IL CYBORGHESE PICCOLO PICCOLO. Riflessioni
a margine del rapporto fra tecnologia e letteratura
di domenico fiormonte
1.1 Il negozio di Minsky
In un'intervista concessa qualche anno fa a una rivista
spagnola, Marvin Minsky, padre-pasdaran dell'intelligenza
artificiale al MIT di Boston, si abbandonava alla descrizione
di scenari fantascientifici. Fra le altre cose diceva Minsky:
"Gli uomini hanno dei limiti: un cervello che funziona
a una certa velocità, con neuroni con qualche milione
di bit di memoria. Ma ci stancheremo di ciò e vorremo
più memoria, migliori idee e dunque attaccheremo
il computer alla nostra testa nello stesso modo in cui ampliamo
la memoria del PC o gli mettiamo un microprocessore più
veloce. Credo che nel futuro la gente andrà al negozio
e comprerà più cervello." (Salomone /
Minsky 1996: 72) [1]. Ho adoperato sopra la parola "fantascientifico":
a tutti credo sarà venuto in mente leggendo questa
frase il romanzo Il terminale uomo di Micheal Crichton.
Sei mesi dopo l'intervista a Minsky, Arthur Clarke, l'autore
di 2001 Odissea nello spazio, intervistato dalla Cable TV
inglese EBN affermava che entro cento anni l'educazione
si baserà sulla trasmissione di dati e informazioni
direttamente nel cervello, tanto da rendere obsoleto l'apprendimento
e dunque scuole, università, ecc. Siamo di fronte
a uno di quei casi - sempre meno rari - in cui uno scrittore
di fantascienza, anche il più profetico e visionario,
arranca dietro le dichiarazioni dell'establishment scientifico.
Kevin Warwick (1997), professore di cibernetica all'università
del Sussex descrive nel suo ultimo libro (March of the Machines)
uno scenario che sembra preso pari pari da un cattivo racconto
di fantascienza degli anni Cinquanta. Il sottotitolo del
libro è sufficiente per farsi un'idea: "Why
the New Race of Robots Will Rule the World."
Minsky è sempre stato uno dei sostenitori della tesi
'forte' dell'intelligenza artificiale, quella secondo la
quale il cervello umano può essere, prima o poi,
in una maniera o nell'altra, replicato, riprodotto, migliorato
e conseguentemente messo sul mercato. Ciò che lascia
sbalorditi è indubbiamente l'idea che un domani andare
per cervelli sarà un po' come andare per funghi.
Ma perché poi limitarsi al cervello, mi domando?
La lista dei pezzi di ricambio sarebbe lunga.
Gli scienziati americani non sono nuovi a queste provocazioni.
Tuttavia Minsky con quella frase scopre un nervo molto sensibile
della società occidentale: il terrore della morte.
Parola che fa capolino subito dopo: alla domanda "Non
crede sia pericoloso che esista un supercomputer capace
di analizzare il cervello umano?", Minsky risponde:
"Sì, certo che può essere un rischio.
Tutto è pericoloso, per questo motivo dobbiamo stare
molto attenti. Però è più terribile
non essere immortali - e con i cervelli artificiali si conseguirà
questo obiettivo"[2]. All'interno della tecnologia
il problema della morte consiste dunque nell'inventare il
suo 'superamento', un sorpasso che il negozio di Minsky
intende pianificato dal mercato.
(Un inciso: avrete notato che in questi discorsi raramente
si sente parlare di umanità. 'Fattori' come tempo,
fame, dolore, giustizia, coscienza, ecc. non vengono presi
in considerazione. L'immortalità di cui parlano gli
scienziati cyborghesi assomiglia a una lobotomizzazione:
nessuno si chiede se saremo felici o meno, ciò che
conta è non morire. Sorge spontanea una domanda:
essere immortali a Beverly Hills è la stessa cosa
che esserlo a Tirana?)
