Girodivite
- n° 50 / febbraio 1999 - Politica, Italia meridionale, Lavoro
Economia marginale del Mezzogiorno
e Reddito Sociale Minimo
di Luciano Vasapollo(*).
- Questo testo, con cui introduciamo presso i nostri lettori al dibattito sul
reddito sociale minimo, è stato pubblicato all'interno del sito di Torre
di Babele che aderisce, insieme a Girodivite, al circuito dell'Osservatorio
Meridionale.
I periodi dello sviluppo economico dei nostro Paese hanno
creato una crescente differenziazione territoriale e sociale, con conseguenti
fenomeni socio-economici che trasformano e modificano i rapporti centro-periferia
in chiave geografica, e soggetti garantiti-non garantiti in chiave economica,
accrescendo la schiera delle nuove marginalità, delle esclusioni, delle nuove
povertà. La geografia e i modelli della struttura economica complessiva del
Paese permette un confronto tra sistemi produttivi locali fra loro diversi,
fra nuovi soggetti che scaturiscono da tali processi. Si tratta di processi
che necessitano di una diversa e più articolata documentazione statistico-economica
e di una più attenta lettura socio-politica avendo bisogno di nuove logiche
interpretative, di nuovi strumenti ignorati dalle analisi di impostazione industrialista.
Dal dopoguerra ad oggi si possono individuare molti modelli geografici e sociali
dello sviluppo economico; in particolare si nota il passaggio da un modello
di progressiva concentrazione territoriale della produzione, del reddito e della
popolazione, ad un modello di diffusione locale delle dinamiche di sviluppo
che ha interessato aree a rilevanza intermedia. Le trasformazioni strutturali
che stanno caratterizzando il sistema socio-economico sono soprattutto trasformazioni
che nascono dalla continua interazione del terziario con il resto del sistema
produttivo nate dall'esigenza di ridefinizione produttiva e sociale dei capitale.
Depolarizzazione produttiva; sviluppo economico-demografico
non metropolitano; deindustrializzazione accompagnata da processi di delocalizzazione
e decentramento territoriale; deconcentrazione produttiva caratterizzata dalla
diminuzione delle dimensioni d'impresa, dalla deverticalizzazione e scomposizione
dei cicli produttivi; formazione e sviluppo di sistemi produttivi 1ocali accompagnati
da alta specializzazione, piccola dimensione, interrelazioni produttive. Tutto
ciò non deriva da una natura "fisiologica" del processo di diffusione
territoriale, poiché questa invece va vista come il risultato di alcune contraddizioni
dei modello di sviluppo del dopoguerra e degli anni '70 poi e poi degli anni
'80. Le particolari condizioni esogene ed endogene alle aree di "diffusione",
i processi di ridefinizione del modello e del progetto del capitalismo italiano
determinano aree territoriali a valenza socio-economica che si modellano in
funzione delle necessità di ristrutturazione delle dinamiche d'impresa.
Una ristrutturazione capitalistica che, almeno apparentemente,
dimostra di reggere all'impatto sociale e occupazionale provocato dalle politiche
deflazionistiche volute dall'accordo di Maastricht. Ciò soprattutto perché i
livelli di marginalità sociale e la crescita dei tassi di disoccupazione hanno
colpito soprattutto il Sud. Basti pensare che nel Mezzogiorno si ha un tasso
medio di disoccupazione vicino al 25%, ed in molte aree il tasso di disoccupazione
giovanile (tra i 15 e i 25 anni) supera il 60%. A ciò bisogna associare
un vero e proprio crollo degli investimenti industriali verificatesi in questi
ultimi 3-4 anni che si è accompagnato ad una caduta verticale degli investimenti
pubblici in opere infrastrutturali. La chiusura del ciclo del "puro assistenzialismo"
e dell'intreccio perverso politica- affari che si era determinato intorno alla
Cassa per il Mezzogiorno e dell'Agenzia del Dipartimento, hanno di fatto determinato
la chiusura di qualsiasi intervento ordinario o straordinario in favore di forme
più o meno articolate di sviluppo del Meridione.
