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Un cavallo che si farà
di Sebastiano Leotta
[Scheda libro e autore]
Al solito un valletto, con tanto di laurea in filosofia, citazioni
in tedesco e puntate patrologiche. Parole di monito, caro Sgalambro,
parole di monito avresti dovuto indirizzare alla tua corte di
docteurs. Ed ecco il vero interessante mistero de "La morale
del cavallo", dei due interlocutori chi è lo scemo? Il libretto
che mirava, dico mirava, alla levigatezza e alla precisione balistica
del trattatello, afferma questo: se qualcosa mi ha insegnato il
cavallo è l'obbedienza, e giù quaranta presuntuose paginette.
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To the usual valet, with so much of degree in philosophy, quotation,
citation in German and patrologic aim. Words of warning, dear
Sgalambro, words of warning you would have owed to address to
your court of docteurs. And here is the true interesting mystery
of "The moral of the horse", of the two interlocutors
who it is the fool? The book that contemplated, says it contemplated,
to smoothness and the ballistic precision of the trattatello,
this affirms: if something has taught me the horse it is obedience,
and down forty conceited little pages. |
Da sotto ai tavoli del filosofo si raccolgono briciole di pane e torsoli
di mela. Al solito un valletto, con tanto di laurea in filosofia, citazioni
in tedesco e puntate patrologiche, è autorizzato alla raccolta. Non
si è filosofi impunemente, e all'epigono confesso segue la petulante
schiera dei post-epigoni.
Probabilmente esiste a Catania un autentico Képos epicureo dove poter
curare i mali dell'anima. Da questo giardino esce La morale del cavallo.
Cose, come questo libretto, che potrebbero benissimo stare in un cassetto
oppure dette agli amici, a miglior fortuna della Ciarla, nelle sere
d'estate in piazza teatro Massimo, vanno, invece, a infoltire già vasti
rameggi della prosa filosofica, parafilosofica, ecc. ecc.
Ah! Caro Sgalambro fosti tu la causa e il dannatissimo effetto. Alla
tua corte si scrivono aforismi, trattati e postfazioni buone a durare,
solo una mezz'ora, il tempo di una granita.
Sgalambro a Catania ha fatto scuola e ha tra i suoi lettori, direi
peggiori, i laureati di cui sopra. Sgalambro sogghigna e dice: "credono
di essere me". Eppure so per certo che ben altri lettori ha Sgalambro.
Letterati clandestini, teologi occasionali, insegnanti di fisica e
matematica, dotti, classicisti che accompagnano allo pseudo-longino
Chandler e "La morte del sole", se questi, per naturale
pudore di lettori, si autoesentano dallo scrivere a qualcuno tocca
il compito di scimmiottare il maestro di casa nostra, contrabbandando
un'inutile forgerie, una manifesta imitazione di stile (persino
nei tempi verbali, nelle clausole che sigillano solennemente un periodo)
come omaggio al maestro. Parole di monito, caro Sgalambro, parole
di monito avresti dovuto indirizzare alla tua corte di docteurs.
Ricordate amici, i moniti di F.H. Bradley nell'introduzione ad "Apparenza
e realtà".
Una filosofia equestre intesa come etica attraverso cui far trasparire,
pendant il cavallo e il suo cavaliere, il rapporto, gerarchico si
intende, tra maestro e allievo nell'avvertenza dell'autore al lettore
- come sempre qui di presuppone l'imbecillità del lettore -, si informa
che due sono gli interlocutori. Bene. Ma non aveva detto a suo tempo
il maestro che in filosofia non ci sono interlocutori e, anzi, l'interlocutore
è sempre lo "scemo di turno" (Del pensare breve,
p. 122). Ed ecco il vero interessante mistero de "La morale del
cavallo", dei due interlocutori chi è lo scemo? Il libretto che
mirava, dico mirava, alla levigatezza e alla precisione balistica
del trattatello, afferma questo: se qualcosa mi ha insegnato il cavallo
è l'obbedienza, e giù quaranta presuntuose paginette.
