Vita e pensiero di Hanna Arendt

Articoli di Simona Forti, Ida Dominijanni, Alessandro dal Lago, Toni Negri e Judith Revel,Bruno Accarino, Adriana Cavarero pubblicati sul numero de Il Manifesto del 14 ottobre 2006

di Pina La Villa - mercoledì 18 ottobre 2006 - 13567 letture

Per amore del mondo L’anomalia di Hannah di Simona Forti

Hannah Arendt, un’eredità fuori squadra nel centenario della nascita. Una biografia intellettuale che ha vissuto e restituito tutto il dramma del Novecento, dalla Repubblica di Weimar alla guerra del Vietnam, dal nazismo alla guerra fredda, dallo sterminio all’atomica, leggendo filosoficamente i fatti del presente. Nel corpo a corpo con la tradizione, la critica della politica, la teoria della rivoluzione, il primato della libertà: un lascito più normalizzato che raccolto nelle sue conseguenze dirompenti in tempi di crisi della democrazia. E le controverse tesi sul totalitarismo rilette alla luce della violenza globale di oggi Esiliata, ebrea non sionista, donna in un universo maschile, libertaria non liberale né liberista: le avventure di un pensiero della realtà capace di scompaginare costantemente confini disciplinari, ortodossie teoretiche e appartenenze politiche Simona Forti Hannah Arendt non amava le celebrazioni. Addirittura sosteneva che anche nelle occasioni più serie, come ad esempio nel bel mezzo di una cerimonia funebre, la retorica commemorativa poteva farla esplodere in un’irrefrenabile risata. In che modo, rispettando la sua sensibilità ironica, idiosincraticamente elegante, possiamo ricordarla, oggi, nel centenario della sua nascita? Forse rivisitando il suo pensiero in maniera per così dire laterale; percorrendo velocemente i momenti più significativi che hanno segnato la sua progressiva centralità nel dibattito politico e culturale. Se fino alla fine degli anni Sessanta era conosciuta soltanto come la discussa studiosa del totalitarismo o l’ideatrice della contestata formula della «banalità del male», Arendt si trova oggi a dover contrastare gli eccessi di una notorietà che l’ha portata al limite della banalizzazione. Nell’ultimo decennio, in particolare, il circuito mediatico in cui, purtroppo o per fortuna, è stata risucchiata anche la filosofia, è stato infatti inflazionato da immagini di Hannah Arendt forse troppo a buon mercato. Prima di considerare alcune delle conseguenze che forse sono derivate dagli eccessi di questa "pubblicità", vale la pena ricordare che l’autrice ha ricevuto la sua consacrazione a "classico" della riflessione filosofico-politica esattamente trent’anni fa. In un articolo apparso in tedesco nel 1976, e velocemente tradotto in inglese, francese, italiano e spagnolo, Jürgen Habermas individuava in The Human Condition - la grande opera arendtiana del 1958 - il testo fondatore del rilancio della filosofia pratica, in generale, e della "teoria dell’agire comunicativo" in particolare. Vita Activa aveva sistematicamente elaborato gli argomenti per riscattare la prassi, l’azione politica, dalla sua funzione strumentale e subordinata ad altri ambiti dell’agire umano. L’erede della scuola di Francoforte, tuttavia, scorgeva un forte limite nella filosofia politica della Arendt: un normativismo troppo rigido, nutrito dalla fede ingenua in una «intersoggettività inalterata» e da un anacronistico ritorno al pensiero greco della politica. L’«ipostatizzazione dell’immagine della polis», proiettata nell’essenza stessa della politica, e «la morsa di una teoria aristotelica dell’azione» farebbero pagare all’autrice il prezzo di una mancata comprensione dello stato e della società moderni. Per rendere utilizzabile la grande intuizione sulla dignità e l’autenticità della politica - auspicava Habermas - bisognerebbe in qualche modo "bonificare" il terreno arendtiano: espungerne gli elementi più estremi e irrazionalistici, anti-moderni e nostalgici, così da "urbanizzarlo" e renderlo compatibile con il cosiddetto progetto moderno, rivisto secondo i parametri di una razionalità critica post-kantiana. Nel contesto della filosofia tedesca