articolo
d'archivio di Girodivite mensile delle città invisibili |
***** ***
Note a margine
di Sebastiano Leotta
Un'intimità con sé stessi che cerca continuamente la relazione, una
vita, potremmo dire, al dativo. Infatti, il dativo è il caso delle relazioni
con se stessi e con gli altri, dunque il caso della comunione, della
compartecipazione, della pietà, della "pietas" insomma: "cca
ci su i manu". In questo offrire le mani c'è ancora un residuo
di rapporto che lo lega all'altro, quindi si ferma al di qua di un nichilismo
compiuto 8immaginiamo l'assenza del verbo, una frase puramente nominale,
la spettralità dell'ultimo Caproni).
Troviamo la condizione di un io in totale dissidio che nella poesia
non trova catarsi, anzi una riconferma del proprio "cor irrequietum":
"a poesie è / comu na cannila: / sciuscia cca". Questa poesia
vuole assegnarsi una fine, ma questa fine coincide con il termine stesso
della propria esistenza individuale: "Mon unique espérance est
dans mon deséspoir" (Racine). La poesia non è dunque risarcimento,
anzi aumenta il senso di precarietà. La scrittura poetica rivela la
sua natura illusionistica ("ava / tri uri ca caminu e sugnu sempri
ccà").
Qui non c'è nessuna ricerca sul dialetto, non vi è dialetto della nostalgia
della comunità perduta, una lingua archeologica, una protolingua, anzi
il dialetto di "Quattru sbrizzi" non ha bisogno nella gran
parte dei casi di traduzioni. Non mi sorprenderei se molti di questi
versi avessero una originaria stesura in lingua. Quello che accade è
la tensione tra l' "humilitas" della parlata locale e il contenuto
drammatico e mentale dei versi. Accade questo, che il dialetto non rende
accettabile il dramma, non lo risolve alla ricerca di una consolante
lingua perduta quanto rende più inquietante la biografia di Salvo Basso
perché il dissidio è portato nelle zone dell'affettività, della ristretta
comunità dei dialettali, quindi la natura dei suoi versi (lo scopo della
sua operazione colta e raffinata) è natura ludica, ironica, di una ironia
che potremmo dire ariostesca, dove la condizione di Salvo Basso è abbassata
di tono e, tramite il dialetto, privata della sua presunta e irrelata
singolarità. Ci vuol poco e si arriva alla parodia dell'elemento drammatico,
essendo la parodia, il contrappunto giocoso, uno dei momenti della intelligenza
di sé. Il dialetto diventa il luogo dell'ironia, non si tratta di scoprire
il punto fisico o metafisico, l'io è questa incompiutezza ("l'assu
d'oru ca mi manca"), insidiosa eppure necessaria. La scrittura
perde il suo baricentro o meglio lo sposta a favore dei sensi (vista,
tatto - anche il gesto della scrittura è un gesto che coinvolge i sensi).
Le vie d'accesso a se stessi sono allora i "gestus corporis",
ogni circostanza, anche la più quotidiana, diventa meraviglia ("scinnu
do lettu co pedi giustu").
Il massimo affidarsi ai sensi, le mani sembrano incorporare la vista
("ti taliu che manu"), che è un bellissimo motto che pare
avere tutta la dignità di quelle sentenze classiche che volevano definire
il significato di un'arte particolare: "le sensazioni affluiscono
alla punta delle dita, la mia mano vive, la mia mano vede" (Jean
Genet, "L'atelier di Giacometti", Genova 1992). L'arte della
scultura ha trovato il suo motto.
Released: Jennuary, 1998

******July,
2000
|
|
|
|