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articolo d'archivio di Girodivite mensile delle città invisibili

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Sessantotto/ Il gioco del libro, del film, della musica: sul Sessantotto


Un libro, Lettere a una professoressa? Un telefilm, o come si diceva allora un adattamento televisivo La freccia nera? Una musica, I tempi stanno per cambiare con la voce gracchiante di Bob Dylan o C'era un ragazzo che come me con la voce bravo-ragazzo di Morandi? Confesso di non appartenere alla generazione che aveva vent'anni nel 1968, né di quella successiva. Tuttavia anch'io sono stato attraversato dai "miti" Sessantotto, e quando penso al Sessantotto, penso a questi tre "oggetti". Una associazione istintiva, puramente personale e con il forte carattere del dubbio e del punto interrogativo, della proposta anche. Altri associano altre cose, libri o film, immagini, fatti o visi. Questo breve articolo vuole anche essere una domanda, rivolta ai lettori, per sapere quali altri pensieri o immagini, quali associazioni d'idee essi hanno. Quale percezione mentale di quel punto della storia che noi chiamiamo Sessantotto.

Lettera a una professoressa

In uno dei paesi più cattolici della terra, con uno dei più alti indici di discrepanza tra fede ufficiale e fede praticata, il testo di un cattolico è diventato per una massa di ragazzi, solo in parte cattolici in gran parte atei o di altra inquietudine esistenziale, testo di riferimento. Ciò che veniva detto dalla critica marxista anche con parole simili, non ha avuto la stessa durata o la stessa capacità di penetrare nel cuore oltre che nelle menti. E ancora valga questa piccola osservazione in margine: che c'è stato un tempo in cui i libri venivano discussi. Li si leggeva, e i lettori si sentivano stimolati a parlarne tra di loro, rileggerne i passi collettivamente, il libro "metteva in movimento". La "Lettera a una professoressa" di un oscuro funzionario cattolico della periferia italiana ha attraversato le generazioni, ha attraversato i significati. E' stato impossibile decostruirlo. E' uno di quei testi, rarissimi, che è stato impossibile fagocitare in qualsiasi modo, da parte del "sistema" o del "contro-sistema". In anni successivi sono stati i testi della teologia della liberazione, le azioni e i resoconti delle "missioni" provenienti dal Terzomondo - pensiamo a "Nigrizia" o a "Manitese" - che hanno assolto alla funzione della chiesa-cattolica-buona, quella che ha giustificato i Marcinkus e le azioni di guerra in Cile Argentina e nelle Filippine. Ma la "Lettera" è rimasta intatta, nel suo significato, nella semplicità e verità delle sue parole. I cattolici hanno sempre avuto una speciale attenzione per la scuola. Da quando hanno dovuto contrastare la propaganda protestante, dopo la Riforma. Ecco allora i gesuiti e le scuole salesiane. Avere l'egemonia nelle scuole, simbolizzato dal crocifisso posto alla testa della cattedra, è stato un punto d'onore. Poi invece lo stato unitario in Italia si formò contro il beneplacito della chiesa cattolica, si ebbe il "divorzio" tra Stato e Chiesa che solo la grande convergenza del Concordato fascista ristabilì. Dopo la Resistenza, la nuova Repubblica ereditò la petizione di principio di scuola laica in laico stato, ma con il partito maggioritario di governo che si proclamava cattolico. La questione dell'educazione negli anni Sessanta verteva ancora sulla richiesta da parte dei cattolici del finanziamento pubblico per le scuole private (in gran parte loro), mentre il ministero è stato sempre retto da un fervente cattolico. Negli anni Sessanta il dibattito interno alle organizzazioni cattoliche della scuola (Fuci ed altre) era ancora quello. Poi, la "Lettera". Che provocò. Sconvolse. A destra e a sinistra. Ricordò a molti l'esistenza delle classi povere. In un'Italia che voleva avviarsi verso l'opulenza consumistica senza aver risolto i problemi di base. I cattolici ufficiali fecero fiamme e fulmini contro la "Lettera". Alcuni giovani cattolici lessero nella "Lettera" delle verità che invece collimavano con la propria etica di credenti, l'idea che la "rivelazione" andava impegnata e investita nella realtà. In quei primi anni Sessanta bastava girarsi attorno per vedere quale verità fosse, quella società che stava crescendo mantenendo enormi voragini di povertà e di "disagio". Ci furono giovani cattolici che lessero la "Lettera" e ne fecero strumento di vita, e hanno mantenuto negli anni il senso del loro impegno. "I care", m'importa. L'ho trovato riscritto sull'androne di una scuola, in una delle nostre scuole medie, in uno dei paesi più periferici del nostro periferico Sud. Riscritto, perché tempo addietro qualcuno aveva incendiato l'androne: i ragazzi, insieme agli insegnanti e ad altri volontari, hanno ricostruito quello che era stato distrutto, senza aspettare che l'Amministrazione si muovesse. Perché è importante, perché importa e ci importa.

