Aree extraeuropee tra il VII e il X secolo

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Aree extraeuropee tra il VII e il X secolo


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Ebraismo

All'VIII secolo risale, in Palestina, l'opera di El'azar ha-Qalir, il massimo rappresentante della poesia profana, che deriva dal pijjù t, la poesia liturgica post-talmudica.

Mondo arabo

Testo della nuova religione è il Corano (al-Qur'an, recitazione) considerato dai musulmani modello ineguagliabile e inimitabile, dettato direttamente da dio (Allah) al suo profeta Muhammad "in chiara lingua araba" tramite l'angelo Gabriele. Il Corano fissò nei secoli i canoni linguistici e stilistici della lingua araba. Il Corano si compone di circa 6200 versetti, divisi in 114 capitoli (sure) in prosa rimata, varie nell'intonazione e nel contenuto, e accostate disorganicamente (discorsi ai credenti e ammonimenti, precetti di culto, norme giuridiche, racconti biblici, visioni escatologiche, invettive e polemiche con i non credenti, allusioni di carattere storico e autobiografico). Peculiarità dell'opera è il fatto di essere stata composta non per la lettura ma per la recitazione. L'islam ha sviluppato una vera e propria arte della recitazione del testo sacro, intesa a sprigionare, attraverso la sapiente dosatura delle pause e l'abile salmodiatura delle rime e delle assonanze, tutta la capacità espressiva e suggestiva del testo.
Secondo la tradizione, la prima raccolta delle sure fu voluta pochi mesi dopo la morte di Muhammad, dal primo califfo Abu Bakr. Quella definitiva e ufficiale risale a Othman, terzo califfo, e fu portata a termine dal segretario del profeta, Zaid ibn Thabit, affiancato da altri dotti, nel 650. Gli antichi raccoglitori, che lavoravano in buona parte su testimonianze mnemoniche, non si basarono né sulla cronologia dell'esperienza di Muhammad né sulla logica interna del suo discorso, ma sul criterio estrinseco della lunghezza delle sure, che ordinarono in senso decrescente: le più lunghe prima e le più brevi poi. Il risultato fu l'inversione del reale ordine cronologico dei due periodi di composizione: quello meccano (610-622, con le sure più brevi) e quello medinese (622-632, con le sure più lunghe). Le sure meccane, nate nel momento della folgorazione e della primitiva e impetuosa predicazione di Muhammad, sono le più ricche di slancio mistico, hanno un linguaggio oscuro e immaginoso, un ritmo intenso: nell'insieme hanno maggiore forza espressiva e valore letterario. Quelle medinesi rispecchiano la nuova dimensione politica del messaggio di Muhammad dopo la fuga dalla città, sono caratterizzate da una pesante e realistica normatività, uno stile e un ritmo sciatti e dimessi.
La lingua del Corano è l'arabo dotto dell'epoca di Muhammad.

Periodo di espansione culturale conosce la letteratura araba tramite l'islam. Se il Corano è il testo canonico per eccellenza, nel periodo omayyade (661- 750) i temi dell'amore e della politica assumono particolare importanza; la qasida si libera dalla fissità degli schemi tradizionali; nelle ricche città di Mecca e Medina sorge un nuovo genere di poesia amorosa, il ghazal, forse ispirato alla tradizione dei cantori greci e persiani. Maggiore rappresentante del ghazal è 'Omar Ibn Abi Rabi'a (morto nel c.720), lirico dolce e appassionato, i cui carmi di intonazione erotico-galante secondo la tendenza dominante della poesia d'amore cittadina del periodo omayyade, sono esemplari per la naturalezza dello stile e l'immediatezza delle descrizioni; molto popolare è anche Gamil (morto nel c.701) che canta un amore ideale, languido e senza speranza, secondo una tipologia destinata a molta fortuna nei secoli futuri.
Appare inoltre la prosa, sotto forma di raccolte di fatti o detti della vita del profeta Maometto.

Nel 750 la bianca bandiera degli Omayyadi cade di fronte a quella nera degli Abbasidi; sotto la nuova dinastia l'islam raggiunge il massimo splendore nelle scienze e nelle arti; centri culturale oltre che politico del califfato è Baghdad. La produzione letteraria acquista un nuovo carattere: composta per una società urbana, è rivolta per la prima volta a popolazioni di stirpe non araba. La qasida acquista un carattere più cerimoniale, si arricchisce di tecnicismi e artificiosità, insegue la bellezza della metafora e della similitudine: è il "nuovo stile" (al-badi), adottato per la prima volta con successo da Bashshar ibn Burd (m. 784). Esponente principale ne fu Abu Nuwas (747-762\813-815), nato in territorio iranico da madre persiana e pa- dre arabo, educato alla scuola di Basra [=Bassora] dove fu condotto fanciullo, e vissuto alla corte califfale di Harun al-Rashid, a Baghdad, dopo un breve soggiorno a Kufa. Visse a Baghdad il resto della vita, tranne un breve soggiorno in Egitto. Abu Nuwas ("quello dal ciuffo") fu il soprannome che si scelse: in realtà si chiamava al-Hasan ibn Hani. Gaio e cinico, cantore del vino e delle taverne, delle danzatrici e degli efebi, dei giardini e della acque chiare, fonde il senso persiano del dolore cosmico con l'indole passionale dei beduini; in tarda età si volse alla mistica componendo poemi ascetici. Egli si colloca in pieno nel quadro del vasto movimento di rinnovamento della poesia araba iniziatosi già in età omayyade ma giunto a maturazione sotto i primi califfi abbasidi. Di tale rinnovamento, che concepiva la poesia come libera immediata espressione, e non più come ripetizione di schemi e moduli linguistici della poesia classica del deserto, Abu Nuwas fu il maggior artefice. I temi principali della sua vasta opera, raccolta in un canzoniere (diwan) sono quelli erotici e bacchici, trattati ora con delicata e malinconica sensibilità, ora con spregiudicato realismo, ora con tagliente ironia. Non mancano qaside alla vecchia maniera araba, satire, panegirici, poesie ascetiche. Abu Nuwas ebbe grandissima fama nel mondo arabo, come testimonia la sua presenza nelle "Mille e una notte" accanto al califfo Harun ar-Rashid.
Diverso è il contemporaneo Abu al-'Atahiya (748\c.825), personalità ascetica, poeta in una lingua semplice e accessibile al popolo. Habib ibn 'Aws Abu Tammam (800\c.845), siriano di origine cristiana ma ritenuto della tribù dei Tayyi', autore di elaborate poesie e raccoglitore della tradizione araba classica; fu precursore, insieme al conterraneo al-Buhturi, del neoclassico Mutanabbi; deve la sua fama alla Hamasa, raffinata antologia di poesie antiche. La sua produzione personale ha uno stile carico di immagini artificiose e di retorica sentenziosità, ma è utile per lo storico giacché celebra importanti eventi dell'epoca.