Se qualcosa gli avesse insegnato invece la pratica del maestro e
la lettura è quella di non scrivere nemmeno una riga. In ogni caso
se si voleva scrivere qualcosa sull'obbedienza non si poteva fare
altro che rinviare agli Esercizi spirituali e alla Lettera
sull'obbedienza di Ignazio di Loyola oppure ad alcune decisive paginette
del Rosmini. E si ricordi pure un saggio di Gianfranco Contini al
suo maestro, il filologo Angelo Monteverdi, dove si trova questo memorabile
incipit: "vi si osserva santamente...". Così ogni allievo
dovrebbe rivolgersi al maestro. Ottime cose per chi si avvia alla
strada, più che difficile, stretta, del pensiero e avrà di che modellare
e affinare il becco, come un osso di seppia. La questione poteva essere
trattata, al limite, nello spazio di un elzeviro.
Buona parte di chi scrive di filosofia, non parlo di filosofi che
potrebbero fare a meno anche di scrivere, sono quasi sempre degli
scrittori mancati, così trovano nella filosofia un repertorio di nomi,
di categorie, di sostanze, di brache e di galosce, da poter indossare
e manipolare a piacimento con effetti e trasalimenti vari (Ah! L'odore
degli eucalipti), dando così nome, il nome di filosofia allo scorno
dell'essere uno scrittore mancato. A p.13, tanto per certificare alcune
frasi a braccio, si legge: l'immagine narrativa ha limiti assoluti;
a p.20: come Dio bisogna farne una faccenda privata, dell'ottimismo
bisogna farne una faccenda pubblica. Il lettore non capisce (sarà
l'imbecille di prima), comunque ne vorrebbe conto. Non manca nemmeno
il valzerino, con coda lirica, sul male e sulla sconfitta, ché l'essere
scavalcati dal cavallo è fonte dell'idea del male, ed è lo stesso
che dire del crollo di un ponte o di un condominio con annessi morti
e feriti. Ignoro la scienza dell'equitazione e le grand philosophe
Caprilli, ne ignoro il significato e forse mi sfugge il senso di questo
libretto. Mi perdoni Herr cappellani: "il sottoscritto non è
affatto un filosofo..." (Kierkegaard prefazione a Timori e
tremori), ma mi pare che qui siamo all'apoteosi del pretesto (adoro
i pretesti ma che siano smaglianti e seduttivi) e mi attendo, a questo
punto morali tratte dalle corse dei cani e dalle pulci ammaestrate,
ermeneutiche del foraggio ed ermeneutiche dei covoni, omniaque
insomma. La verità è che all'apodissi non precedono profilassi, un
itinerarium mentis preparatorio dell'aspirante filosofo, anche
perché dalla filosofia non si genera filosofia, e tanto meno filosofi,
bensì bons mots de circostances e vanità scrittoria. La stessa
vanità del castrone "pago di sé" di cui parla Ottavio Cappellani.
Ma ad ognuno la propria mitobiografia. Oppure La morale del cavallo
è un pastiche, un delizioso omaggio, un bouquet
di fiori secchi, come i pastiches proustiani, al maestro amato.
No proprio di no, il pastiche richiede una notevole inventività
stilistica non consistendo, se qualcuno lo crede, in una semplice
imitazione di stile. Direi, per finire, che il ragazzo è intelligente
e si farà, "la vita che t'arride / di speranza e gaudio piena"
così canta un baritono verdiano. Tuttavia consiglierei di seguire
Schopenhauer (Il mondo, cap. 13), sarà bene per il momento
"metterlo sotto l'assoluta tutela della ragione", fino a
miglior riuscita, aggiungerei.
Si scelga Sgalambro come educatore ma per Dio gli si renda miglior
servizio, gli si vellichi la barba se l'ha, o gli si annodi la cravatta,
altrimenti non resta che invocare, ancora tu maestro, la stupidità.
N.B. Non so nulla di cavalli, ricordo solo un formidabile,
potentissimo racconto di Tolstoj sulla vita e sulla morte di un castrone
(Cholstomèr) ma non vorrei che mi si indicasse come persona
troppo compassionevole. In ogni caso sarebbe colpa mia e non di Tolstoj.
[Scheda libro e autore]
Released: May, 1998

******July,
2000
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