1.2 Nanoletterature
Alla frontiera fra fantascienza e ricerca tecnologica vi
sono oggi l'ingegneria molecolare e le nanotecnologie (e
a essa si riferisce credo Minsky quando parla delle 'pillole'
cerebrali). Esiste un gruppo con questo nome al MIT, di
cui Minsky fa parte, che ha iniziato a trattare questi temi
negli anni Ottanta. Che cosa sono queste nanomacchine? piccoli
e superpotenti nuovi computer? Non esattamente. Sono ipotetiche
strutture simil-biologiche ricalcate su modelli molecolari
in grado di 'produrre' oggetti e fenomeni in 'disciplina
controllata'. Alejandro Piscitelli, epistemologo argentino
tra i pochi ad aver scritto su questi temi da una prospettiva
non primo-mondista, così sintetizza il progetto:
La domanda con la quale cominciò il programma di
lavoro che oggi ossessiona Drexler [uno dei massimi teorici
di questa disciplina] fu: "Che succederebbe se si potessero
manipolare le molecole che i biologi incontrano nei sistemi
organizzati?" La sua risposta fu: "Si potrebbero
costruire macchine molecolari e utilizzarle per creare migliori
macchine molecolari." In poco tempo si avrebbe una
tecnologia molto potente che ci darebbe un controllo completo
sulla struttura della materia. [...] La pietra fondamentale
di tutta questa struttura è il supercomputer che
lavorerà ordendo e disordendo fili di un atomo di
lunghezza. La memoria sarà immagazzinata in lunghe
molecole. [...] Questa macchina avrà lo stesso potere
che il più grande dei supercomputer attuali, ma lavorerà
100 volte più rapidamente e occuperà un millesimo
del volume di una cellula del corpo. (Piscitelli 1995: 54-56;
trad. mia).
Questo in pratica vorrebbe dire, continua Piscitelli, avere
"macchine riparatrici di cellule capaci di estendere
il nostro ciclo di vita e migliorare la salute." Dovremo
abituarci ai miracoli della medicina: "pillole che
diagnosticano o curano, riparazione chirurgica cellulare
[...] e fabbricazione di nuovi organi a partire dal nulla,
con aspettative di vita di centinaia o migliaia di anni."
Una singola molecola "martellatrice" potrebbe,
geneticamente programmata, "colpire gli atomi di carbonio
nell'angolo giusto con la potenza precisa affinché
formino la struttura del diamante. [...] Le fibre di diamante
ottenibili da [questi] assemblatori saranno dieci volte
più forti che l'acciaio", e "sarà
tanto economico costruire un navicella spaziale con questo
materiale che un viaggio interstellare costerà meno
di quello che paghiamo oggi per un biglietto aereo."
Naturalmente molti sono scettici su queste previsioni: ammesso
che tali macchine diventino realtà ciò che
lascia perplessi molti scienziati è la controllabilità
di questi fenomeni (se avete presente una bomba atomica
capirete il perché). Insomma, siamo ancora alla fantascienza
- anche se a questa fantascienza si dedicano riunioni mensili
in un laboratorio del Massachusetts.
Ma finalmente, che cosa c'entrano l'angoscia di morte, il
MIT e le nanotecnologie con la scrittura e la letteratura?
C'entrano, perché il problema della comunicazione
del futuro, e dunque anche della scrittura, è né
più e né meno che il problema delle 'macchine',
di cosa saranno esse e di cosa saremo noi in grado di fargli
fare. È azzardato dire che dalle macchine dipenderà
la nostra immaginazione? L'orologio è una macchina
e non è questo che dà forma alla nostra quotidiana
concezione e rappresentazione del tempo? Ed è la
stessa narrativa del tempo (ciclico) di Omero, quello (lineare)
del romanzo poliziesco e quello (puntiforme e einsteiniano)
di Proust? (Assisteremo dunque alla nascita di una nanoletteratura?)