Abu al-'Abbas 'Abd Allah Ibn al-Mu'tazz, fu califfo per un giorno. Nato a Samarra nell'861, membro della dinastia abbaside, nel 908, dopo la morte del califfo al-Muktafi, fu coinvolto negli intrighi di corte e nominato, pare contro la sua volontà, califfo: il giorno dopo scoppiava una rivolta di palazzo e veniva strangolato. Fu però soprattutto poeta e antologista geniale, autore di versi di grande forza evocativa: la nostalgia dei giorni gloriosi del passato, la gioia per la vita che scorre quotidianamente, l'amore e l'ebbrezza del vino sono cantati con stile limpido e suggestivo. E' autore anche di un celebre manuale di retorica e poetica, il Libro del nuovo stile (Kitab al-badi), la più antica opera del genere in arabo, dove egli esamina e classifica scientificamente i mezzi espressivi della poesia araba riscontrandone la continuità attraverso i secoli. E' stato autore anche di un poema storico.
Singolare figura di poeta e emiro guerriero fu quella di Abu Firas al- Hamdani. Appartenente alla dinastia degli Hamdanidi, fu un combattente della gihad contro i bizantini. Al suo tempo, nel X secolo, la guerra santa non era più condotta direttamente dal decadente califfato di Baghdad, ma, sotto la sua guida nominale, da emiri di frontiera, come appunto gli Hamdanidi di Aleppo. Abu Firas era cugino di uno dei più celebri emiri combattenti, Ghazi Saif ad-Dawla: con lui combattè in Siria e in Anatolia. Catturato dai bizantini, attese quattro anni il riscatto che da Costantinopoli lo restituisse alla sua patria. Prigioniero, espresse nei suoi versi la tristezza della sua condizione: sono la parte più patetica del suo diwan, con toni che ricordano le "Cose tristi" di Ovidius e i versi di Charles d'Orlé ans prigioniero dopo Azincour: tra gli altri scrisse alcuni quadretti polemici riflettenti dispute teologiche con i suoi carcerieri (tra essi, lo stesso imperatore Niceforo Foca), e la toccante apostrofe a una colomba. Già prima della sua disavventura bizantina Abu Firas aveva cantato le proprie gesta guerriere, la gioia del vivere cavalleresco, tra cacce e amori: oltre a carmi sulla sua guerra anti- bizantina anche un lungo poemetto cinegetico. Dopo quattro anni tornò in patria, ma non trovò più la madre, da lui rimpianta con sinceri accenti. Nel frattempo morì il cugino emiro, e Abu Firas tentò di contendere l'eredità al legittimo erede: perse la vita nel fallito tentativo, nel 968. Partendo per la sua ultima battaglia pare scrisse alla sua figlioletta questo presago addio: «il fiore di giovinezza, Abu Firas, non potè godere intera la sua giovinezza».
Nel campo della prosa si impone quella d'adab o elegante, con la traduzione dal persiano delle favole indiane del "Pañcatantra" (760) fatta da una versione pehlevica da Ibn al-Muqaffa'.
Un compilatore, ma importantissimo per il cumulo di notizie e informazioni che raccoglie e che grazie a lui ci sono conservati, è Abu Giafar Muhammad ibn Giarir at-Tàbari. Nato nell'839 (morì nel 923) nella regione del Tabarì stàn [Persia nord-ovest], deve la sua fama alla monumentale opera Il libro delle notizie dei profeti (o: Storia dei Profeti e dei Re), che espone annalisticamente la storia del popolo arabo dalle origini leggendarie al 914. Tàbari visse soprattutto a Baghdad, in epoca abbàside, ebbe interessi soprattutto giuridico-religiosi, fondò anche una piccola scuola; scrisse anche un voluminoso Commento (Tafsì r) al Corano, che divenne un classico dell'esegesi coranica ortodossa.
Il suo "Libro" raccoglie la più antica storia dell'Islam che possediamo, sotto la forma tradizionale dei hadì th (racconti, eventi) introdotti ognuno dalla catena (isnàd) dei suoi trasmettitori nominati in elenco. Sotto tale forma è giunta fino a noi la più antica biografia di Mohammed, e la successiva storia del califfato degli Ommàyyadi e degli abbàsidi, delle conquiste arabe e delle lotte interne. Tàbari non si limita alla cronaca araba, ma parla anche delle civiltà limitrofe e che influenzarono l'islam, soprattutto della storia ebraica e persiana, con accenni a quella greco-romana. Tàbari fece una scelta accurata del materiale, mosso da interessi prevalentemente religiosi, e da una posi- zione ideologica favorevole agli abbàsidi (contro i predecessori e rivali omàyyadi). La sua opera fu largamente usata dalla storiografia araba successiva (si pensi a Ibn al-Athir, nel XIII secolo), e nello stesso X secolo fu ridotta e adattata in persiano dal visir Bàl'ami.

