Girodivite - n° 54 / giugno 1999 - Pacifismo,
Informazione
Quando l'informazione va alla guerra
di Sergio Failla. - Questo intervento è stato letto dal coordinatore del
gruppo Girodivite alla presentazione avvenuta a Caltagirone del numero speciale
del nostro mensile contro la guerra.
Ringrazio. Mio compito qui oggi è quello di aggiungere un piccolissimo tassello,
circoscritto e davvero puntiforme, minimale, all'interno della serie di incontri
di questi giorni. L'occasione formale è qui la presentazione di una piccola
rivista, "Girodivite". E il numero che abbiamo stampato e distribuito nel mese
di maggio, dedicato alla guerra. E qui pongo già due punti alla discussione.
Il primo punto riguarda i motivi che possono spingere una rivista a caratteristiche
locali, come Girodivite, ad occuparsi di una cosa così grande e "internazionale"
come una guerra. Il secondo punto è la definizione di ciò che sta accadendo
in Jugoslavia come di una guerra. E' inutile che ricordi come si tenda sempre,
da parte di molti, o a negare che di guerra si tratti (l'hanno chiamato "intervento
di polizia internazionale", "intervento umanitario" ecc.), oppure a escogitare
aggettivi che possano in qualche modo sviare l'attenzione sulla cosa e la sua
terribilità - la guerra, appunto. Vorrei partire da un dato. Nel 1991 l'agenzia
di pubbliche relazioni Ruder & Finn, che già lavorava per il Kuwait, offrì i
suoi servizi a Milosevic. Milosevic decise di non servirsi di questa agenzia
che invece fu subito assunta dalla Croazia, dai musulmani di Bosnia e dagli
albanesi per 17 milioni di dollari l'anno. Il compito era quello di proteggere
e incentivare l'immagine dei tre gruppi presso le opinioni pubbliche occidentali
e degli Stati Uniti. James Harf, direttore di Ruder & Finn Global Public Affairs,
ha detto che "abbiamo potuto far coincidere nell'opinione pubblica serbi e nazisti
[...]. Noi siamo dei professionisti. Abbiamo un lavoro da fare e lo facciamo.
Non siamo pagati per fare la morale". Ho preso questa notizia da un "quaderno
speciale" pubblicato da Limes, la rivista italiana di geopolitica. "Kosovo :
L'Italia in guerra", si intitola, è possibile trovarlo in edicola, molti di
voi sicuramente lo avranno letto. Per chi non lo avesse fatto, il mio invito
è di dargli un'occhiata. Sul tipo di informazione che si è messa in campo in
occasione della guerra del Golfo, inviterei a leggere il libro di Fracassi,
edito dal settimanale "Avvenimenti", "Sotto la notizia niente". Oppure seguire
la vicenda che ha interessato un documentario come "La sindrome del Golfo",
prodotto dalla RAI e da questa mai mandato in onda.
Sempre più spesso tutti noi siamo campo di battaglia di guerre decise altrove
e non dichiarate. Guerre pubblicitarie e d'informazione - o controinformazione,
o di creazione di notizie. Paradossalmente si potrebbe notare che se esiste
una tale guerra, è perché forse la "pubblica opinione" continua a contare qualcosa,
ha potere di influenza sui ceti politici dirigenti. Si sono ridotti i poteri
decisionali delle popolazioni, ma il "mercato dei consumatori" continua a esistere.
In questo quadro chi fa informazione - persino attraverso le pagine di una rivista
sconosciuta come Girodivite, ha delle responsabilità. L'informazione è una cosa
seria e non può essere demandata. Girodivite è nato nel 1994. Allora la Sicilia
era sconvolta da alcuni eventi macroscopici. L'assassinio di Falcone e Borsellino.
Noi come gruppo redazionale siamo nati allora, in collaborazione con una testata
storica come "I Siciliani", la rivista di Pippo Fava. Siamo nati in un contesto
civile di "impegno sociale" e culturale come si diceva allora - prima della
guerra. Tra di noi, ragazzi e ragazze delle superiori, qualcuno universitario.
Altri che avevano esperienze civili precedenti: nel pacifismo (Comiso, Pio La
Torre, chi se li ricorda più?), nell'impegno contro la mafia in anni in cui
la collaborazione era di tutt'altro tipo: chi ricorda cosa dicevano e a quale
schieramento appartenevano i due maggiori quotidiani dell'isola, "La Sicilia"
di Ciancio e "Il Giornale di Sicilia". Allora, prima della guerra, i maggiori
gruppi editoriali dell'isola negavano l'evidenza persino dell'esistenza della
mafia. E se per caso appariva all'orizzonte un qualche pentito, si pubblicava
nome cognome e indirizzo esatti del pentito, esponendo in questo modo la famiglia
alla vendetta mafiosa. Altri tempi, prima della guerra appunto.