In realtà, dietro l'azzardata equazione tecnologia=
immaginazione, come abbiamo visto vi sono teorie insospettabilmente
consolidate:
[…] così la storiografia dei media finisce
spesso con l'attribuire a epoche passate una consapevolezza
concettuale del ruolo della comunicazione […]. L'applicazione
retrospettiva dell'idea odierna di comunicazione al passato
può anche dar luogo a una sorta di filosofia della
storia. Nelle formulazioni di Marshall McLuhan, volutamente
estreme, l'avvicendarsi dei diversi strumenti utilizzati
per inviare e ricevere messaggi è la chiave per interpretare
l'intera vicenda dell'umanità sulla terra […].
(Ortoleva 19972: 11).
E tuttavia, pur diffidando delle tesi deterministe, non
si può negare che la tecnologia, creazione dell'uomo,
ma che all'uomo dà a sua volta senso, nel corso della
storia sceglie i suoi canali di comunicazione e questi danno
luogo a forme espressive. Negli ultimi tre o quattro secoli
una fra queste - non l'unica - noi abbiamo scelto di chiamarla
letteratura.
Parlando con i letterati (ma capita anche con ingegneri
e informatici) spesso si ha l'impressione che il problema
della tecnologia non conti o conti solo marginalmente. L'estate
scorsa, in seguito alla pubblicazione di un appello a sostegno
dell'Informatica Umanistica [3] sul newsgroup free.it.lavoro.informatica,
frequentato prevalentemente da informatici, trovai nella
mia casella di posta il seguente messaggio: "L'informatica
non deve parlare di contenuti, i contenuti non devono parlare
di informatica". Come a dire: ognuno faccia il suo
mestiere. Oltre al terrore per le interferenze (e alla negazione
dello scambio), tali opinioni sottintendono la nota tesi
progressista del computer 'strumento neutro'. "Smettiamola
di pensare al Grande Fratello ogni volta che si parla di
calcolatori", dicono costoro, "all'apparire di
ogni nuova tecnologia è sempre la stessa storia:
apocalittici e nostalgici da un lato, entusiasti e integrati
dall'altro." Questa è l'opinione di maîtres
à penser come Eco, di critici di scuole anche concorrenti,
di filosofi come Fernando Savater [4], e naturalmente di
quasi tutti gli scienziati. Perché? Il discorso sarebbe
lungo, ma è probabile che la cultura occidentale
sia ancora troppo legata al Dio-Autore [5] (e al suo Sacerdote-Interprete)
per far finta di nulla di fronte a quella sorta di "espropriazione
testuale" che la tecnologia informatica mette in atto
nei confronti dell'opera. E anche sotto le critiche di parte
progressista ogni tanto si sente puzza di bruciato. Gli
attacchi rivolti alle opere 'senza autore', interattive,
'aperte', ecc., di cui pure abbiamo discusso e indicato
i limiti, sembrano riflettere l'angoscia di perdere, più
che il diritto dell'autore a 'possedere' l'opera, il potere
che i suoi interpreti hanno costruito su di essa attraverso
i secoli.
1.3 'Connessioni profonde' e 'strumenti neutri'
Le macchine, si diceva. Certo molto ancora dipende da noi.
Ma non illudiamoci: nel senso che per ora quel 'noi' include
gli scienziati (che sfornano nuovi prodotti), l'industria
(che li paga e gestisce) e il mercato, che nessuno sa ormai
più cosa sia ma al quale lo stesso Minsky (con qualche
lamento) ammette di essere al servizio.