Kurdistan

Anche il Kurdistan, come le altre regioni del medio-oriente, viene conquistato dagli eserciti e dalla cultura islamica. Nonostante l'islamizzazione, riesce a mantenere una sua individualità. Soprattutto dal punto di vista linguistico, i dialetti kurdi rimangono, anche se contaminati e arricchiti dalle nuove conquiste, sostanzialmente la lingua dell'"Avesta". La distruzione a opera di Alessandro il Macedone della biblioteca meda di Ecbatana ci ha privato di importanti documenti sulla produzione culturale di queste popolazioni. In kurdo erano le "Ghata", gli inni sacri di Zardasht (Zarathustra), di cui rimasero pochi frammenti.
Risalente forse alla conquista islamica, al VII-VIII secolo, è il frammento trovato in una grotta di Sharazur, scritto su un pezzo di cuoio e segnalato dallo storico *Alauddin Sajadi nel 1952. Si tratta di un lamento, che documenta l'avvento della nuova era:
«Distrutti sono i luoghi di preghiera, | i fuochi sono spenti. | I più grandi tra i grandi si sono nascosti. | Gli arabi crudeli abbattevano | i villaggi dei contadini fino a Sharazur . | Prendevano come schiave le loro mogli, le loro figlie. | Uomini valorosi si rotolavano nel sangue. | I riti di Zarathustra non si compiono più . | Ahura Mazda non ha pietà di noi».
Dalla regione ormai islamizzata del Kurdistan proviene nel X secolo Baba Tahir. Nato a Hamadan nel c.935 (morì nel 1010), fu autore di raffinate quartine. Ebbe una vita tormentata, che si riflette nella sua poesia scritta in Lumi, idioma del gruppo iranico sud-occidentale. Scrisse Baba Tahir in una delle sue quartine:
«Sono l'aquila che vive sulle vette | dall'alto osservo i pascoli. | Senza famiglia, senza casa e terra | come sudario avrò solo le mie ali. || Tutto quello che desidero è di avere accanto | un volto splendente come il tulipano. | Se alle montagne narrassi il mio soffrire | sui pendii non crescerebbero più fiori. || E' pieno di dolore il mio cuore, Signore, | soffre e trema d'angoscia | anela alla patria, piange l'esilio. | E questo fuoco mi brucia».
I suoi versi rimasero popolari nella regione kurda ancora nel XX secolo.

Cina

Tra VII e X secolo è in Cina la dinastia T'ang. Già con la precedente dinastia Sui (581-618) era avvenuta la riunificazione; ora grazie ai T'ang (618-906) si ha l'apogeo della potenza imperiale.
Gli elementi elaborati nel periodo precedente concorrono alla formazione di una cultura tra le più ricche del mondo. Trionfa il buddhismo grazie soprattutto all'opera di alcuni pellegrini che tornano dall'India portando i testi della Legge e della tradizione antica, rapidamente assimilati nella vita quotidiana, nell'iconografia e nel simbolismo locale: tra questi religiosi- pellegrini il più famoso è Hsüan-tsang (ovvero Tripitaka, 602\664). Alla diffusione del buddhismo come religione di massa è legato anche un fattore tecnologico, che imprimerà un potente acceleratore alla civiltà cinese: l'invenzione della stampa xilografica, usata all'inizio per la riproduzione di immaginette sacre e preghiere votive, poi per la stampa dei testi canonici. Di tale produzione è rimasto come testo più antico esistente il "Sutra di Diamante" dell'869. La stampa xilografica si diffuse rapidamente in tutta l'asia orientale, dal Giappone alla Corea, contribuendo anche tra l'altro alla diffusione della cultura e della conoscenza dei grandi nomi della letteratura cinese.
Ma trionfa anche la critica, ispirata all'antico rigore confuciano. All'ideale dell'equilibrio impersonale e dell'integrazione in un ordine sociale universalistico, fa riscontro l'individualismo taoista. Accanto al letterato confuciano convive il cavaliere errante.

Grandi letterati come Han Yüe Liu Tsung-yüan promuovono la riforma della prosa come "ritorno ai classici", contrapponendo lo stile all'antica (ku- wen), già in voga in epoca Han (206-/220+) più semplice e vicino al parlato, ai preziosismi del p'ien-wen che si era imposto a partire dal IV secolo e che si contraddistingueva per l'uso della rima e del parallelismo tra gruppi di frasi, e ai contenuti buddhisti. Lo stile imposto dai riformatori, diede luogo a una prosa completamente nuova, con l'alibi del 'ritorno' all'antico. Han Yü, nato nel 768 (morto nell'824), scrisse nello stile della riforma, il ku-wen, dissertazioni etico-religiose e saggi filosofici di stretta osservanza confuciana; alcune delle sue composizioni figurano nella famosa antologia che raccoglie le 300 migliori poesie dell'epoca T'ang.
Liu Tsung-yüan nacque nel 773 (morì nell'819). In una serie di saggi trasse spunto dalla descrizione del paesaggio per considerazioni filosofiche e sociali. E' considerato il miglior prosatore della letteratura cinese. Coltivò con eleganza anche il genere minore del hsiao-shuo (= piccolo parlare, cioè l'aneddoto, la novella), e quello delle favole allegoriche in cui per la prima volta nella letteratura cinese intervengono animali parlanti. Fu poeta raffinato e calligrafo di fama. Nelle liriche più ispirate rivela un profondo legame con il buddhismo.

Nel 606 sono ripristinati (sotto la dinastia Sui), e riordinati, gli esami di stato; nel 742 viene introdotta la prova di composizione poetica per concorrere al titolo di chin-shih: gli esami saranno soppressi e poi parzialmente ripristinati dai mongoli, mentre saranno restaurati sotto la dinastia Ming.
Fiorisce una letteratura religiosa. Numerose le traduzioni di testi buddhisti, ad opera ad esempio di Hsüan-tsang, fino alla produzione originale delle varie scuole e sette: è questo il periodo classico della scuola del Dhyana (in cinese Ch'an; in giapponese Zen).
L'influenza buddhista è determinante nella nascita della narrativa in lingua parlata. Dall'agiografia si libera a poco a poco il racconto orale, ad opera di narratori professionisti. Di qui si svilupperà in seguito la prosa narrativa in volgare, e, in parte, il teatro.