La freccia nera

Lei ricordo era giovanissima, capelli corti, una Loretta Goggi che trovavo bellissima. Lui non ricordo il nome - tipico dei maschietti nei confronti degli altri maschietti - uno biondino slavato. Quel che importava era questo strepitoso amore. Il carattere dell'eroe, solitario e abile nel lancio della freccia. Ma accanto a lui l'allegra brigata, la resistenza sulle montagne (in questo caso nel bosco). Il mondo altro dei buoni che resiste nonostante lo strapotere dei cattivi. Tra i cattivi, credo ci fosse Arnoldo Foà a interpretare lo sceriffo di Notthingam. Nella storia delle produzioni per la televisione lo si ricorda ancora, la Freccia nera oltre che per gli enormi indici di ascolto, per quella scena della battaglia con cui regista e scenografo riuscirono a simulare disponendo di pochi ronzini (prepotenza dei budgets) lo scontro tra due eserciti. Ecco, "La freccia nera" per me richiama tra gli oggetti filmici del tempo più di tutti il Sessantotto. All'inizio, d'istinto, avevo pensato a un altro film, "Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto" che però è un film postumo, rimanda a tutt'altra rabbia, a un'epoca successiva al Sessantotto. E' un film per la generazione del Settantasette. C'è una scena di "Indagine" in cui un gruppo di studenti viene pestato. C'entra che occorre cercare qualcuno da incolpare per un qualche fatto di sangue. C'è questa scene concitata, di cellulari, poliziotti con caschi e bastoni, l'assoluta esiguità e inconsistenza degli studentelli. La loro inconsistenza. Mi dicono dei "Pugni in tasca" di Bellocchio, film che non ricordo di aver visto. "Fragole e sangue" l'ho visto una ventina d'anni fa, una notte tarda in televisione: uno speciale sui film della contestazione negli Stati Uniti. Ma è un film che ho sempre pensato riguardasse più gli americani che gli europei o gli italiani. "La freccia nera" è stato uno sceneggiato televisivo, uno degli ultimi della Rai cattolica che voleva educare. Tratto come altri sceneggiati, da un feuilleton ottocentesco: si adattavano così bene alla trasposizione televisiva, a puntate. Le soap opera di allora, quando ancora non esisteva la pubblicità (se non nelle dosi e negli orari ammessi, per Carosello...). Si creavano i divi, e il fenomeno delle parodie - bravissimi il Quartetto Cetra. Nella "Freccia nera" i buoni erano buoni a tutti i costi, avevano il viso da buoni, levigati, e anche quando si arrabbiavano non dicevano mai le parolacce. I cattivi erano torvi, ma anche loro non dicevano le parolacce. Le parolacce erano bandite della televisione che voleva educare. Eppure il bacio tra Loretta Goggi e il suo Robin è rimasto tra i baci più sensazionali ed eversivi della storia di quegli anni. Tale da fra crollare qualsiasi Stato etico e Monolitico. Perché un bacio contro il potere, un bacio della guerriglia tenera e giovane (avrà un qualche significato Che Guevara e il suo richiamo alla tenerezza?). Non so come potessero prendere quel bacio i cattolici funzionari della Rai del tempo o i rigidi calvinisti togliattiani. Che potesse avvenire, mi fa pensare che dovevamo già essere in "età avanzata", forse all'inizio degli anni Settanta. All'epoca tuttavia, metà della popolazione maschile della mia età dell'epoca avrebbe voluto essere nella foresta nera, a difendere la libertà e il diritto e soprattutto a baciare Loretta Goggi.