Sin qui ho cercato di discutere tanto la tesi degli 'strumenti
neutri' che i millenarismi/primitivismi, fra loro speculari,
di apocalittici ed entusiasti. Al fondo di tutto vi è
l'antica disputa fra chi crede l'uomo geneticamente programmato,
e quindi relativamente 'indipendente' dall'ambiente, e chi
lo ritiene invece più legato al mondo degli oggetti,
delle persone e degli eventi che lo circondano e che egli
stesso ha contribuito a forgiare. Questa dialettica, riassumendo
un po' brutalmente, è stata per lungo tempo al centro
del dibattito filosofico e linguistico [6]. Come nella Scilla
e Cariddi di joyciana memoria, si sono affrontate due scuole:
quella che vedeva il linguaggio come una capacità
prevalentemente innata e quella convinta che il suo sviluppo
e la sua "costruzione" siano determinati, in modo
decisivo, da fattori ambientali e sociali. Non si tratta
di posizioni necessariamente in contrasto, ma forse lo scarso
interesse di Chomsky (1988, 1996) per i fattori per così
dire 'esterni', ha concentrato il dibattito dei linguisti
su altri temi, lasciando in ombra la questione degli strumenti
(e la stessa scrittura, riscoperta dai linguisti negli ultimi
dieci-quindici anni). Uno dei temi negletti è che
i linguaggi, intesi come insieme di strumento e supporto,
lingua/alfabeto, scrittura/mezzi, ecc., siano di per sé
portatori di senso (Goody 1989; Cardona 1985-2001). E che
i sistemi linguistici, inscindibili dalle culture che rappresentano
e di cui allo stesso tempo si nutrono, possano dare luogo
a precise configurazioni mentali [7]. La visione chomskyana
sembra tendere verso una interpretazione molto precisa -
e forse un po' rigida - di mente, in cui c'è poco
spazio per gli eventi esterni:
I emphasized biological facts, and I didn't say anything
about historical and social facts. And I am going to say
nothing about these elements in language acquisition. The
reason is that I think they are relatively unimportant.
As far as I know, the development of human mental capacity
like language, it just happens, the way you learn to walk.
[…] Acquisition of language is something that happens
to you; it is not something that you do. (Chomsky 1988:
173-174).
E più avanti:
The question is, Are there some deeper and more subtle connections
between the level of production and the kind of thinking
that can be done? My suspicion is that the answer to that
is no. So I don't think there would be very much difficulty
in teaching modern physics or modern mathematics to a person
who knows only Stone Age technology. It would be difficult
in the sense that certain experiments and practical applications
would not be available, but I'm not convinced that anything
deeper than that would be involved. (Chomsky 1988: 193-194).
Leggendo questo passo, per contrasto, non può non
venire in mente quel famoso esperimento di Vygotskij e Lurija
(Lurija 1974: 19-20) in cui il contadino analfabeta dell'Asia
Minore, alla richiesta di 'classificare' le figure di una
scure, un ciocco, una pala e una sega, risponde mettendo
insieme scure, ciocco e sega, lasciando da parte la pala
"perché non serve" (19). L'operazione di
classificazione per categorie astratte (ciocco = materiale,
pala, scure e sega.= strumento), spiega Lurija, "agevolmente
compiuta dai nostri soggetti più progrediti nello
sviluppo culturale, risultò inaccessibile per il
gruppo di coloro che vivevano in condizioni economiche più
arretrate […] Il posto dell'operazione teorica - annoverare
in un'unica categoria astratta - era qui occupato da un'operazione
pratica: ricondurre a una situazione concreta comune. […]
Nello stesso modo erano costruite anche le più complesse
operazioni del discorso e tutto ciò mostrava […]
che la struttura fondamentale del pensiero procedeva in
queste persone secondo le leggi della pratica comune […]";
conclude Lurjia: "Le ricerche compiute […] hanno
mostrato un fatto fondamentale: le leggi psicologiche dei
processi cognitivi non sono universali e immutabili; non
solo il contenuto, ma anche le forme dell'attività
cognitiva sono un prodotto dello sviluppo storico-sociale"
(Lurija 1974: 20-21 [corsivi dell'autore]). Se persino i
processi di autocoscienza, considerati da Descartes "il
punto di partenza di ogni attività psichica",
sono un prodotto della storia, si può comprendere
come una visione del genere sia in conflitto con tutte le
tesi 'idealiste', compreso l'innatismo chomskyano.