La produzione di maggior rilievo dell'epoca è però la poesia. Nel XVIII secolo fu composta un'ampia raccolta delle poesie dell'epoca: una raccolta che comprende 48.900 poesie, opera di circa 2000 autori. I maggiori poeti del tempo furono: Meng Hao-jan, Wang Wei, e soprattutto Li Po, Tu Fu, e Po chü-i.
E' una produzione poetica che si serve di una lingua poetica canonica. Elevata a punto di arrivo di ogni esperienza di scrittura, la poesia cinese nel momento in cui ha potuto accantonare il problema della questione della lingua, si è proiettata verso un cammino ideale, dove anche i personaggi scomodi o devianti, come nel cvaso di Li Po, sono stati di volta in volta incasellati o riporoposti come archetipi. Nei mille anni che dividono la prima forma di poesia scritta dall'epoca T'ang, la poesia cinese ha subito profonde evoluzioni formali, a livello metrico, in stretto collegamento con l'elemento musicale da cui trae la sua orgine, collegamento ancora evidenziato nel corso dei secoli dalla presenza dei toni, di cui la lingua cinese comincia a prendere coscienza a partire dal V secolo (+) quando si intensificano i rapporti con il sanscrito, la lingua del buddhismo. Dal verso arcaico, prevalentemente di quattro sillabe, con complessi schemi di rime, si è passati al verso antico (ku- shih) di cinque o sette sillabe, con numero di versi che può essere indefinito, segnate da rime al secondo verso, considerando come unità di misura se- mantica oltre che metrica il distico, in cui il primo dei due versi spesso crea una attesa di senso nei confronti del secondo. Questa cellula poetica del ku- shih che è il distico, evidenziato anche dalla compiutezza semantica, fa sì che il numero di versi sia quasi sempre pari, a cominciare dalla quartina che Li Po in particolare porta a grande capacità espressiva, dilatando oltre gli angusti limiti lessicali gli effetti di senso alla cui attuazione concorre l'articolatissima struttura metrica, la combinazione fonica e il simbolismo grafico. A partire dal VII secolo (+), l'uso sempre più consapevole delle figure ritmiche (l'alternanza tonale) si traduce in strutture metriche sempre più rigide, sottoposte a regole precise. E' il verso regolato (lü-shih) la cui complessa struttura si può riassumere nelle caratteristiche di base: cinque o sette sillabe, otto versi che si possono contrarre a quattro o aumentare al centro all'infinito, figure ritmiche o sistema tonale obbligati, e sul piano sintattico l'alternanza di versi paralleli e non paralleli.
Più tardi la musica prenderà il sopravvento con la comparsa, verso la fine del VII secolo, del tz'u che, accanto al yüeh-fu, passato dalla tradizione popolare alla tradizione colta, porta una più libera economia stilistica e una più stretta interdipendenza sintattica con la lingua parlata.

Meng Hao-jan (689\740) che, respinto nel 737 agli esami imperiali si ritirò a vivere sul monte Lu-men, vicino alla sua città natale Hsian-yang, dedicandosi unicamente alla poesia: la critica lo considera uno dei maggiori poeti del suo tempo, amico di Wang Wei di cui condivise la squisita sensibilità e l'amore per la natura.
Wang Wei (che era nato a Taiyüan nel 699, morì nel 759) superò invece con successo gli esami imperiali a soli 18 anni, e si dedicò poi allo studio della medicina, fu eccellente musicista, ricoprì la carica di segretario di stato per la musica. All'epoca della ribellione di An Lu-shan si mantenne fedele alla dinastia legittima. Le sue opere mancano di riferimenti biografici, i suoi versi offrono un'immagine preziosa della natura non contaminata dalle passioni, ne fanno uno dei maggiori esponenti dell'epoca d'oro della poesia cinese fiorita proprio in questo periodo.

Li Po (701\762), o Li T'ai-po, viaggiò di continuo con soste ora nella capitale, presso la corte, ora presso amici e protettori. Nacque in Asia centrale, in una località sconosciuta, dove il padre, discendente di una nobile famiglia, era stato mandato in esilio. Sappiamo che trascorse la prima infanzia a Ch'ang-ming [Szechwan]. Iniziò a viaggiare presto e a scrivere poesie, cercando di procurarsi la notorietà. Si stabilì a An-lu [odierno Hupei] dove sposò la figlia di un piccolo notabile locale. Dopo la morte precoce della moglie si sposerà altre tre volte. Dalla terza moglie avrà due figli. Fu l'unico dei grandi poeti del tempo a non partecipare agli esami letterari di stato. La presentazione di uno scrittore taoista lo introdusse a corte dove si fece ap- prezzare dall'imperatore Hsüan-tsung, grande mecenate. Fu poi assunto nell'Accademia di Han-lin, istituzione statale che accoglieva letterati artisti attori maghi e ciarlatani che godevano della fiducia imperiale. Non sappiamo se sia caduto in disgrazia o se si sia allontanato volontariamente: sappiamo che dal 744 inizia un periodo di viaggi. Fu nel decennio successivo che in- contrerà il futuro poeta Tu Fu, ancora giovane e sconosciuto. Dopo la rivolta di An Lu-shan (755-6) fu esiliato per un po' nello Yünnan, per comportamento sleale verso la dinastia: quando il generale sogdiano An Lu- shan aveva marciato contro gli eserciti imperiali autoproclamandosi imperatore, Li Po pare sia stato coinvolto nel tradimento di uno dei fratelli di Hsüan-tsung passato ai ribelli. Trascorse probabilmente anche un periodo in prigione. Passò gli ultimi anni alla ricerca di una soluzione ai suoi perenni problemi economici. Morì nel 762 a casa del calligrafo Li Yang-ping, al quale aveva affidato la cura dei suoi scritti.
Li Po aveva spirito profondo, libero ed eccentrico, amava il vino, fu amico di insigni monaci taoisti e ne ricevette una iniziazione. Pur senza uffici né ricchezze, non sembra abbia sofferto di eccessive privazioni materiali. La leggenda vuole che, ubriaco, sia morto annegato cercando di afferrare nell'acqua il riflesso della luna.
Restano di lui una sessantina di composizioni in prosa e una vasta opera poetica, che comprende ballate (yüeh-fu), versi liberi detti 'in stile antico' (ku t'i), e componimenti di otto versi nei metri rigidi di 5 o 7 piedi, regolati da un complesso sistema di rime e di strofe, codificato appunto in quel periodo (lü- shih). Li Po eccelse nella poesia in verso libero, e nelle brevi quartine dette 'verso interrotto' (chüeh-ch'ü). In un'epoca di classicismo, dove il riferimento agli antichi significa la riconquista dell'espressione diretta e semplice, la sua disciplina interiore sfugge al rigore della morale e a quello dei metri obbli- gati. Egli aveva un senso drammatico della natura e delle cose. L'autocontrollo esclude la moderazione: Li Po è la negazione del modello confuciano di letterato.