Girodivite nasce come foglio locale, gira nelle città del siracusano e del
calatino, nel catanese. Non abbiamo mai avuto ambizioni che non ci potessimo
permettere. Con la nostra periodicità quasi mensile abbiamo cercato di fare
del nostro meglio. Innanzitutto rivolgendoci alla nostra gente, i ragazzi e
le ragazze delle nostre città. La cosa più bella, in questi anni, è stato proprio
questa possibilità che abbiamo avuto, tramite l'occasione del giornale, di relazionarci
con gli altri, conoscere altre persone di altre città. Scoprire che i nostri
quotidiani problemi erano anche di altri o sui quali altri avevano riflettuto
o magari trovato una soluzione. Proporre queste soluzioni ai nostri lettori
oltre che a noi stessi. La nostra adesione al progetto della rete delle piccole
città siciliane ha avuto anche questo significato. Girodivite è servita per
dialogare, discutere, per scambiare informazioni, per dilatare la possibilità
di conoscere e conoscerci. Sono nate nuove amicizie, abbiamo avuto l'onore di
conoscere persone splendide che mai avremmo potuto altrimenti conoscere. Siamo
giunti con il numero di maggio al quinto anno di vita, al numero 53.
Un numero dedicato alla guerra, dicevamo. Discostandoci dai temi abituali
della nostra testata. La nostra convinzione è che questa guerra pone una svolta
epocale per tutti noi. Non siamo di fronte a un conflitto locale. Ma a una nuova
fase che richiede attenzione e consapevolezza diversi che nel passato. Da parte
di tutti quanti noi. Guerra sotto casa, guerra che minaccia una cosa per noi
sconvolgente: il coinvolgimento diretto. Finora le nostre brave coscienze di
cittadini occidentali sono rimaste al sicuro. Non vediamo o facciamo finta di
non vedere su cosa si basa la ricchezza del nostro sistema di vita: le risorse
del Terzomondo risucchiate, l'inquinamento permanente di interi continenti,
lo sfruttamento della manodopera in Brasile, in India, nelle Filippine ecc.
Questa guerra rischia di farci toccare con mano cosa significa il dolore. Certo
ancora siamo nella fase della fiction.
Tutta questa guerra è una fiction. Le immagini che vediamo sono quelle di
un film americano: persino quando vengono riprese in "soggettiva" le immagini
del missile che inquadrano un treno o un ospedale e si fermano nell'attimo dell'impatto
noi vediamo attraverso gli occhi di un missile, la nostra tecnologia dell'immagine
che si ferma immediatamente prima di esplodere). Semmai noi non perdoniamo agli
Stati Uniti di volerci coinvolgere nel dolore della guerra - trasformandoci
da spettatori in attori - , e ai Serbi di volerci fare a tutti i costi vedere
i loro cadaveri: almeno gli irakeni (civiltà televisiva inferiore) hanno avuto
il buon gusto di non farci vedere i loro orrori - i bambini che muoiono per
denutrizione o per mancanza di medicine mentre le immagini del 100 mila e passa
soldati trucidati mentre erano in fuga, queste foto sono circolate solo tra
le élite intellettuali e non hanno fatto piangere. Una fiction - il rischio
maggiore che la nostra civiltà televisiva, la nostra civiltà di tifosi da bar,
corre è quella di pensare tutto come a una fiction o peggio di pensare che la
fiction sia reale. Remondino, inviato unico della RAI a Belgrado, oltre al buon
gusto di confezionare i propri servizi a seconda del pubblico - fa "servizi"
diversi per Rai 3 e per Rai 1, con accentuazioni diverse sapendo bene la diversità
del pubblico che così viene mantenuto nella separatezza delle proprie certezze
esclusive ecc. -, può essere uno dei tanti casi. Lo abbiamo visto una sera con
una candela chiaramente appena accesa, per sottolineare la mancanza di energia
elettrica in Jugoslavia - fare un servizio in "condizioni drammatiche". Remondino
è quello che normalmente appare sotto forma di fotografia con voce fuori campo,
anche questo un modo per enfatizzare la "condizione di guerra" in cui si troverebbe.