Come sintetizza efficacemente Leont'ev, Vygotskij
compì sul piano teorico una critica della concezione
dell'uomo in chiave biologica e naturalistica, contrapponendo
a queste la sua teoria dello sviluppo storico-culturale.
La cosa più importante in tutto questo fu che egli
introdusse l'idea della storicità della natura della
psiche umana, l'idea della trasformazione dei meccanismi
naturali dei processi psichici nel corso dello sviluppo
storico-sociale e ontogenico nella concreta sperimentazione
psicologica. Una tale trasformazione era vista da Vygotskij
come il risultato necessario dell'appropriazione dei prodotti
della cultura umana da parte dell'uomo, nel processo della
comunicazione di questo con le persone circostanti. [8]
La concezione "storica" della formazione e evoluzione
della psiche di Vygotskij (1978, 1998), da cui trarrà
ispirazione la psicologia culturale di Jerome Bruner [9],
ci riporta al paradigma della scuola di Toronto [10], a
Leroi-Gourhan, a Cardona e a tutte quelle discipline che
studiano l'influenza degli human artifacts, e dunque anche
della tecnologia, sui processi vuoi cultural-sociali, vuoi
psicologici o mentali. Questa linea di pensiero, che trova
in Vygotskij uno dei primi e più lucidi interpreti,
è un filo che unisce scienziati, filosofi e letterati
del Novecento, spesso anche molto lontani fra loro: da Wittgenstein
a Bruner, da Innis a Dewey a Stephen J. Gould, c'è
una corrente sotterranea che andrebbe portata alla luce
e esplorata in modo aperto e interdisciplinare.
Per ora, sui confini fra psicologia e genetica, fra environmentalism
e selezione naturale, i due schieramenti si danno ancora
battaglia. Il problema è, tra l'altro, che sulla
mente sappiamo ancora troppo poco. Anche se la plasticità
del cervello è un fatto dato per acquisito (Aoki
/ Siekevitz 1988, Boncinelli 1999: 75) non sappiamo in che
misura e secondo quali modalità i fenomeni che ci
circondano possano marcare, o addirittura determinare, i
nostri futuri comportamenti. Il motivo della contrapposizione
è chiaro: qualsiasi ammissione che i sistemi linguistici
insieme ad altre forme di comunicazione possano cambiare
sotto la pressione di eventi esterni si concilia male con
l'innatismo e, viceversa, posizioni come la selection theory
("Per il 'selezionista', l'assoluta verità è
che tutto ciò che facciamo nella vita è scoprire
ciò che è già contenuto nel nostro
cervello" Gazzaniga 1992: 2) minacciano i metodi sperimentali
degli 'strumentalisti'.
Applicata al nostro caso, il confronto è fra chi
crede che le nuove tecnologie della comunicazione possano
incidere non solo sui comportamenti e le abitudini, ma sulle
attività cognitive, e chi colloca le cause di tali
cambiamenti (se esistono) altrove.
Anche nell'area dell'Intelligenza Artificiale e della psicologia
cognitiva cominciano a farsi strada teorie che tengono conto
del ruolo giocato dagli artifacts. Per Andy Clark fino a
oggi abbiamo ideato i nostri oggetti come meccanismi "intrusivi"
o "modificatori" dell'ambiente. Lo psicologo fa
l'esempio di un tonno-robot costruito nei laboratori del
MIT secondo i modelli della Vita Artificiale: il robot cerca
di imitare il modo in cui il pesce reale sfrutta mulinelli,
spire e vortici d'acqua per "sovralimentare la propulsione
e la manovrabilità" (1999: 193). Barche e sottomarini
realizzati dagli uomini non ottengono simili risultati perché
affrontano l'ambiente come un ostacolo che deve essere contrastato:
"Il caso del tonno ci ricorda che i sistemi biologici
sfruttano fortemente la struttura dell'ambiente locale.