Tu Fu (nato a Tuling [Shensi] nel 712, morì a Leiyang [Hunan] nel 770) nato da famiglia povera, dopo viaggi e soggiorni in diverse città si stabilì nel 747 nella capitale Ch'ang-an. Falliti gli esami letterari nel 736 cui si era presentato come candidato ufficiale della sua provincia. Fa vari mestieri, torna nel 745 nella capitale, trovandovi un deterioramento dei costumi e una corruzione dilagante, ma non riesce a affermarsi. Solo in seguito l'imperatore, colpito dai suoi scritti in prosa e in verso, gli farà ripetere gli esami: stavolta li supererà e potrà inserirsi. A 40 anni ottenne un impiego minore come 'registratore' di corte. Si sposa, tormentato daio problemi economici. La rivolta di An Lu-shan sconvolse la sua vita. Nel tentativo di raggiungere la corte in esilio a Ma-wei, dove la favorita Yang Kuei-fei viene accusata di tradimento e condannata a morte, Tu Fu viene catturato dai ribelli. Solo quando la rivolta fu domata Tu Fu riuscirà a trovare un breve periodo di pace. Cadde in disgrazia per il suo atteggiamento intransigente. Andò errando da un luogo a un altro, separato dalla famiglia, in condizioni misere. Per qualche anno si rifugiò presso Ch'eng-tu nel Ssu-ch'uan dove visse coltivando la terra. Rinuncerà per sempre al suo sogno di poter dare un valido contributo al sovrano come consigliere o commentatore politico. Contrastanti sono le versioni sulla sua morte, avvenuta nel 770. Secondo una versione morì solo, in barca, nel tentativo di raggiungere per l'ennesima volta la capitale; secondo un'altra versione, per un banchetto abbondante dopo un prolungato digiuno. Notissimi i versi in cui si lamenta della capanna scoperchiata dal vento e sogna una casa che accolga tutti i letterati poveri del mondo. Di Tu Fu ci restano circa 25 brani in prosa e più di 1400 testi poetici: versi nel vecchio stile (ku t'i), ballate (yüeh-fu), versi quinari e settenari nelle nuove forme codificate (lü-shih), quartine di settenari 'interrotti' (chüeh-ch'ü). Se si escludono le composizioni minori, d'occasione e di repertorio, i suoi testi hanno per tema gli orrori della guerra e lo sfruttamento del popolo: essi appartengono alla grande poesia e fanno di lui uno dei maggiori poeti cinesi. La rinascita letteraria T'ang implicava il rifiuto delle forme sofisticate e decadenti precedenti, il ritorno all'espressione pertinente e rigorosa: era il trionfo del classicismo nel senso più positivo. E la poesia di Tu Fu segna forse la massima vetta in questo contesto. L'autocontrollo è portato al limite, mentre calcolo e freddezza apparente sono la corrispondenza estrema della forma con l'oggetto.
Più giovane di Li Po, legato a questi da una profonda amicizia, Tu Fu ebbe una biografia simile, segnata dal girovagare, dalla ricerca di una sistemazione onorevole, dallo sconvolgimento per la rivolta di An Lu-shan. In realtà li divide una concezione diametralmente opposta della funzione storica del letterato, oltre che lo stile di vita che il messaggio biografico propone dall'interno della sua opera. Il carpe diem taoista e l'impegno confuciano del letterato al servizio dello Stato danno esiti diversissimi nel discorso poetico, differenziandolo anche nelle scelte metriche ritmiche e semantiche.