Anche le politiche intraprese in questi ultimi due anni dal
Governo dell'Ulivo sono state orientate esclusivamente agli incentivi di impresa,
alla riduzione del costo del lavoro, alla riproposizione più o meno velata delle
gabbie salariali. Tali scelte macroeconomiche sono giustificate da una ipotetica
nuova fase di sviluppo meridionale derivante dalla capacità di attirare investimenti
industriali e risorse imprenditoriali, in modo da ridurre la divaricazione fra
modalità dello sviluppo del Nord Italia e quelle del Mezzogiorno. Ma in realtà
tali politiche non hanno portato, e non possono portare, a ridurre gli squilibri
Nord-Sud né ad una diminuzione delle fasce di povertà assoluta o relativa dando
luogo invece a forme di superamento della dicotomia dello sviluppo italiano
causato sia dalla diversifícazione economica delle regioni intermedie e dal
rallentamento di quelle avanzate sia, soprattutto, evidenziando la nascita di
nuovi soggetti sociali ed economici marginali ed emarginati. Si va approfondendo
così il solco fra un Paese ricco e settori sempre più vasti di popolazione esclusa,
precarizzata, vicino alla soglia di povertà; masse sociali spesso rese da tali
processi di sviluppo talmente emarginate e povere da essere considerate fra
i "nuovi miserabili" nella società dell'opulenza e dello sviluppo
a tutti i costi incentrato sul profitto e i parametri di efficienza dell'impresa.
Il risultato più immediato della via italiana al modello di
sviluppo neoliberista è l'aumento della disoccupazione che si va trasformando
in strutturale, incrementando la schiera dei disoccupati "invisibili",
non ufficiali, precarizzando la qualità del lavoro e della vita di chi con tale
sistema non riesce ad emergere ed arricchirsi. Non è un caso che negli ultimi
sei anni nel Centro-Nord si ha un tasso di occupazione irregolare nell'industria
intorno al 12% del totale dei lavoratori mentre nel Sud tale percentuale raggiunge
il 50%, con picchi di oltre il 55% in Sicilia e del 63% in Calabria.
Tali percentuali invece di essere utilizzate per dimostrare la mancanza di solidità
e la precarizzazìone assoluta di ogni forma di sviluppo nel Mezzogiorno, vengono
spesso citate da autorevoli fonti istituzionali per dimostrare la cosiddetta
"vitalità, creatività, e capacità di arrangiarsi" di un popolo meridionale
capace di darsi autonomamente delle possibilità di crescita e di autorealizzazione.
Nei fatti il Mezzogiorno diventa un'area economico-territoriale utilizzata come
laboratorio per sperimentare le forme più povere dell'economia marginale, per
realizzare cioè quelle fasi del ciclo produttivo industriale a più basso contenuto
di conoscenza, formazione e informazione, cioè quelle forme di lavoro a forte
caratterizzazione manuale e prive di garanzie e diritti. E' invece nel Nord
che continua a svilupparsi quell'industria moderna affíancata da un terziario
avanzato ad alto contenuto di risorse immateriali, caratterizzando così le regioni
settentrionali in una maggiormente dinamica e diversa collocazione economico-produttiva
e socio-culturale.
Esiste quindi una stretta correlazione tra fenomeni economici
e fenomeni sociali; non è un caso che nel tanto decantato Nord-Est convivono
forme di aristocrazia operaia, superspecializzata e ben pagata, che identifica
i propri destini con quelli dell'imprenditore, e forme di lavoro sottopagato,
senza garanzie, lavoro nero, precario e flessibile anche nella remunerazione
oltre che nei tempi e nei modi di lavoro. Si spiega così, e non solo nella dicotomia
Nord-Sud, il carattere dualistico dello sviluppo italiano, che sconta sottosviluppo
in molte sue parti territoriali e sociali in funzione dei modi di accumulazione
dei capitale che si correla allo sviluppo ritardato e dipendente del capitalismo
italiano rispetto al resto dell'occidente. La ristrutturazione capitalistica
ha di fatto dissolto le grandi fabbriche dove meglio si organizzava l'antagonismo
di classe, queste sono di fatto smantellate e divise nei distretti, nelle imprese-rete,
nelle filiere, nei reparti produttivi diffusi nel territorio.
In tale processo dì ristrutturazione il Mezzogiorno gioca
un ruolo subalterno, non soltanto nei confronti dell'industria italiana, ma
anche rispetto ai processi di innovazione tecnologica tipici dì tutti i settori
più avanzati dell'industria mondiale. Il Meridione, di fatto è il laboratorio
dell'economia marginale e sommersa, delle lavorazioni materiali, del lavoro
nero, del lavoro sottopagato, del precariato, del lavoro irregolare e della
schiera enorme di disoccupazione pronta a lavorare a qualsiasi costo e a qualsiasi
condizione. All'interno delle dinamiche complessive dell'economia marginale
diventa centrale, quindi, il rapporto, le relazioni che tutte le strutture dell'economia
stabiliscono con la realtà produttiva meridionale. Relazioni che mutano nel
tempo ma che continuano a configurare rapporti funzionali da sottosviluppo,
realizzati in maniera specifica per l'evoluzione dei sistema in altre aree del
Paese, per la riproduzione e l'espansione della struttura centrale dell'economia.
