P come post-
I nuovi scenari della letteratura post-sovietica, di
Claudia Bonadonna (da Railibro, anno II, n. 29, 14 febbraio
2004)
L’Urss non c’è più da oltre
un decennio e una nuova Russia comincia a delinearsi dalle
sue rovine. Più seria, dopo il tuffo stordente in
una libertà dal sapore assoluto e occidentale; più
composta, dopo la corsa stralunata alla ricostruzione di
economie e rapporti sociali; più severa, persino,
contro l’arroganza kitsch delle nuove ricchezze criminali.
Una Russia ancora spaesata, certo, febbrilmente intenta
alla ridefinizione di un’identità deflagrata,
ma anche fiera del suo costante divenire.
Era solo questione di tempo prima che la letteratura si
appropriasse di questo nuovo sentire e lo restituisse attraverso
una narrazione che sciocca, sorprende e sconcerta per temerarietà
di stile e profondità di visione. Ed era solo questione
di tempo prima che il pigro Occidente si accorgesse del
movimento e cominciasse a importarlo con copiose traduzioni.
Bakin, Sorokin, Akunin, Pelevin…: si spiega così
la rumorosa invasione di testi che a partire da fine del
millennio hanno colonizzato il mercato europeo e (con prevedibile
ritardo) quello italiano.
Farne un’unica, esotica moda è una tentazione
irresistibile, ma la materia è talmente carica di
rimandi e suggestioni che fortunatamente sguiscia da tutte
le parti scartando categorie e definizioni: “I frutti
della nuova letteratura crescono come la gramigna, là
dove capita”, avverte con vezzosa cattiveria lo scrittore
e critico Viktor Erofeev. L’antologia da lui curata,
I fiori del male russi (Voland, 2001), è un severo
monito al lettore occidentale che insista a vincolare la
produzione letteraria russa dell’ultimo decennio entro
i confini dello spaesamento geopolitico (e dell’interesse
degli specialisti in slavistica) e grida il suo valore estrinseco
di testimonianza delle “peregrinazioni dell’anima
russa”. Che, finalmente emancipata dalle necessità
formali e psicologiche di adesione o rifiuto del regime,
ha conosciuto e praticato una sperticata contaminazione
di fonti e materie. Tramontato l’Impero, insomma,
è crollato il nodo centrale della poetica letteraria:
non più proclami
osannanti grondanti ottimismo, non più geremiadi
sulla staticità delle cose, ma solo una felice e
liberatoria vena a-sovietica.
La rivoluzione è più profonda di quanto
non sembri a prima vista. Se prima era l’uomo a farla
da padrone (in una dura lotta con la natura che, seppur
narrata con forte impronta realistica, conduceva ad una
visione epica e tragica della vita e celebrava i maestosi
moti dell’animo umano), ora è al suo al suo
tramonto psicologico che assistiamo. Il senso morale non
esiste più, marcisce come un cadavere in decomposizione.
Di fronte all’incertezza del reale, trionfa il cinismo
e l’efferatezza. C’è voglia di stupire
con immagini forti, disturbanti, disordinate. C’è
voglia di scuotere con storie sporche, graffianti, ironiche.
C’è voglia di un realismo non più eroico
ma irredento e brutale. L’uomo è morto. Evviva
l’uomo.
Così almeno ci racconta Viktor Pelevin, vate in
patria e all’estero (vate per davvero, viste le sue
eccentriche inclinazioni per i ritiri new age e le pratiche
buddiste) di questa poetica di cambiamento. E’ bastato
un solo volume, Generation P (in Italia Babylon, Mondadori,
2000), storia per certi versi consueta di una gioventù
disinvolta e annoiata alle prese con i simboli del consumismo
occidentale, per scatenare roventi polemiche interne (vera
arte o spazzatura? si è chiesto un establishment
impreparato) e l’amore incontrastato di critici e
lettori al di là del muro. Pelevin è stato
il primo ad aver messo in scena il desolato paesaggio della
transizione. Nei suoi numerosi romanzi ha raccolto veloci
istantanee di una generazione afasica che trasmigra da un
passato immanente e comodo ad un futuro dai contenuti indefinibili.
A vederli insieme questi quadretti indocili e amorali raccontano
la sospensione di uno spazio che non riesce più a
definirsi. Dentro, sperdimento e cattiveria girano a velocità
centripeta per trasformarsi in un’estatica resa al
vuoto, all’energia del caos e alla bellezza delle
sue infinite possibilità.
“Nessuno ci ha ordinato di venire al mondo: noi
siamo il prodotto di un’esplosione”, scrive
Dmitri Bakin. Se Pelevin insiste sull’energia giocosa
che lo scompiglio comporta, il suo pupillo (camionista di
professione e scrittore per hobby, racconta una leggenda
fomentata dal suo
caparbio rifiuto di frequentare pubblico e salotti letterari)
conta i detriti senza entusiasmo. I duri scenari dei racconti
di Terra d’origine (Minimum Fax, 2002) ci trasportano
in un altrove atemporale in cui il vecchio (una polvere
sottile, una nostalgia inespressa, un rancore doloroso e
crudele) e il nuovo (carri armati, fucili, vestigia di armate)
si mischiano senza soluzione di continuità, in cui
le grandi città scompaiono nell’orizzonte di
caotici agglomerati rurali e i vivi coesistono coi loro
realissimi fantasmi. Gli uomini di Bakin ingaggiano tutti
lotte faulkneriane con le passioni: sono carichi di una
rabbia atavica che l’incertezza dei tempi ha definitivamente
liberato. Sono indifesi, incattiviti, folli. Per loro l’autore
non ha risposte. Nessuno le ha. Perché nessuno le
vuole sentire.