di matrice post-kantiana-habermasiana, così come del resto nell’ambito della cultura statunitense segnata da presupposti neo-aristotelici, le valutazioni di Habermas si strutturano in un vero e proprio paradigma interpretativo, dal quale non sarà e non è tuttora facile liberare la comprensione della filosofia di Hannah Arendt. (Per i riferimenti precisi alla storia e ai protagonisti della sua recezione rimando, assai poco elegantemente, alla nuova edizione del mio Hannah Arendt tra filosofia e politica, Bruno Mondadori 2006). Nonostante la raffinatezza e la varietà delle interpretazioni, arricchite via via dalla pubblicazione di nuovo materiale, questa "prima ondata" del dibattito è abbastanza concorde nel ritenere la riflessione di Arendt un modello teorico che fa capo a un progetto normativo sostanzialmente anti-moderno, al quale aderire o dal quale prendere le distanze. Certo, all’autrice si attribuiscono tendenze politiche anche tra loro contrastanti: la si accusa di essere aristocratico-elitaria e al contempo populista rivoluzionaria; vi si scorge un atteggiamento conservatore, mentre la si dipinge come paladina della liberal-democrazia; le si attribuisce la riabilitazione del repubblicanesimo e allo stesso tempo la si accusa di anarchismo. Sempre comunque si segnala come limite costitutivo del suo pensiero il precludersi la comprensione "realistica" della differenza specifica tra antico e moderno. Il suo concetto di politica, in sostanza, pone requisiti troppo restrittivi per la realizzazione della propria autenticità. Ed eliminando ogni elemento strategico e strumentale dalla definizione di potere si dimostra inadeguato sia a pensare fino in fondo la natura del potere sia, di conseguenza, a delineare una concezione efficacemente alternativa al dominio. Certo, se si vuole vedere nell’autrice una teorica normativa, gli habermasiani e i comunitari hanno avuto ragione a segnalarne le forti ambiguità, le mancanze, le contraddizioni. Ma il punto è proprio questo. Che forse a tutti questi fautori di teorie normative, moderne o post-antiche, è "sfuggito" l’elemento strategico e insieme polemico della critica arendtiana alla politica: elemento implicito nel totale rifiuto di considerare costitutiva del concetto di prassi la relazione mezzi-fini, e nell’assoluta diffidenza nei confronti delle filosofie desiderose di fornire un modello regolativo della convivenza politica. Per cui il tentativo intrapreso tanto dai post-kantiani quanto dai post-aristotelici di "urbanizzazione della provincia arendtiana", si è rivelata una vera e propria operazione di normalizzazione. A partire dalla metà degli anni Ottanta (si pensi ad esempio in Italia soltanto ai lavori e alle edizioni di Boella, Dal Lago, Esposito, Flores, Galli, Portinaro e in Francia a quelli di Enegren, Collin, Taminiaux, Nancy e Lacoue-Labarthe) la "seconda ondata", per così dire, della recezione fa invece finalmente i conti, in maniera produttiva, con le aporie, le contraddizioni e le ambivalenze del pensiero di Hannah Arendt. Anzi, di queste fa un elemento di grandezza di quel pensiero; un pensiero che risolutamente si mantiene in quello spazio incollocabile, abitato dalle tante figure di pariah che visitano i suoi scritti. E se in questo ambito viene riconosciuto che la filosofia arendtiana muove dalla grande requisitoria novecentesca istruita nei confronti della cosiddetta metafisica e della dialettica - in particolare dalla decostruzione nietzscheana e heideggeriana - si prende tuttavia atto che mai può essere ricondotta ad un’unica scuola di pensiero. La fenomenologia e la filosofia dell’esistenza rimangano sì i punti di riferimento filosofici cruciali, ma interagiscono con una lealtà agli avvenimenti del mondo che scompagina i confini disciplinari e le traiettorie delle ortodossie teoretiche. E diventa quasi fuorviante una precisa definizione dell’appartenenza politica dell’autrice. Credo che oggi si possa dare per acquisito che qualsiasi analisi dell’opera arendtiana che non tenga conto della sua duplice origine - gli eventi