C'era un ragazzo

Morandi Gianni, di professione cantante. Il suo pubblico: teen-ager e mamme conquistate dal suo aspetto da bravo ragazzo. Niente a che fare con l'inquietante fard di Bobby Solo o con lo sculettamento di Celentano. Grandi mani, grande sorriso. Canzoni castamente d'amore. Nessuno si sarebbe aspettato da lui "C'era un ragazzo". Che è una canzone pacifista, parla della guerra del Vietnam, e della morte: "c'era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones…". Con il controcoro: "tataràta, tataràta, tataràta" che non era il suono di un tamburo né la fanfare gioiosa di una tromba, ma il suono del mitragliatore. E' la prima volta, per quel che ne so, che il suono della mitraglia entra nella canzone italiana post-bellica. C'era stato il "bang" associato al bacio, e i "capelli che portiam" dei gruppetti rock italici con accento inglese. Ma si trattava dell'estrema moda. Chi cantava quelle canzoni lo si individuava subito, nella diversità programmatica nel modo di vestire e di cantare. Gianni Morandi invece era diverso. Era il bravo ragazzo della porta accanto, il provinciale emiliano, sani e semplici principi, il ragazzotto che tutte le mamme avrebbero voluto per la propria figlioletta che tra due mesi avrebbe smesso l'apparecchio ai denti e aveva già pronto l'abito per il suo primo ballo sociale. Ci piace immaginare che fu il caso a portare Gianni Morandi, che fino ad allora aveva cantato solo canzoni d'amore ma inessenziali, a cantare quella canzone e a diventare così immortale. Non astute alchimie discografiche, sondaggi di mercato o altre cose del genere. La vicenda successiva di Morandi del resto, lo ha temprato come interprete intelligente di una linea melodica moderata della canzone italiana. Il caso che porta un ragazzotto come Morandi a distogliere lo sguardo dalla piccola bugia con cui si dovrebbe ingannare la mamma della ragazza per farla stare assieme a lui ("fatti mandare dalla mamma, a prendere il latte… ho bisogno di te ee"), e puntare l'attenzione su una delle guerre che la politica di potenza dell'Occidente stava perpretando. E come per la "Lettera" e per la "Freccia", con Morandi avviene lo stesso miracolo: la durata, la permanenza nel tempo attraverso le generazioni, avviene anche grazie al fatto che veicolo è qualcuno di cui nessuno si aspetterebbe mai una cosa del genere. Nessuno si sarebbe mai aspettato una canzone impegnata da Morandi. L'unica, politica, da lui cantata, diventa un inno. La canta Joan Baez. L'hanno cantata tutte le generazioni italiane successive che hanno fatto le marce per la pace, contro la disoccupazione, contro i tentativi eversivi o di rincretinimento anti-democratico del nostro paese. A Comiso, come a Roma o a Milano. Nel Sessantotto naturalmente ci sono state decine di altre canzoni. Gli anni Sessanta sono un mondo di canzoni. In quegli anni i ragazzi usufruiscono dei benefici effetti dell'industria di consumo, con i 45 giri, e i giradischi a cubo, trasportabili, immancabile in ogni festa. Ci sono le canzoni dell'industria e le canzoni della contestazione. "Dio è morto" dei Nomadi, e Paolo Pietrangeli ("Contessa"), i Dischi del sole. I ragazzi dell'impegno si trasmettono le canzoni, gli slogan, a volte anche la storia. Quando Morandi con il suo viso da bravo ragazzo raccontava quella storia, del ragazzo che amava i Beatles e i Rolling Stones, parlava di tutti noi, anche di noi che non eravamo ancora nati.
Released: March, 1998


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******July, 2000
 
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