arendtiana. C'è il rifiuto
del pensiero metafisico e dell'astrattezza universalistica.
Il richiamo al dovere dell'obbedienza si sostanziava di tutta una
tradizione di pensiero politico normativo in cui la comunità e la ragion
di Stato rendevano "morale" l'espletamento del proprio dovere e l'obbedienza.
Arendt dice che "gli uomini e non l'Uomo, vivono sulla Terra e abitano
il mondo" (Vita activa, p. 7) e che l'agire politico si fonda su questa
pluralità. L'agire politico, che per Arendt è la pratica che conferisce
senso all'esistenza, non ha nulla a che fare col potere che dirige e
impone, ma molto con la profonda necessità degli uomini di comunicare
e di agire insieme, di darsi reciprocamente valore. Politica vuol dire
quindi spazio dell'elaborazione - nel rispetto delle diversità - delle
relazioni, dei fini, dei modi della convivenza senza che questi siano
imposti dall'alto in nome di un idea di bene comune da cui inevitabilmente
molti saranno esclusi. Lo spazio politico è quindi uno spazio potenziale,
non fattuale, non dato una volte per tutte, fosse pure il migliore dei
mondi possibili. E' lo spazio della democrazia partecipata. Ricordiamo
che chi durante il nazismo si ritirò a vita privata, comportamento che
per noi è il contrario della partecipazione, in quel caso eccezionale
assumeva l'unico comportamento adatto a chi è consapevole di non avere
nessun potere decisionale. Si riservava lo spazio della dignità. Erano
coloro che non si erano adattati al già giudicato, al verdetto della
storia che rendeva fatale l'avvento del nazismo. Erano coloro che esercitavano
il giudizio sulle cose, non applicando astrattamente e automaticamente
principi generali. Era una situazione eccezionale, una situazione di
conflitto in cui non si poteva ricorrere alle norme morali che fino
a quel momento non avevano posto alcun problema.
Possiamo immaginare oggi, la situazione di chi ha coltivato l'illusione
che la guerra fosse finita in Occidente, che gli Stati fossero sovrani,
che non potessero esistere guerre "giuste"; e a cui invece si dice che
esistono guerre umanitarie, che esistono gli "errori" di chi bombarda
ospizi e ambasciate, che occorre scegliere tra Milosevic e la Nato.
Non siamo, ovviamente, nella situazione di doverci ritirare a fare vita
privata, di nasconderci o di emigrare. Ma abbiamo la necessità di difendere
l'autonomia del giudizio e di immaginare un luogo del dire e dell'agire
politico che non sia quello della delega o del consenso conformista.
Nota: Questo testo è stato preparato in occasione della "Festa
del Libro", serie di incontri tenutisi dall'1 al 6 giugno 1999 a Caltagirone.
[Bibliografia minima / di Pina La Villa] [Bibliografia
degli scritti di Hannah Arendt reperibili in italiano]
Released: September, 1999

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2000
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