storici e tragici vissuti anche in prima persona dall’autrice e l’orizzonte aperto dalla filosofia heideggeriana - non possa che risultare riduttiva. Tuttavia, insieme a raffinatissime letture che continuano a complicarne i nodi problematici, assistiamo anche ad una "ri-normalizzazione" della filosofia di Hannah Arendt; alla diffusione di una sorta di senso comune, assai radicato, che ritiene, in fondo, che il suo pensiero sia riducibile ad un paio di formule, buone in molte occasioni, sull’autenticità e la relazionalità di una vita politica egualitaria e democratica, sulla ricerca di un’ intesa intersoggettiva che salvaguardi e riconosca le differenze. A fronte di questa doxa quasi "buonista", credo che la Arendt vada di nuovo presa sul serio. Credo cioè che sia importante ricollocare la sua indiscutibile e così spesso menzionata "anomalia" - di esiliata, di ebrea non sionista, di donna che pensa in un cosmo intellettuale totalmente maschile, di filosofa che vuole lasciarsi alle spalle la metafisica, di libertaria che non sposa mai il liberalismo, di critica del marxismo che attacca gli ex-comunisti pentiti e accusa di tendenze totalitarie gli Stati uniti del maccartismo e della guerra del Vietnam - nella profondità teorica e nel rigore concettuale che le ineriscono. Credo insomma vada ancora con forza ribadito come la sua ridefinizione del concetto di potere - fatta spesso passare, appunto, come propedeutica ad una politica consensuale e conciliatoria - sia in realtà "agonistica" e per molti aspetti "tragica", in quanto aporetica. E proprio perché legata a filo doppio con una critica di quella tradizione filosofica che ha denegato il reale e le sue dissonanze sotto i congegni teorici della reductio ad unum, tanto metafisica quanto politica. Penso sia inoltre importante ricordare che per la Arendt decostruire la tradizione filosofica e politica non equivale tanto ad indagare criticamente una concatenazione storica di idee e dottrine, legate, le une alle altre, dal comune oblio del significato autentico dell’essere. Significa anche e soprattutto assumere queste come segni estremi, ma quotidiani e normali ad un tempo, di quel rapporto che in occidente si è venuto a istaurare tra individuo e mondo, tra costruzione del Sé e percezione dell’altro da sé. In altre parole, la mente del "filosofo di professione" non soltanto non è una modalità d’accesso privilegiata alla comprensione dell’essere, ma non è nemmeno un’attitudine isolata. E’ piuttosto, in una forma sui generis, l’emblema di un atteggiamento denegante tipico e frequente della soggettività moderna. Un approccio, questo, per molti versi analogo a quello di buona parte della riflessione filosofica "continentale" della seconda metà del XX secolo, e che avvicina Hannah Arendt più a pensatori come Foucault o Derrida che a teorici come Habermas. Forse è da qui che si deve ripartire per intendere la ricchezza, ma anche le difficoltà, della politica arendtiana. Così come è da qui che si deve procedere per pensare insieme a Arendt ma andando oltre Arendt, per cogliere le sfide che oggi il mondo, in parte diverso dal suo, ci sta ponendo. Solo così, sono convinta, possiamo "onorare" la sua eredità e celebrare la sua grandezza di pensatrice, che mai ci chiederebbe di continuare ad essere esegeti della sua lettera, né di cercare di tradurre in pratica quotidiana i suoi pensieri. Anche perché al cuore della sua riflessione sta il senso di una realtà che costantemente supera e scompagina i progetti che la teoria ha su di essa.

Vedere l’evento, pensare la nascita Genealogie Aprire gli occhi sul presente, aprire il presente all’imprevisto. Le buone ragioni di un anniversario fra il passato che non passa e l’oggi che avviene Ida Dominijanni