L'ambiente non è da concepire unicamente come un
dominio problematico da affrontare. È altrettanto,
e soprattutto, una risorsa di cui avvalersi nelle soluzioni"
(193). Vygotskij fornisce all'autore argomenti per sfumare
il confine fra sistema intelligente e mondo: e riprendendo
la lezione dello psicologo russo, Clark ricorda che l'artefatto
non solo serve per risolvere problemi, ma riconfigura le
strutture esterne e le nostre capacità di modellarle.
Similmente, il linguaggio non serve solo a comunicare, ma
influenza lo sviluppo cognitivo, adattandosi a - ma anche
plasmando - memoria e apprendimento [11].
Non può sorprendere dunque che la sponda vygotskjiana
abbia dal primo momento offerto riparo agli studi sui rapporti
fra tecnologia e literacy, l'alfabetizzazione-apprendimento
della parola scritta:
Vygotsky's views on knowledge as a social construction offer
a new model for conceptualizing how to use computers in
conferencing, problem solving, documentation, and training
contexts. His work is central to contemporary discussions
of discourse and learning and, therefore, has relevance
to any discussion of writing "with and for" the
computer. […] his ideas should be brought into our
analysis of writing with and for the computer. (Barrett
19883: xxii, xxiv).
E una recente ricerca (Haas 1999) applica il metodo storico-genetico
dello psicologo russo nell'analisi del rapporto fra vecchie
e nuove metodologie di scrittura:
Understanding twentieth-century literacy means understanding
the multiple technologies that support it, have supported
it, and continue to support it. […] A Vygotskian approach
to the study of technology, then, suggests a) that multiple
technologies for literacy exist, b) that their history-of-use
is complex and overlapping, and c) that technology's uses
are tied intrinsically to other human activities. A Vygotskian
view of technology clearly makes a simple model such as
the straightforward progress model difficult to sustain,
because for Vygotsky past behaviors, practices, and tools
are deeply embedded in present ones. (Haas 1999: 4).
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[1] La tesi è esposta in modo articolato in un articolo
pubblicato sullo Scientific American Minsky 1997).
[2] "Everyone wants wisdom and wealth. Nevertheless,
our health often gives out before we achieve them. To lengthen
our lives, and improve our minds, in the future we will
need to change our bodies and brains." (Minsky 1997).
[3] Tutte le informazioni sono disponibili su: http://www.unitus.it/lingue/docenti/informatica/appello.
[4] Vedi l'intervista su www.selc.ed.ac.uk/italian/digitalvariants.
[5] Molto interessanti a questo proposito le osservazioni
di Guglielmo Cavallo (1997: 8) sulla trasformazione della
figura dello scriba medievale da schiavo a "autore"
avvenuta grazie all'impulso dato dalla chiesa alla copiatura
delle sacre scritture.
[6] In particolare della semiotica: "[…] il segno
come oggetto di un continuo patteggiamento fra mittente
e destinatario, come continuo processo interpretativo […]
è il succo di una evoluzione all'interno della moderna
riflessione semiologica." (Gensini 1999: 25).
[7] Sul ruolo odierno della literacy nell'acquisizione del
linguaggio vedi per esempio la ricerca di Miller (1993).
I dati riportati in questo studio sembrano dimostrare che
gran parte della lingua parlata che si apprende dopo i 6-7
anni d'età ha una stretta dipendenza dagli standard
della lingua scritta. Dunque per l'autore la teoria secondo
la quale "children develop their entire linguistic
capacity before going to school […] is wrong."
(Miller 1993: 128).
[8] A. N. Leont'ev, Del metodo storico nello studio dello
psichico umano, in La scienza psicologica in URSS, vol.
1, pp. 9-56 (citato nell'introduzione di M. Serena Vegetti
Finzi a Vygotskij 1974: 22).
