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Vittime, complici e incerti davanti alle mafie: intervista all’avvocata Licia D’Amico

"La mafia invisibile è la cosa più pericolosa di tutti, perché è quella che rischiamo di non vedere più. Se ci abituiamo all’idea che, per il commerciante, alla fin fine è più comodo pagare 300 euro di “pizzo” per vivere tranquillo, ecco, lì abbiamo la mafia invisibile"

di francoplat - mercoledì 22 ottobre 2025 - 471 letture

Al termine della fitta conversazione con l’avvocata D’Amico – professionista che opera a Roma e che, da decenni, si occupa della difesa, tra gli altri, di soggetti deboli quali le vittime delle mafie o le donne che hanno subito violenza di genere –, alcuni nodi del suo ragionamento sul tema delle mafie appaiono chiari e lucidamente argomentati. La intervisto nel pomeriggio del 22 settembre, in streaming, e l’avvocata, forte di un eloquio ricco e serrato proprio della sua professione, partecipa con vivacità alla chiacchierata, facendo convergere il suo ragionamento attorno ad alcuni punti forti.

In primo luogo, il tema della pervasività delle mafie, non solo quelle di più lontana origine, ma anche le nuove consorterie, quelle che non nascono dalla lupara e dalla coppola, ma che si insediano in territori quali il Lazio, ad esempio, realtà ben nota alla mia interlocutrice, dando vita a un controllo del territorio che richiama, per metodi e attività, quello delle mafie tradizionali. Violenza, intimidazione, droghe, estorsioni, un clima di terrore che inibisce le vittime: le consorterie del Basso Lazio forse non ricorrono ai riti di iniziazione, non hanno una patente di nobiltà storica accertata, ma sono mafie perché i suoi membri si comportano da mafiosi. Assioma che la Corte di Cassazione ha applicato, fra gli altri, al clan Fasciani di Ostia e che porta l’avvocata D’Amico a sottolineare il tema della proliferazione, ben al di là delle zone di insediamento originario delle mafie tradizionali, di nuove forme violente e feroci di consorterie criminali di stampo mafioso.

Una proliferazione che poggia su alcune criticità che l’avvocata non manca di sottolineare. Da un lato, ad esempio, la paura di denunciare, il timore di sottrarsi alla morsa stringente della violenza criminale, la latitanza delle vittime nei processi, nel corso dei quali non è raro sentire evocare il nome e il cognome di un teste, ma non vederne comparire la persona. Ma anche – e questo è un aspetto centrale – l’efficienza del servizio svolto dai gruppi mafiosi. Hai un problema? Qualcuno ruba nel tuo negozio e vuoi riavere indietro la refurtiva e garantirti un futuro sereno? Ci pensa mamma mafia, ci pensa il boss, in un caso di cronaca che la mia interlocutrice evoca durante l’intervista integrale allegata al presente articolo.

Sono dannatamente efficienti, i mafiosi. E fa gioco ai clan anche un altro aspetto. Una sorta di graduale disattenzione, di progressivo sfilacciamento dell’opinione pubblica dal tema mafioso. Si parla ancora di voto di scambio? Si parla dei grandi processi in corso, al di là del resoconto del verdetto finale? Se ne parla poco, ma la mia interlocutrice non crede che tale disaffezione e tale silenzio sia addebitabile solo al fatto che le mafie siano più silenti e che la cronaca ci pone davanti a notizie di maggior respiro e di più urgente preoccupazione. In questo lento distanziamento dai temi legati ai clan, c’è anche dell’altro. Non lo dice esplicitamente la mia interlocutrice, ma, in qualche modo, è rinvenibile nel suo ragionamento una possibile risposta. Durante un convegno di una decina di anni fa, l’avvocata disse che si correva il rischio che la mafia silente diventasse mafia invisibile. Le domando cosa intendesse con questa espressione: il timore che dalla mafia che sottovalutiamo perché non fa più delitti eccellenti o eclatanti si passi a non vedere più la mafia, perché la consideriamo parte integrante della nostra quotidianità. Il timore, cioè, che sia più comoda la scorciatoia del pagamento del “pizzo” che la presa di coscienza civica della denuncia o, magari, del pagamento di una rata assicurativa.

La società civile, in sostanza, ha una responsabilità diretta in tutto ciò, non può sottrarsi, in modo tartufesco, al proprio ruolo nella costruzione di un vivere civile alieno da violenze e privilegi, da sopraffazioni e convenienze. Ma esiste ancora un vantaggio di cui godono le cosche: una certa latitanza dello Stato. Si guardi, ad esempio, al controllo del territorio, alla necessità di ripristinare la presa dello Stato sulle realtà locali, a riaffermare una presenza non occasionale, non estemporanea nelle zone a maggior densità mafiosa. Certo, sul piano dell’efficienza, le istituzioni non possono garantire la stessa rapidità del servizio mafioso e la refurtiva non rientrerà nel negozio in capo a due ore. Ma è chiaro che la fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni cresce proporzionalmente alla capacità di queste di mostrare la loro presenza, la loro inequivocabile presenza.

Un tema emblematico per comprendere le perplessità, spesso ragionevoli, del cittadino davanti all’atteggiamento delle istituzioni è quello dei testimoni di giustizia. Non collaboratori, non “pentiti”, non ex criminali che entrano in un rapporto di do ut des con la giustizia, per ottenere dei vantaggi personali in cambio di uno sconto della pena. Ma cittadini che non si voltano dall’altra parte e che, una volta deciso di non farlo, rischiano di entrare in una condizione esistenziale problematica, drammatica, traumatica. Coltivare la fiducia del cittadino è compito delle istituzioni, ovviamente se il cittadino vive in maniera consapevole e informata la propria condizione di appartenente a una comunità, se conosce il piano dei diritti e dei doveri e sceglie, per conseguenza, da che parte stare.

Una parte della conversazione, poi, converge sul tema del processo per mafia, delle sue novità, dei cambiamenti rispetto a quello spartiacque che fu, ormai quarant’anni fa, il maxi processo di Palermo. Un processo che, ad esempio, vede come figura stabile e centrale la parte civile, spesso rappresentata dalle associazioni, capaci, dinanzi all’afonia delle vittime, di dare voce ai territori, di cucire la cittadinanza silenziosa alle istituzioni pubbliche; in questo caso, alla magistratura. Processo per mafia rispetto al quale l’avvocata D’Amico ribadisce la necessità di non perdere due punti fermi: le intercettazioni telefoniche e il ruolo dei collaboratori di giustizia. Strumenti e figure che, non di rado, sono soggetti a forme di ostilità e messa in discussione, che paiono far storcere il naso a qualcuno, forse a tanti, ma che, secondo la mia interlocutrice, restano elementi ineludibili dell’attività inquirente e d’indagine.

Dalle parole di Licia D’Amico emerge un grido d’allarme, un richiamo alla responsabilità di tutti, nessuno escluso, perché è facile immaginare che, nel mondo dell’efficienza e del profitto materiale, sia comodo e pericolosamente allettante scegliere l’una e l’altro pagandone un prezzo, ossia la limitazione della libertà personale e dei diritti individuali e collettivi. Soprattutto se ignari che quei diritti sono le pietre fondanti della nostra carta costituzionale.


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