Per quanto convenzionale sia celebrare gli anniversari, per nessuno il centenario della nascita avrebbe lo stesso senso che acquista nel caso di Hannah Arendt: data la centralità che la categoria della nascita ha nel suo pensiero, singolare eccezione a quell’ossessione della morte propria di tutta la main tradition filosofica e politica con la quale lei non smise per un minuto di dialogare e questionare; e data la coincidenza anch’essa singolare del centenario in questione con l’arco di tempo in cui si dispiega tutt’intera quella crisi della politica e dello stato moderni a cui lei non smise per un momento di cercare risposte e alternative. Questi due dati sono tutt’altro che slegati fra loro: come scrive Julia Kristeva nel volume ad Arendt dedicato della sua trilogia sul genio femminile, «all’ombra della Shoah è significativo che sia una donna, una donna ebrea, ad aver preso l’iniziativa di riaprire il problema della nascita dando un senso nuovo alla libertà di essere. Questo è lo scandalo più grande del suo genio, che arriva al cuore della crisi della cultura moderna, là dove si gioca il suo destino di vita o di morte». Inizio casuale della vita che sempre si rinnova nella vicenda individuale e nella storia collettiva, la nascita è insieme l’evento che ci mette (e ci rimette) al mondo liberi di agire e l’azione che libera la politica dall’ordine mortifero e dalla violenza annichilente in cui essa non smette di cacciarsi e di cacciarci 70 anni dopo l’esperienza estrema del totalitarismo e dello sterminio. Ma è anche lo sguardo che sempre ci consente di vedere ciò che dentro, a lato o nonostante quell’ordine e quella violenza viene al mondo, accade, scombina i giochi costituiti, apre all’imprevisto. E forse è vero che sta proprio qui lo «scandalo» più grande di Hannah Arendt, il nocciolo inaddomesticabile e irriducibile alle successive ondate di recezione, attribuzione, normalizzazione del suo pensiero, di cui qui accanto parla Simona Forti. Così come è vero che sta qui la ragione più radicale della sua rilettura da parte di molto pensiero femminista internazionale: non una santificazione rituale né un’appropriazione indebita e acritica, come qualcuno sospetta anche su queste pagine, ma un incontro illuminante lungo quel filo rosso di eccedenza femminile dalla politica tradizionale che attraversa il Novecento, disponendo in genealogia alcune pensatrici pre-(e perfino anti-) femministe e il femminismo che della critica della politica ha fatto il suo centro dagli anni Settanta in poi. Di questo, come di altre interpretazioni più o meno convinte dell’eredità di Hannah Arendt e più o meno rivolte a farla sporgere, oltre il suo e nostro passato che non passa novecentesco, sul nostro presente globale, trovate in queste pagine ampi assaggi. Ma poiché questo è un giornale, e con il giornalismo Hannah Arendt - che non si voleva filosofa ma «pensatrice politica», e che di tutto del ’900 fu testimone e interprete, da Weimar a Kennedy, dai campi di concentramento alla guerra in Vietnam, da Eichmann agli image-maker dell’amministrazione americana - molto ebbe a che fare nel suo lavoro di interpretazione del presente, è opportuno ricordare di lei anche come si atteggiava e ci chiedeva di atteggiarci di fronte agli eventi, e alla «difficoltà di comprendere», secondo il titolo di un suo saggio degli anni 50 , il loro accadere. Difficoltà inevitabile, perché si dà davvero evento solo quando ci sentiamo spiazzati dalle nostre categorie e dai nostri pre-giudizi; e mentre siamo pronti a trovare nomi nuovi per quello che accade, per rassicurarci siamo ancora più pronti a ricondurli automaticamente a significati vecchi, così come siamo portati a ricondurre l’evento alle sue cause, come se la storia fosse una concatenazione prevedibile di cause ed effetti, una «piatta monotonia dell’identico». Laddove invece «l’evento illumina il proprio passato, ma non può mai esserne dedotto» , rivelando «un panorama inatteso di azioni, sofferenze e nuove possibilità umane che trascendono la somma di tutte le intenzioni deliberate»; e per quanto ci sforziamo di pre-vedere e prepararci, né le paurené le speranze ci preparano davvero al cambiamento che ogni accadere mette in moto. Ancora l’evento, ancora la nascita. Di Hannah Arendt questo certo ancora fa luce, per aprire gli occhi sul presente e per aprire il presente all’imprevisto.