[9] Vanno ricordati soprattutto i suoi studi sulla "costruzione
narrativa" della realtà (Bruner 1991). La costruzione
dell'identità per Bruner "non può proseguire
senza la capacità di narrare". Una volta dotati
di questa capacità, possiamo produrre un'identità
che ci collega agli altri, che ci permette di riandare selettivamente
al nostro passato, mentre ci prepariamo per la possibilità
di un futuro immaginato. […] Per quanto possiamo fare
assegnamento su un cervello funzionante per conseguire la
nostra identità, fin da principio siamo virtualmente
espressioni della cultura che ci nutre." (Bruner 2002:
99).
[10] Havelock, in uno dei suoi ultimi interventi (pubblicato
postumo), si richiama esplicitamente agli esperimenti di
Lurija (Havelock 1991: 16). Ugualmente riconosciuta l'influenza
di Vygotskij su Goody. A questo proposito, in polemica con
Chomsky, Goody scrive: "Il presupposto di una struttura
profonda comune non rende giustizia al significato delle
differenze che stanno al livello dell'uso reale, della pratica
anziché della struttura. Risulta singolare che un
gruppo di essere umani che probabilmente dedicano alla lettura
e alla scrittura molto più tempo di quanto ne passino
a parlare e ad ascoltare siano stati così negligenti
nei confronti delle implicazioni sociali e psicologiche
della loro disciplina. Forse l'inclinazione a una scienza
sociale anzitutto 'mentalista' […] ha portato a trascurare
i fattori storici, sociali e materiali che Vygotskij […]
aveva esplorato." (Goody 1989. 270).
[11] Lo scetticismo riguardo la posizione innatista è
implicito: "Questo adattamento rovesciato - dall'artefatto
al fruitore - suggerisce un possibile punto di vista nella
controversia riguardante i meccanismi innati di acquisizione
e comprensione del linguaggio" (Clark 1999: 170).
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Contesto
|
Domenico Fiormonte, professore a
contratto di Informatica Applicata al Testo Letterario
presso l'Università di Roma Tor Vergata e di
Informatica Umanistica presso l'Università
di Roma La Sapienza. Ha studiato retorica e comunicazione
tecnica alla Michigan Technological University e dal
1996 al 1999 è stato titolare di una Research
Scholarship presso la School of European Languages
and Cultures dell'Università di Edimburgo,
dove ha conseguito il PhD. Dirige il progetto di archiviazione
elettronica di testi di autori contemporanei spagnoli
e italiani Digital Variants (www.selc.ed.ac.uk/italian/digitalvariants).
Nel 1998 ha fondato e organizzato a Edimburgo il seminario
internazionale "Computer, letteratura e filologia",
oggi giunto alla quinta edizione (http://www.uclm.es/gcynt/clip2002/index.htm).
È membro del network europeo di eccellenza
CHIME (Computing and Humanities in a Multilingual
Europe: http://www.uclm.es/gcynt/chime/).
Ha pubblicato vari articoli su libri e riviste sul
ruolo delle nuove tecnologie nella didattica e nella
ricerca in campo umanistico. Insieme a Ferdinanda
Cremascoli è autore del Manuale di scrittura
(Bollati Boringhieri, Torino 1998). Insieme a J. Usher
ha curato il volume New Media and the Humanities:
Research and Applications, Oxford: Oxford University
Humanities Computing Unit, 2001. Ha infine curato
Informatica umanistica: dalla ricerca all'insegnamento,
Roma, Bulzoni, 2003.
Il saggio che presentiamo (25 gennaio 2004), è
parte del volume Scrittura e filologia nell'era digitale,
Torino, Bollati Boringhieri (2003), ed è stato
pubblicato sulla rivista Giornale di confine (n.2,
anno II, luglio-ottobre 2003): www.giornalediconfine.net.
Ringraziamo l'autore e Dolores Ballone direttore della
rivista, per l'autorizzazione alla pubblicazione.
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