Po chü-i (772\846), nacque nello Shensi. Dopo l'esame letterario di stato percorse brillantemente la carriera di funzionario nonostante le crisi le rivolte e i disordini che agitavano il paese. Fu governatore di importanti città come Hang-chou e Su-chou. Cadde in disgrazia nell'815 e venne retrocesso a maresciallo, inviato in una località a sud dello Yang-tze, Chiang-chou. Con la protezione di influenti amici rientrò nelle sue cariche e, dopo la morte dell'imperatore Hsien-tsung venne richiamato a corte.
Ricca la sua produzione in prosa: memoriali al trono, raccolte di saggi (tra cui saggi-modello per gli esami), lettere, una enciclopedia letteraria in 30 volumi e usata a lungo come repertorio. La sua opera maggiore è però quella in versi, sia politici che di "meditazione", in metro libero di stile antico (ku t'i), sia "leggeri", in stile moderno codificato (lü-shih). Egli ha voluto lasciare la sua opera poetica divisa in quattro sezioni: le prime tre secondo grandi temi (la funzione didattica della poesia, la funzione edonistica e la funzione consolatoria), la quarta secondo i metri.
Caratteristiche delle poesie di Po chü-i sono la grande semplicità e chiarezza e, in quelle politiche, il contenuto morale confuciano, l'interesse partecipe alla sorte del popolo. Egli divenne presto famosissimo: era ancora in vita e i suoi versi erano già sulla bocca di gente d'ogni condizione e venivano trascritti sui muri. Universalmente noti il Canto dell'eterno rimorso, sull'amore tragico dell'imperatore Hsüan-tsung e della favorita Yang Kuei-fei, e il Canto del p'i-p'a, storia di una donna bella e infelice. Anche in Giappone Po chü-i divenne un modello insuperato di scrittura poetica, grazie alla diffusione delle sue opere avvenuta in stampa xilografica a partire dalla dinastia Sung (960-1279).
Po chü-i visse quasi un secolo più tardi rispetto ai due grandi predecessori Li Po e Tu Fu. Un periodo contrassegnato dal declino della vita culturale. Una nuova consapevolezza del poeta nei confronti della sua opera sembra contendere il rpimato alla funzione pubblica della creazione letteraria. Po chü-i è il primo che ha lasciato una sistemazione organica della sua vastissima attività erudita, in prosa e in versi, oltre che una vera e propria poetica, i «princì pi fondamentali dell'arte», frutto di una intensa frequentazione epistolare con il poeta Yüan Chen con cui ebbe una amicizia divenuta proverbiale nella storia delle lettere cinesi.
La ricchissima mole dei suoi scritti testimonia e sottolinea le varie fasi della sua carriera politica, il suo rapporto con gli altri, sia pubblici che privati, il senso profondo di umanità che gli deriva dalla religione buddista, con cui assolve i suoi compiti di amministratore. E il suo rapporto con la scrittura, rivolta a un pubblico più vasto e universale che non la ristretta classe dei letterati. La popolarità di cui godette fu una cosa voluta, attraverso una ricerca metrico-sintattica e lo studio accurato dello strumento linguistico. Secondo un aneddoto, Po chü-i era solito leggere i suoi versi a una vecchia analfabeta per controllare il grado di comprensibilità del suo linguaggio poetico.

Altri poeti: Yüan Chen (779\831), Li Shang-yin (813\858). La poesia si definisce nei generi, nelle forme, nella metrica. Non mancano però motivi eterodossi e popolari.
Nella seconda parte della dinastia (An Lu-shan, 756-763) ribellioni e disordini sono l'indizio di una crisi profonda, che segna anche poeti e letterati.

Giappone

Dall'VIII secolo ci provengono le più antiche opere giapponesi pervenute. Le prime a noi pervenute sono le Memorie degli eventi antichi (Kojiki, 711- 712) la cui scrittura ideografica risente dell'influenza linguistica cinese, e gli Annali del Giappone (Nihongi, o: Nihon-shoki, 720), scritti in cinese. Cinese è anche l'ispirazione e l'uso di compilare storie dinastiche.
Le "Memorie degli eventi antichi" è il più antico libro di mitologia e storia giapponese. E' costituito da 3 libri, composti per ordine dell'imperatore Genmei nel 711-712, probabilmente da O-no-Yasumaro, sulla base di più antichi racconti orali e dei documenti privati delle famiglie aristocratiche. Nel primo libro che ha anche il maggior interesse letterario, è narrata in chiave mitologica l'origine divina della famiglia imperiale; il II e III libro riportano invece biografie dei primi imperatori, leggendari e storici, fino a quella dell'imperatrice Suiko (593-628). Il testo contiene anche poesie e vari canti popolari, tra i più antichi del Giappone.
Gli "Annali del Giappone" è una storia in 30 libri, in cinese, scritta a più mani e conclusa nel 720. L'opera ricalca i grandi modelli della storiografia cinese, esponendo in ordine cronologico i fatti del Giappone dalle origini al 697. Fra gli autori furono il principe Toneri (675\735) figlio del celebre imperatore Teumu, e O-no-Yasumaro. Assai particolareggiato, questi "Annali" completano le notizie presenti nelle "Memorie degli eventi antichi". All'inizio dunque la cultura giapponese è profondamente influenzata da quella cinese; e il Giappone è tributario della Cina per vari aspetti: il sistema ideografico di scrittura, la forma di governo centralizzata, il buddhismo e il neoconfucianesimo, le tecniche artistiche. Salvo poi che con il tempo il Giappone ha saputo esprimere un'arte originale.

La prima vera pietra miliare della letteratura giapponese è la Raccolta di diecimila foglie (Man'yoshu, c.760) comprendente circa 4500 poesie e canti popolari. In questa raccolta si riscontra già l'originalità della poesia giapponese rispetto a quella cinese: la poesia cinese è generalmente lunga e fa ricorso alla rima; quella giapponese è breve, con versi di 5 e 7 sillabe alternati. La "Raccolta" rappresenta tutta la produzione poetica dell'epoca di Nara, distribuiti in 20 libri secondo il genere e l'argomento. Più di un migliaio sono anonime, le altre sono attribuite a 561 autori. Tra questi, sono cinque grandi poeti: Otomo-no-Yakamochi (718\785) consigliere imperiale, poeta lirico estremamente raffinato, forse il principale curatore della raccolta; Kakinomoto-no-Hitomaro (c.662\c.710), funzionario al servizio di imperatori e prì ncipi al cui seguito visitò numerose province (morì durante uno di questi viaggi), considerato per le sue poesie ricche per lessico e forza dei sentimenti il 'genio ispiratore della poesia' (kasen) giapponese, insieme a Yamabe-no- Akahito (vissuto nel VIII secolo) la cui poesia, particolarmente felice nel genere tanka, scaturisce da uno spirito limpido e amante della natura; Otomo-no-Tabito (665\731) padre di Yakamochi, i cui componimenti ri- flettono la dimestichezza di un nobiluomo con la cultura classica cinese; Yamanoue-no-Okura (660\c.733) assai colto, di modesta origine sociale, i cui temi hanno per sfondo la religiosità buddhista e sono ispirati alle sofferenze della gente più umile.
Nel complesso l'ideale estetico rispecchiato nella "Raccolta" è definito dalla tradizione giapponese come makoto, sincerità, immediata genuinità e potenza di emozione e di espressione.
Già in questo periodo fiorisce il tanka, di 31 sillabe, che sarà per secoli la forma poetica principale. Le sillabe sono divise in 5 versi settenari e quinari disposti secondo lo schema 5,7,5,7,7. Congeniale alla brevità dello schema metrico è il contenuto lirico: non vi si trova esplosioni di sentimenti né de- scrizione insistita di situazioni o stati d'animo: la poesia si esprime in poche sillabe, è suggerita, fa appena intravedere i sentimenti. Di qui l'importanza della breve introduzione esplicativa in prosa, che il poeta anteponeva al componimento per renderlo più comprensibile. Il genere tanka, detto anche mijika-uta (poesia breve), soppiantò altri generi poetici tradizionali e precedenti, come la choka (o naga-uta: poesia lunga), la uta (poesia per antonomasia), e la waka (poesia giapponese in senso stretto).
Altre forme della poesia giapponese sono le makura-kotoba (parole cuscino) e le kake-kotoba (parole premio). Le prime sono parole o frasi di 5 sillabe, che ricordano gli epiteti degli epici e lirici greci; le seconde sono parole che, pur avendo una sola pronuncia, hanno diversi significati e quindi sono impiegate nel loro valore semantico plurimo.
Il più noto e affascinante genere letterario giapponese, il monogatari (racconto breve o lungo), contribuì notevolmente a imporre l'uso della lingua scritta, soprattutto grazie alla vena narrativa delle dame di corte. Intorno al IX secolo il bonzo Kobo Daishi inventò, secondo la tradizione, due alfabeti sillabici, i kana, di facile lettura e usati generalmente dalle donne. Quando il monogatari si impose per la sua genuina ispirazione e per la purezza dei sentimenti descritti, impose a sua volta il modo di scrivere con i kana. All'origine del monogatari sono due filoni: uno composto di brevi racconti mitici o epici, funzione che la poesia per la sua brevità non poteva assolvere; un altro derivato dalle introduzioni alle tanka.