Il rischio al cuore della politica Il secolo incompiuto Il Novecento come compimento del Moderno. Il politico o la polis, la decisione sovrana o l’azione nativa per uscire dalla crisi? Hannah Arendt e Carl Schmitt, confronto a distanza fra due opposte terapie della spoliticizzazione Carlo Galli Scarsi o nulli sono i contatti personali o scientifici fra Carl Schmitt e Hannah Arendt, sia quanto a biografie - il Kronjurist del nazismo e l’ebrea tedesca, emigrata dal 1933, non erano fatti per incontrarsi - sia quanto a Bildung: il cattolico formatosi sui controrivoluzionari non poteva avere molto da dire, almeno direttamente, alla brillante allieva di Heidegger. Le proposte culturali (un po’ banalizzate) per le quali vanno famosi - il decisionismo e il concetto del "politico", da una parte, il cosiddetto "ritorno alla polis", dall’altra - si situano poi agli antipodi quanto a opzioni politiche. Ma se i percorsi di pensiero e le posizioni pratiche divergono, o corrono parallele, ignare le une delle altre, c’è un’aria di famiglia nell’insieme delle due prestazioni intellettuali; se i loro apparati analitici sono indipendenti, Schmitt e Arendt hanno nondimeno in comune la consapevolezza di dovere attraversare un secolo, il XX, caratterizzato sia da un eccesso sia da un difetto di politica, e di dovere fare i conti, per comprenderlo, con l’intero apparato categoriale dell’età moderna. Avvicinati da un analogo radicalismo genealogico, e da una acuta percezione che le vicende tragiche e grandiose del Novecento sono, della modernità, a un tempo l’esito e il superamento, un "nuovo" che esige di essere compreso e criticato solo attraverso il periplo nella tradizione, Schmitt e Arendt prendono atto della crisi irreversibile del liberalismo e del pensiero dialettico, dello Stato e della rivoluzione, dell’individuo e della classe, come dei due fratelli nemici che, certo, si sono contesi il dominio della scena politica mondiale, ma che hanno però anche condiviso, della politica, la medesima interpretazione neutralizzante. Il liberalismo nel formalismo dello Stato di diritto, il marxismo nel compiacimento del socialismo realizzato, hanno ridotto la politica - che è questione di potere e di conflitto - a amministrazione, tecnica, operare ordinativo: liberalismo e marxismo sarebbero accomunati da un medesimo fatale errore, cioè dal non dare spazio alla dimensione autonoma della politica, che Schmitt e Arendt considerano invece come ambito di esistenza caratterizzato da originarietà, spontaneità, indeducibilità, e che vogliono emancipare dall’idea che sia strumento e mezzo per il fine dell’affermazione della vita e dei diritti dell’individuo. E’ l’aver fatto coincidere la politica con la ragione umana e con la sua capacità di costruire un ordine stabile e da tutti condiviso - quella sorta di impresa di sicurezza che appunto è lo Stato - che rende Hobbes per entrambi, sia pure diversamente, l’autore eponimo della modernità. E’ il rifiuto della originarietà della politica che fa sì che l’impresa rivoluzionaria marxista, pur rivolta contro lo Stato, paia loro condividere, spostandolo in avanti, l’intento spoliticizzante del proprio avversario borghese. E’ l’impoliticità di fondo del Moderno che ha lasciato spazio alla degenerazione della politica nella violenza estrema che nel XX secolo ha occupato e sfondato la scena pubblica. Il rovesciarsi del preteso primato del soggetto moderno nel trionfo dell’oggetto (e dell’oggettività) - colto con strumenti e prospettive assai diverse da Schmitt nel 1923 nel libro sul Cattolicesimo romano e da Arendt nel 1958 in Vita activa - significa quindi che il Novecento può certo conoscere infinita violenza, cioè può vedere macchine politiche in lotta fra di loro per il dominio della terra, tecnostrutture che distruggono l’uomo per rifarlo sulla base di questa o quella ideologia, ma rivela la mancanza di autentica energia politica nel Moderno, la sua deriva impolitica che si manifesta proprio nelle sue manifestazioni politicamente estreme. Naturalmente, oltre questa affinità nell’intento riabilitativo della politica, della sua natura non tecnica, non ideologica ma esistenziale, scattano le differenze, sostanziali, fra i due. Per Schmitt l’impoliticità di fondo del mondo moderno è superabile con la riproposizione di una nuova teologia politica, di una vitale forma politica unitaria, che può nascere solo grazie alla riattivazione dei conflitti e che prende l’aspetto o di un atto di sovranità - il decisionismo -, o della potenza polemica del popolo e del suo potere costituente, o ancora di una leadership carismatica in grado di guidare una nazione a una rinnovata esistenza autenticamente politica. Per lui, insomma, il conflitto va nuovamente acceso, e non neutralizzato, in vista della realizzazione di una totalità politica che si colloca oltre lo Stato liberale e le sue esangui finzioni, e oltre le distruttive violenze che dall’impotenza del liberalismo nascono; un "intero", un "concreto", la cui energia sta appunto nel fatto