Luigi Pirandello e il cinema

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Luigi Pirandello e il cinema


Indicativo dei suoi atteggiamenti culturali di cauta apertura verso il nuovo e di riflessione sulla condizione del singolo, dell'individuo, nella società di massa, può essere il suo rapporto con il cinema. Pirandello fu tra i primi a coglierne le caratteristiche industriali, di alienazione che esso comportava (i "Quaderni di Serafino Gubbio operatore" 1915). Nel dopoguerra, quando ormai il cinema si era affermato come fenomeno mondiale, concesse più volte il diritto di sceneggiare suoi scritti: "Il fu Mattia Pascal" regia di Marcel l'Herbier, "Acciaio" di Walter Rutmann, "Ma non è una cosa seria" di Mario Camerini. Pirandello, che pure non scese mai direttamente in campo, continuò a riflettere sul problema del rapporto tra teatro e cinema. Nel 1929 in un articolo sul «Corriere della sera», scrisse che il peccato maggiore del cinema era quello di voler gareggiare con il teatro: «Per questa via la perfezione non potrà condurre il cinematografo ad abolire il teatro, ma se mai ad abolire sé stesso». Piuttosto vedeva nel cinema un altro spazio, diverso da quello del teatro, in cui potersi esprimere. Sognò un cinema che fosse «cinomelografia», linguaggio visibile della musica (per intenderci, qualcosa come "Fantasia" di Disney di un ventennio dopo): «Gli occhi che vedono, l'orecchio che ascolta, e il cuore che sente tutta la bellezza e la varietà dei sentimenti che i suoni esprimono, rappresenta nelle immagini quel che quei sentimenti suscitano ed evocano». In questo modo il cinema avrebbe trovato sé stesso approdando «ai porti prodigiosi del miracolo» e non avrebbe attentato al teatro.



[1997]


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