L’idea di una letteratura non più didattica
diventa motivo di sfrontata evidenza: l’orizzonte
si fa orgogliosamente basso, stratificato, contaminato.
La mescolanza di maestri conosce una dimensione insolita
per la coscienza intellettuale russa. Elenca Viktor Erofeev:
“Gogol’ e de Sade, i decadenti di inizio secolo
e i surrealisti, i mistici e i Beatles, Nabokov e Borges,
Pound e la lingua transmentale degli oberiuti, i film d’azione
di Hollywood, la pop art e le canzoni della mala, i grattacieli
staliniani e il postmodernismo occidentale…”.
Dall’idea di una morale profonda e definitiva si passa
a un dichiarato gioco di superficie. Si masticano stereotipi
(quelli occidentali, soprattutto, di libertà e ricchezza)
e si risputano al mittente; si dribbla tra i luoghi comuni
che immaginano una nazione nuovamente vergine sedotta e
abbandonata dall’ideologia di mercato. Si ride sguaiatamente.
Anche delle sacre radici.
Al fatidico “che fare?” di Lenin, Sergej Bolmat
risponde un irriverente “fate un po’ quello
che vi pare”. E inventa una storia che è un
omaggio spudorato a Tarantino e alla pulp fiction americana
degli anni Cinquanta. I ragazzi di San Pietroburgo (Rizzoli,
2002) vivono velocemente tra lavoretti di comodo, espedienti
creativi, prostituzione occasionale e dotte disquisizioni
librarie fino a che un buffo tiro del destino (il ritrovamento
del cellulare di un killer) li precipita nel giro grosso
degli omicidi a pagamento. Plagio? No, insospettabile e
intrinseca riflessione sulla letteratura: i mezzi tradizionali
non bastano più, troppo inadattabili e razionali
rispetto alla concitazione del cambiamento psicologico e
sociale; meglio allora una scrittura mimetica rispetto al
flusso degli eventi, una scrittura dall’andamento
cinematografico (e qui Bolmat si esibisce in dialoghi tanto
serrati da sfiorare l’assurdo) e una parola nuova,
televisiva, vulgata, carica di anglismi ed espressioni gergali.
Il problema non è di poco conto. Il nuovo corre
e preme per essere detto, si fa avanti con furia iconoclasta
tra vecchie strutture e reverie. La lingua ne esce flagellata
e distrutta. Di più, destrutturata. Vladimir Sorokin
clona e rigurgita generi letterari in un testo caotico e
denso, usa il turpiloquio come fosse un delirio sciamanico,
cannibalizza le vestigia del tempo passato in un’abbuffata
di codici e fonti: “Per me i classici della letteratura
sono carne viva di cui cibarmi”. Il suo romanzo di
culto La coda (Guanda, 1988 e 2001) eleva il linguaggio
di strada a nobile materia letteraria. L’autore trascrive
senza apparenti aggiustamenti letterari la pluralità
di voci e punti di vista delle persone in fila davanti ad
un grande magazzino; regista occulto, lascia che sia la
lingua di ciascuno (con le sue cadenze ed eredità
gergali) a raccontarne la vita e la condizione sociale.
L’insieme è così vero da sembrare irreale.
Non tutti però procedono per artistici colpi di
piccone. C’è chi intorno ai classici costruisce
un ricamo di citazioni ironiche e colte percorrendo con
nobiltà i territori della letteratura di consumo.
I gialli storici di Boris Akunin (tradotti in Italia da
Frassinelli) coniugano un perfetto meccanismo investigativo
con un ricco sottotesto intellettuale. Il funzionario in
carriera Erast Fandorin, bello e tormentato come la legge
dell’intrattenimento vuole, svela intrighi e trame
impossibili sullo sfondo di una Russia prerivoluzionaria
popolata da impiegati gogoliani e criminali rubati a Dostoevskij.
Il contesto è sontuoso: l’ampio respiro di
Tolstoj e il gotico popolare di Wilkie Collins e Conan Doyle.
Poco più in là, Ljudmila Ulickaja coltiva
pazientemente la sua vocazione cechoviana insensibile alle
mode postmoderniste o pop. La sua narrativa di stampo tradizionale
(con un’attenzione talmente partecipe agli individui
e ai loro sentimenti che spesso l’orizzonte storico
ne esce oscurato), la sua scrittura colta (che si compiace
della propria lentezza antimoderna), raccontano una Russia
lontana dall’immaginario collettivo, intimissima e
dolente. Se è vero che le donne hanno superato meglio
lo smarrimento dei grandi principi ideologici della narrazione
e sono state capaci di analizzare con sincera lucidità
lo stravolgimento del proprio universo antropologico, allora
la Ulickaja è una di quelle sovversive che lavorano
dall’interno. Chiusa nel rigore del canone classico,
fa splendere con semplicità e senza alcun orgoglio
nichilista lo sperdimento della nuova anima russa.
Contesto
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