articolo
d'archivio di Girodivite mensile delle città invisibili |
***** ***
Il sorriso degli occhi
di Matteo Molinari
Confesso che sono venuto a Francofonte, per così dire, leopardianamente
(nel senso della Ginestra). Ero (e sono tuttora) in un periodo piuttosto
difficile: ma forse non dovrei nemmeno definirlo periodo, almeno non
se si intende che ogni cosa ha sobriamente "il suo tempo",
perchè questo periodo sembra volersi inappropriatamente distendere e
prolungare come un pipistrello sui mesi a venire: col risultato di rendere
perlomeno fuoritempo e quindi ridicola la mia situazione. Ho deciso
di venire all'improvviso, e non è stata una decisione di entusiasmo:
piuttosto una scelta che come tante altre cercava di ricatapultarmi
su qualche possibilità che mi ridesse il senso della possibilità tout
court. Ma con la consapevolezza che qualsiasi cosa avrei fatta l'avrei
fatta come una ginestra sul vulcano: prosciugato e arido. Okey, mi pare
che la nota patetica possa bastare. Comunque, sarà che il Vesuvio tace
e l'Etna lì da voi borbotta, sono trasalito, anche se solo per il tempo
di una scossa. Forse è stato il fatto di essere in una scuola: luogo
odiato e sacro, consacrato per anni (alle elementari) con vomiti continui,
e ora, al liceo, combattuto fino all'estremo. A Francofonte ho scoperto
per la prima volta l'unico spazio per il quale mi sentirei pronto a
lottare: cioè una scuola che contraddice se stessa, una scuola che costantemente
cerca di tenere spalancata la libertà all'individuo impedendo che le
strutture di potere (che in una scuola, come in qualsiasi altro luogo
di aggregazione, si formano spontaneamente) si solidifichino. E lo fa
nel modo più semplice: permettendo a ognuno di fare qualcosa, dove "fare
qualcosa" si contrappone all'"occupare (indebitamente) tempo"
della scuola, il tempo in cui si formano le strutture di potere (intese
qui al loro livello più essenziale, più intimo: come strutture di sopraffazione
tra ragazzi e ragazzi). Fare cose, progetti, è umano, contro l'inumanità
della struttura scolastica che fa del sapere una nube e in quindici
anni non mette mai di fronte ad un solo problema serio da risolvere.
La scuola, se asseconda le strutture di potere, non fa che riprodurre
al suo interno la mafiosità: intesa nel senso più vero, come appartenenza
e affiliazione al gruppo, come abitudine a dimenticare la problematicità
della cultura. Scrivo da un posto in cui l'organizzazione della cultura
ha risolto e allontanato da sè qualsiasi problema classificando ed enciclopedizzando
tutto: ed è giunta al livello forse più alto e pervasivo di mafiosità,
quello che Catania e la Sicilia (per fortuna) non possono sperimentare:
che è la mafiosità culturale, l'appartenenza di setta in cui quella
cultura che dovrebbe combattere ogni affiliazione, ogni tentativo di
piegare il dialogo aperto, laico, è diventata un'arma sociale e nulla
più. Così, tra i pannelli antincendio affumicati da quella "piccola
mafia" che ha assorbito con il pane la mafiosità, e con lo sguardo
a un'altra, più familiare mafiosità, ho sentito visceralmente l'urgenza
di imbiancare la scuola, di disegnare, di stare lì in quei giorni: anzi
direi che proprio la Sicilia e Libera sanno restituire il senso dell'urgenza.
Ora non so più esattamente com'è andata: mi ricordo il sorriso sornione
di Sergio che passava col sigaro tra le aule, tutti quei rulli uno dietro
l'altro che quando la sera prima di partire siamo stati a Sortino ho
detto ad Antonello e a Laura, davanti a un cielo poco uniforme: "bisognerebbe
dargli un'altra mano...". E poi la cucina, la signora che ci portava
il sugo di melanzane, Laura sui trampoli, le dita di Armando che si
agitano nell'aria mentre parla. Forse dovrei salutare qualcuno: qualche
bambino soprattutto (Giuseppe, sempre schizzato di bianco e mobile,
mobilissimo, e Cristina, con cui giocavo a chi rideva per primo e che
in questo gioco è bravissima, e Claudia, che assaltava la scuola dopopranzo
per cercare Laura e poi fuggiva, ed Elisa che aveva un po' l'aria da
mamma saccente, che ti guarda e ti chiede ma in fondo in fondo sa bene
lei quello che va fatto) o forse i bidelli (la signora che mi guardava
disperata per com'ero sporco di colore sulla barba). Però è strano,
quasi fastidioso salutare ora, da qui, perchè la distanza non è solo
geografica: sono le parole che non funzionano, le parole che a Bologna
hanno sempre quel sapore di elegia. Bisogna trovare un modo di insinuarsi
nel linguaggio incrinandolo per farvi pervenire questo testo ancora
integro, magari un po' ammaccato. Più che il piccolo principe, per vedere
bene davvero quello che c'è da vedere bisognerebbe occupare quasi fisicamente
la distanza che ci separa, come faceva quel personaggio di Sartre che
sparava a casaccio all'uscita di un cinema. Qui regna una separatezza
continua, di cui non cesso mai di stupirmi: tanto che mi sorprendo a
vagare di continuo per andare incontro alle cose, a toccare le persone
per sentire se ci sono, cosa che a Francofonte non avevo bisogno di
fare. Bologna è una città che ha la distanza dentro di sè, come un'impalcatura.
Per questo qui la lotta è più tremenda: occorre spogliare ogni parola,
ogni gesto del suo stato di soggezione a qualcosa o a qualcuno che l'ha
fatto dimenticare nella sua essenza. Forse l'essenziale è invisibile
agli occhi: ad Armando questa frase piace molto, l'ha fatta scrivere
dappertutto nella sua scuola. Ma qui c'è di più: c'è che uno potrebbe
chiedersi: quali occhi?
Released: February, 1998

******July,
2000
|
|
|
|