India

Nel 647, con la morte di Harsavardhana, il re indiano che aveva unificato gran parte dell'India settentrionale, iniziò un periodo di smembramento politico e di differenziazione culturale; il sanscrito iniziò a perdere d'importanza, restò lingua colta per i pandit e i sacerdoti, diede forma grammaticale, retorica e sistema prosodico, modi e temi letterari alle nuove lingue che si vennero man mano differenziando salendo di ruolo.
All'inizio del VII secolo risale il poeta epico Bharavi. Bharavi fu autore del poema intitolato Kiratarjuniya, che sviluppa in 18 canti un episodio del "Mahabharata", cioè il combattimento di Arjuna con il cacciatore selvaggio Kirata, che si rivelerà alla fine per il dio Siva e donerà all'eroe un'arma soprannaturale. Il racconto è il pretesto per lo sfoggio del virtuosismo stili- stico e lessicale tipico dei poeti kavya. Non manca tuttavia in Bharavi, considerato dalla tradizione indiana uno dei migliori poeti epici dopo Kalidasa, una vena di autentica poesia soprattutto nelle descrizioni della natura.
Nel VII secolo dovrebbe essere vissuto Bhartrhari, poeta gnomico, della cui vita ci restano solo poche notizie leggendarie. Secondo la tradizione si fece per ben sette volte monaco buddhista e altrettante volte abbandonò il convento. L'unica opera attribuitagli solo Le tre centurie (Satakatraya) in cui si illustrano i tre fini che la saggezza indiana assegna alle età dell'uomo: amore alla gioventù , azione pratica all'età adulta, rinuncia ascetica alla vecchiaia. L'opera è tra le più note tra le raccolte di strofe sentenziose, genere molto diffuso nella letteratura indiana. Personalità singolare, oscillante tra la gioia di vivere e l'ascetismo più rigoroso, Bhartrhari si riallaccia per raffinatezza formale a Kalidasa e in genere allo stile kavya. "Le tre centurie" fu la prima opera indiana conosciuta in occidente, nella traduzione olandese di *A. Roger (1651).

All'VIII secolo (+) dovrebbe risalire il Trattato di drammaturgia (Natyasastra), il primo trattato di retorica e poetica che possediamo della tradizione indiana. Un testo composto in gran parte con materiali anche molto più antichi. Il "Natyasastra" è dedicato in particolare al teatro, di cui cataloga e illustra anche gli aspetti esclusivamente letterari. Nel "Natyasastra" è enunciata anche la teoria del rasa che avrà grande sviluppo nei secoli successivi, costituendo il cuore della concezione estetica indiana antica (vedi Abhinavagupta, nel X-XI secolo).
Nello stesso VIII secolo viene assegnato il drammaturgo Bhavabhuti. Discendente da una grande famiglia brahmanica, studioso anche di materie scientifiche, visse presso la corte del re Yasovarman di Kanauj. E' autore di tre drammi: Le gesta del grande eroe (Mahaviracarita), Le ultime avventure di Rama (Uttaramacarita), e Malati e Madhava (Malatimadhava). I primi due traggono argomenti da episodi del "Ramayana": l'incontro di Rama giovane con la futura sposa Sita, e il ripudio di Sita da parte dell'eroe seguito dalla loro riconciliazione. Il terzo dramma, "Malati e Madhava", è il capolavoro di Bhavabhuti. Senza rifarsi, per quanto ne sappiamo, a fonti precedenti, vi narra l'amore nato fin dalla fanciullezza, di Malati e Madhava. Attraverso alterne vicende, durante le quali Malati è promessa sposa per motivi politici a un altro e rischia poi di essere sacrificata alla crudele dea Camunda, i due giovani riescono alla fine a sposarsi. Sono drammi che sembrano essere stati composti sia per la rappresentazione che per la lettura (per la presenza di lunghi brani narrativi). Spiccano in Bhavabhuti la capacità di risvegliare il sentimento dello spettatore e/o del lettore, e la visione profondamente morale della vita. Con lui e con Kalidasa, il teatro indiano antico raggiunge le espressioni più alte.