Si passa così dalla funzione attribuita al Mezzogiorno di serbatoio di manodopera
e calmiere del costo dei lavoro, di regolazione delle contraddizioni sociali
e produttive, alla considerazione di area di vendita, di area di sperimentazione
della flessibilità del lavoro e del salario, della sperimentazione di incentivi
e sostegno redistributivo ad aziende che vedono contrarre i profitti in campi
tradizionali. E' nel Sud che continuano le diverse "prove di sfruttamento"
a partire dalla riduzione del costo del lavoro, di un lavoro sommerso, di un
lavoro irregolare e senza diritti, senza sicurezza, che significano già di per
sé incrementi spropositati di profitto e di coercizione di tutti i lavoratori
occupati e non. E' così che avviene la collocazione del nostro Mezzogiorno in
quell'area industriale a forte disoccupazione e precarizzazione, a lavorazione
materiale non garantita da affiancare alle altre aree del supersfruttamento
del lavoro come l'Albania, i paesi dell'Africa Mediterranea, la Turchia.
I processi di marginalizzazione dell'economia meridionale
rispondono, allora, al progetto della globalizzazione dell'economia, che ha
costretto il capitalismo ad una scelta di modello di sviluppo distribuito sul
territorio e fondamentalmente basato su forme sempre più pressanti di terziario
implicito ed esplicito, veicolando il consenso alle forme di produzione diffusa
con la conseguente precarizzazione del lavoro e frammentazione dell'unità di
classe. A questo proposito un elemento di fondamentale rilievo diviene il ruolo
assunto dalle piccole e medie imprese nel Mezzogiorno. Queste sono protagoniste
di un ipotizzato sviluppo meridionale, che viene gestito in funzione della loro
specializzazione e capacità autopropulsiva basata sulle nuove forme di "cottimizzazione"
generalizzata del lavoro e sul massiccio ritorno al lavoro nero alla precarizzazione,
alla flessibilità produttiva, del lavoro e dei salari.
Tutto ciò è certamente il risultato di un rapporto di dominanza
con vere e proprie caratteristiche di colonizzazione delle aree meridionali;
si tratta di un vero rapporto espropriazione-appropriazione, di supersfruttamento
del lavoro, in cui le localizzazioni delle aziende madri mantengono le funzioni
strategiche e più redditizie del ciclo di produzione/commercializzazione. La
conseguenza è che quando si decidono processi di localizzazione produttiva nel
Meridione, molto spesso si allocano stabilimenti e ditte affiliate, mentre i
centri direzionali sono in altre zone, determinando anche nelle produzioni tradizionali
una manifesta debolezza a cui corrisponde la precoce mortalità di tantissime
filiali e la fine di molte imprese; sopravvivono solo alcune piccole o piccolissime
imprese a forte caratterizzazione produttiva locale, che si rassegnano ad una
situazione di micro-mercato accogliendo gli effetti della logica residuale.
A tale logica si può rispondere ridefinendo il ruolo di uno
Stato occupatore e di un diverso modello di sviluppo, non basato sui parametri
classici della crescita capitalistica e dell'incremento forzoso della produzione
di merci. Ed è proprio a partire dal Meridione che si possono ridefinire lavori
di forte interesse sociale e a forte connotato di pubblica utilità, creando
occupazione finalizzata a produzioni non necessariamente di carattere mercantile
e che anzi rivalorizzino il capitale umano e le risorse immateriali a partire
dai nuovi bisogni di un Mezzogiorno che vuole riqualificare le sue potenzialità.
Per far ciò è necessario che nel Sud si riattivino gli investimenti pubblici
non solo a carattere strutturale, ma soprattutto quelli di una diversa
e moderna produzione industriale e soprattutto di servizi, e ciò attraverso
uno sviluppo solidale ed eco-socio-compatibile che non può realizzarsi a partire
esclusivamente da alcuni imprenditori isolati anche se dotati di una certa predisposizione
verso uno sviluppo economico a particolari connotati sociali, o dal tanto decantato
ma falso sviluppo imprenditoriale del "fai da te".