Quella sera, con la candela appena accesa ha miracolosamente messo da parte
la fotografia per darci uno scorcio simbolico, narrativo o metanarrativo di
un paese sottoposto a bombardamenti. All'interno di questa civiltà dell'informazione
come fiction e della fiction come immagine, anche noi di Girodivite abbiamo
montato (in senso televisivo o cinematografico) il nostro numero. Servendoci
delle immagini per amplificare e sottolineare l'informazione che i testi che
abbiamo scelto di pubblicare volevano fornire. Dunque, in copertina l'immagine
di profughi in fila, primo piano su un paio di marmocchi. nell'immaginario che
si è formato di questa guerra, All'interno, in successione, un fotomontaggio
che ha interessato Clinton, un disegno (un'idea grafica) sul tema delle bombe,
un primo piano inquietante di un nazionalista ecc. L'immagine di Clinton è stata
posta a sottolienare un articolo che parla dei missili; abbiamo utilizzato il
corpo di un comico, il personaggio di Alex Drastico creato da Albanese (quello
di "io ce l'ho tanto...!") con la testa imbronciata di Clinton. Il nostro paginone
centrale è listato a lutto con la scritta "c'è chi dice no". A lutto perché
certamente è una sconfitta di tutti essere arrivati a questa guerra e dover
riaffermare il nostro no ai signori della guerra. In controcopertina il sottofondo
è composto con un disegno di Guttuso, le colombe che bombardano: fa da sfondo
a un'intervista di Noam Chomsky, uno degli analisti statunitensi più attenti
sulla politica americana e sul linguaggio.
Ecco, queste erano alcune note per dire come noi, nel nostro piccolo, abbiamo
cercato di montare l'informazione - la nostra informazione - sulla guerra,
servendoci del mezzo narrativo che utilizziamo cioè quello del giornale. Un
mezzo narrativo che utilizza titoli, occhielli, editoriali, sommari, didascalie,
immagini per raccontare appunto. E narrando fornendo dati che possano spingere
a guardare la realtà della guerra, che non è fiction e non è narrativa ma è
terribilmente reale. Il numero che abbiamo pubblicato non è passato in maniera
indolore neppure all'interno della nostra redazione. Al nostro "interno" e nel
giro dei nostri collaboratori e lettori abituali, ci sono state reazioni di
dubbio, di disaccordo. Per noi anche questo è stato un indizio positivo. Perché
compito di chi fa informazione non è quello di coccolare i lettori e le coscienze.
Ma di fornire dati e notizie. Oggetti contundenti della mente, che stimolino,
che mettano in discussione, che inducano a riflettere. Abbiamo parlato della
guerra, ponendoci da una parte della barricata. Non certamente dalla parte di
Milosevic - confido nell'intelligenza di questo pubblico perché non si arrivi
a queste forme di manicheismo infantile e demonologico. Perché questa guerra
se ad una cosa è servita, almeno qui da noi in Italia, certamente è servita
a ricollocare intorno a due schieramenti le forze politiche uscite confuse e
smembrate dal 1989.
Essere contro o a favore della guerra a mio avviso ha più significato di qualsiasi
vecchia etichetta o di qualsiasi falsa coscienza o di qualsiasi altro falso
problema. Non è una questione di destra o di sinistra. Ma tra chi dice che si
può uccidere e chi dice di no. Tra chi pensa che per uccidere si possa passare
sopra qualsiasi regola che le comunità o gli Stati si danno - come ad esempio
l'articolo 11 della nostra Costituzione - e chi pensa che invece le regole (quelle
della democrazia, non quelle dei regimi e delle dittature) sono necessarie e
debbano essere sempre rispettate pena la fine di qualsiasi tipo di "civiltà"
(o di convivenza). Non è una cosa da poco. Qualche anno fa una persona come
Alex Langer fece una determinata scelta, davanti a quello che succedeva in Jugoslavia.
Ma disse anche: "continuate". Per una testata come Girodivite fare un numero
sulla guerra significa innanzitutto rivendicare il diritto di parola, e il diritto
di dire: "mi interessa, mi appartiene": "I care" diceva don Milani (prima della
guerra). Mi appartiene il diritto a vivere, a non vedere i miei amici partire
e creparci o persino pensare di poterci lucrare per una guerra che è stata fomentata
anche dall'ipocrisia occidentale e su cui i nostri Stati nazionali hanno grosse
responsabilità. Il diritto a vivere in pace. In una pace che non sia quella
del deserto cui le armi riducono popoli e paesi, ospedali e cortili in cui giocano
i bambini. Il diritto di continuare, di ricostruire dopo che i signori della
guerra sono passati e hanno distrutto al loro passaggio tutto: siano esse cose
che coscienze, e idee, e valori. Soprattutto, il diritto di dire no, sempre,
ai signori della guerra e ai loro sudditi o portaborse.
That's all, folks!
Released online: September, 1999