Gli inni degli alvar

Tra il VI e il X secolo, vissero nell'India meridionale gli alvar, cantori del dio Visnu cui dedicarono una serie di scritti innici raccolti ne La divina composizione in 4000 strofe (Nalayirativviyappirapantam). Si tratta di una raccolta di poemi distribuiti in quattro libri di 1000 strofe ciascuno. Gli alvar erano mistici, cantori appassionati e fantasiosi del dio Visnu contemplato in ogni suo aspetto, incarnazione e immagine. La tradizione ha fissato in 12 il numero degli alvar, a ciascuno dei quali vennero attribuiti diversi poemi. Attorno a questi alvar, fiorirono diverse leggende biografiche. Capaci di nascere da un loto d'oro o da una ninfea rossa in uno stagno sacro o anche da un bocciolo di kurukkati (un rampicante a fiori bianchi): a simboleggiare la purezza e il simbolo divino. Altre volte capaci di avere splendide carriere spirituali e artistiche nonostante le loro origini di trovatelli. Capaci di vivere 4700 o anche solo 35 anni. Possono nascere anche deformi, come accadde a uno di loro che uscì da una gravidanza di 12 mesi ridotto a una massa di carne informe tanto da essere abbandonato con ribbrezzo dai suoi stessi genitori e raccolto da un tagliatore di bambù . Ma possono anche uscire dal grembo materno già votati alla meditazione, con bocca occhi e orecchie sigillati ai rumori e al vaniloquio del mondo, come fu per uno di loro divenuto cantore solo di Visnu. Tra di loro ci fu anche una donna, Antal (= la sovrana, la signora) che introduce negli inni, solenni e un po' barocchi degli alvar, un tocco di gaiezza e femminilità. Antal secondo l'agiografia, fin da piccola dichiarava un amore esclusivo e appassionato per il dio Visnu; amava indossare all'insaputa del padre le ghirlande di fiori destinate alla statua divina. Fu una ciocca di capelli impigliata in uno di quei serti a tradirla, suscitando la reazione atterrita del padre di fronte a tanto sacrilegio, ma anche la risposta gioiosa del dio che scelse Antal (il cui nome era Kotai, cioè "ghirlanda") in sposa.
Gli alvar sono circondati da un'aura agiografica così spessa da essere quasi invalicabile a ogni ricerca storiografica, se non forse nelle allusioni presenti nei loro versi.
L'inno più breve consta di 11 strofe e ha per titolo quello di Cordicella dai mille nodi. Si racconta che inizialmente fu consigliato di recitarlo 12 mila volte.
Quello degli alvar è un oceano letterario e spirituale immenso, anche se a volte ripetitivo. Questi testi, come i "Veda", furono considerati "ispirati": è Visnu stesso il vero autore che parla per bocca degli alvar. Alcuni poemi sono stati considerati dalla tradizione visnuita come scritture sacre al pari dei "Veda". Per noi è soprattutto un corpus letterario di enorme valore. Si legga l'inizio di uno di questi poemi:
«La terra era la lampada, il vasto mare era l'olio, il sole infuocato era la fiamma. Io ho posto una ghirlanda di parole ai piedi del Signore dal rosso disco fulgente, dicendo: Si allontana l'oceano della sofferenza!».
E' come muoversi in un labirinto dalle pareti colme di tesori. Si è invitati a sdraiarsi sul «soffice letto del serpente cobra dai molti cappucci» o di assistere allo spettacolo di «grossi pavoni che danzano al dolce canto dei calabroni». Dietro il simbolo si scopre il volto divino incarnato nei tratti nuziali e persino erotici dell'uomo. Si legge in un altro di questi poemi:
«Rosso frutto maturo, la bocca del Signore che si è fuso in me è un lto rosso. Gli occhi, i piedi e le mani di Lui - montagna di balenante fulgore - sono rossi loti. Tutti e sette i saldi mondi sono stati all'interno della sua pancia».
Canta una fanciulla innamorata del dio Visnu in un altro poema:
«O stormi di buoni aironi che vivete nelle risaie, che importanza ha che ormai vociate? Sono andata a raggiungere il nostro Sovrano del cielo e mi sono unita a Lui, e il mio bel corpo ingioiellato a poco a poco ha perso il colore, mentre una magnifica, straripante felicità è giunta e fiorisce dapertutto!».
Altre volte il volto di Visnu è quello di un re o di un eroe:
«O eroe che hai mozzato con l'ascia mille braccia terrorizzando i re! Tu stai qui nel mio cuore, e d'ora in poi non ti permetterò di andartene».
Ma è l'amore a dominare: «Egli ha cancellato il pesante fardello dei miei antichi peccati, mi ha innamorato di sé e poi mi è entrato nel cuore». I misteri gaudiosi e gloriosi cantati litanicamente, cancellano quelli dolorosi del silenzio divino. Si ripete che «Egli si è fuso in me senza lasciare il minimo spazio vuoto». Una unione che è frutto di grazia:
«Di mia iniziativa, io non pensavo di porlo in me. Ma Lui, di sua propria iniziativa, è venuto e ha imbrigliato il mio cuore solitario, si è attaccato tenace alla mia carne, si è conglutinato con la mia vita: di tanto è stato capace!».
Ritroviamo negli alvar gli accenti mistici che si possono riscontrare anche in altri testi, europei e occidentali e provenienti dalla mistica umana di sempre.

Giava

Dal IX secolo ha inizio la letteratura giavanese, la lingua più antica della regione Maleso-Indonesiana. Fortemente influenzata dall'epos indiano (rifacimenti del Ramayana, del Mahabharata e di altri complessi leggendari indiani), la letteratura giavanese è rimasta nei secoli successivi aristocratica e cerimoniale. Fondamentale contributo alla cultura più vastamente indonesiana è stato il teatro (wayang), sia nella forma di teatro delle ombre, con marionette di cuoio piatte e colorate mosse dietro una fonte di luce dal dalang (burattinaio e dicitore) in spettacoli di soggetto epico, sia in forma di veri burattini. Sharazur è la pianura che si trova tra Sulaimania e Halabja, nel Kurdistan del sud [Irak]. Ahura Mazda è il Signore Saggio, il dio unico dello zoroastrismo.
Il VII-X secolo in europa

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