Le trasformazioni strutturali che stanno caratterizzando soprattutto
il sistema socio-economico meridionale sono anche, e forse soprattutto, trasformazioni
nell'essere e nell'interagire dei nuovi soggetti produttivi del lavoro e del
non lavoro, del lavoro negato, di tutti i nuovi soggetti sociali antagonisti
in genere, e ciò non è possibile leggerlo solo attraverso analisi ancora basate
sulle vecchie considerazioni socio-economiche legate alle antiche interpretazioni
della "questione meridionale". Un profondo processo di trasformazione
di questo tipo deve necessariamente portare a riconsiderare le vecchie categorie
economiche, i vecchi soggetti produttivi, le politiche economiche ormai di stampo
antico perché superate dall'evoluzione dei tempi. L'analisi va quindi
riportata sul piano delle relazioni industriali ma soprattutto sociali;
si individuano così i caratteri strutturali della disoccupazione e del lavoro
negato nei sistemi produttivi locali meridionali basati sul lavoro senza diritti;
sull'intensificazione dei ritmi e sull'elevata divisione del lavoro; sulla spinta
alla distruzione del tessuto produttivo; sulla molteplicità dei soggetti economici
locali, non garantiti, con rapporti di lavoro saltuario, con precarizzazione
del lavoro e del reddito, sulla mancata costruzione e distruzione della professionalità
dei lavoratori, accompagnata, per i lavori "più miseri", da commesse
esterne con forte componente di lavoro nero e sottopagato; sulla diffusione
dei rapporti "faccia a faccia" senza intermediazioni sindacali.
E' quindi a partire da tali nuove soggettualità dell'antagonismo
sociale che si può riorganizzare l'unità di interessi del mondo del lavoro,
la solidarietà e la forza che negli anni '60 e '70 la classe operaia si era
data a partire dall'organizzazione in fabbrica. Al centro dell'iniziativa politica
e sociale devono ritornare le associazioni di base, i comitati di quartiere,
le forme organizzate del dissenso nel territorio, le organizzazioni dei lavoratori
che non hanno scelto il consociativismo, ma che anzi pongano come immediato
il problema del potere attraverso la distribuzione sociale del valore e della
ricchezza complessivamente prodotta, riassumendo nel contempo i nuovi
soggetti della trasformazione sociale, le nuove povertà, le fasci deboli della
popolazione, come definizione di una ricca risorsa dell'antagonismo sociale.
Allora nell'ambito di un programma minimo per l'antagonismo sociale va immediatamente
capito che l'incremento di produttività è ricchezza sociale che può garantire
il soddisfacimento di nuovi bisogni, redistribuendo socialmente l'accumulazione
di capitale, e lanciando un programma d iniziativa che entro pochi anni
possa portare alla giornata lavorativa a parità di condizioni, di 15 ore e non
di 35!
E' così che possono essere recuperati in termini redistributivi
gli immensi incrementi di produttività che si sono realizzati in particolare
in questi due ultimi decenni, rivendicando da subito una riduzione generalizzata
dell'orario di lavoro a parità di salario reale, ponendo le basi per creare
nuova occupazione a partire da lavori a compatibilità sociale e ambientale e
di pubblica utilità con pieni diritti e piena retribuzione, rafforzando nel
contempo il Welfare State tramite incrementi delle entrate del bilancio pubblico
determinate dalla tassazione dei capitali, in modo da poter inserire nella spesa
sociale anche un Reddito Sociale Minimo europeo da distribuire ai disoccupati,
ai precari, ai marginali.
Non si tratta quindi di richiedere quel minimo vitale a
carattere etico e filantropico che può assumere la forma di salario minimo o
reddito garantito, ma si vuole imporre semplicemente il pieno riconoscimento
della forma sociale del salario riferito all'intera classe lavoratrice e storicamente
determinato e derivato dai rapporti tra lavoro e capitale. E' per questo che
tale diritto preferiamo individuarlo con il nome di Reddito Sociale Minimo,
è su tale proposta che il nostro Centro Studi (CESTES-PROTEO) in collaborazione
all'Associazione Progetto Diritti e all'Unione Popolare ha lanciato una battaglia
culturale, politica e sociale, che vuole avere dimensioni europee, a partire
da una proposta di legge di iniziativa popolare. Ci sembra quindi un obiettivo
minimo, praticabile, quello di aprire una battaglia, una iniziativa di dibattito
e di lotta, che realizzi la riduzione generalizzata dell'orario di lavoro
sull'intero arco di vita del lavoratore a parità di salario e con controllo
dei ritmi e della condensazione dei lavoro, realizzando così un milione di posti
di lavoro ripartendo anche da produzioni non mercantili e dalla ridefinizione
di uno Stato occupatore; recuperare almeno 50 mila miliardi annui dalla tassazione
dei capitali da destinare al Reddito Sociale Minimo.
Centro Studi Trasformazioni Economico Sociali CESTES-PROTEO
Tel-fax 06-70491956
(*ndwmr) Docente di Statistica Aziendale
e di Economia Aziendale, Facoltà di Scienze Statistiche, Università "La
Sapienza" di Roma, Direttore Scientifico dei Centro Studi Trasformazioni
Economico Sociali (CESTES)-PROTEO; membro del Centro Interuniversitario Ricerche
Paesi in via di Sviluppo (CIRPS); membro dei Comitato Scientifico dell'Osservatorio
Permanente sull'ambiente e lo Sviluppo Sostenibile (OPASS).
Released: September, 1999