che la sua capacità di inclusione funziona attraverso la continua esclusione di un nemico. E’ la forza politica così concepita come "Stato totale" a porsi come alternativa, e perfino come freno, rispetto all’inerzia liberale e alla violenza ordinativa della tecnica. Per Arendt, invece, il totalitarismo non fa per nulla parte della soluzione della crisi politica moderna, ma è precisamente il problema politico moderno nella sua forma parossistica. Come capì nel suo grande libro del 1951, Le origini del totalitarismo - la "novità" totalitaria, indubbia, trae origine dalla pretesa, tipica del razionalismo politico moderno, che la politica non sia un libero e nativo "agire in comune", da nulla garantito, ma la ordinata realizzazione di un progetto, di un piano, di un’Idea. Anche se ne è politicamente l’opposto, il sistema totalitario è uno degli esiti possibili dello Stato moderno; il nichilismo ideologico che si manifesta nei Lager è stato reso possibile dalla moderna trasformazione della politica in agire razionale rivolto allo scopo. Il lavoro teorico arendtiano è complessivamente una decostruzione della teologia politica moderna, dell’idea che la politica sia rappresentazione di un’Idea unitaria di ordine, che il potere stia solo nella dimensione verticale del comando sovrano, e al contempo è l’indicazione che essa trova nella polis, nel modello repubblicano romano, e nella rivoluzione americana (non in quella francese, schiacciata sulla statualità e sulla questione sociale) i propri momenti alti (ma sono più simboli che referenti storiograficamente attendibili), e nella disobbedienza civile la pratica più adeguata nelle condizioni del mondo d’oggi. Sono molto diversi, quindi, i modi - la politica come azione libera oppure come azione sovrana, il recupero del non-moderno o l’estremizzazione del Moderno - in cui Arendt e Schmitt intendono andare oltre le debolezze del soggetto e dello Stato, i due lati della mediazione moderna contro la quale giocano la piena assunzione della contingenza (il "politico" per l’uno, l’agire nativo e non garantito per l’altra): disincagliare la politica dall’abbraccio dell’ideologia e dal suo risvolto oggettivo, la tecnica (e in subordine anche dall’economia), e riscoprire, nel cuore dell’ordine, un conflitto non mediabile, una dimensione di rischio che è la vera essenza della politica. E che è anche la sua grandezza. Eppure, pur in questa differenza, entrambi avanzano un’immagine, o un’immaginazione, della politica che non la mette al riparo dall’ineffettualità: oggi, da tempo tramontata nella globalizzazione quella tarda modernità in cui il loro pensiero si appaesa, è dato esperire più la violenza dequalificata che la logica amico/nemico, e più la rabbia impotente e velleitaria che l’azione collettiva politicamente forte e costante. Così, piuttosto che essere spendibili, magari uno in concorrenza con l’altro, entrambi quei potenti paradigmi analitici pongono la questione del loro significato per la decifrazione delle forme della politica nell’età globale. La questione di che cosa sia oggi la politica, e di dove stia la sua serietà.

Un testamento fuori canone e le sue eredi. Hannah e le sorelle Nascita, azione, relazione, autorità, «chi». Il lessico della politica arendtiana nella teoria e nelle pratiche del femminismo della differenza, destinazione ribaltata di una donna che non si voleva femminista Diana Sartori

Non sono la prima a dichiarare insieme alla soddisfazione per il riconoscimento che Arendt ha avuto in questi anni anche un certo sconcerto per quella che ha le dimensioni quasi di una beatificazione. Tanto più che ben ricordo tempi non poi così lontani, quando il dire di lei che era una outsider della filosofia e della teoria politica era inteso in senso letterale e senza la compiaciuta benevolenza che usa ora. Le cose sono cambiate, non sto a indagare perché, e lo prendo come un buon segno, quantomeno per il fatto che per la filosofia e la teoria politica nelle quali era davvero una outsider è diventato impossibile ignorarla e più difficile liquidarla con quella qualifica. Ci sono volute montagne di pagine, spesso pazientemente accumulate da donne, e lo sfilacciarsi inesorabile del filo di una tradizione che già lei denunciava spezzato, ma è successo che Arendt sembra essere entrata a far parte del canone. Se dapprima era forse solo per il non poter fare a meno delle sue analisi del totalitarismo o della «banalità del male», poi sono diventate indispensabili la rottura con la tradizione, l’analisi dell’agire, la narrazione, il giudizio, la pluralità, il pensare in termini di condizione umana... e la riflessione sulla politica. Appunto, la politica. È pensando a questo che il mio sentimento di sconcerto per la canonizzazione di Arendt tende a virare in diffidenza: sì, non si può negare che la sfida portata dalla concezione arendtiana di politica sia stata registrata dal canone del pensiero filosofico sulla politica, colta nella sua natura di radicalità, analizzata, criticata, combattuta, rifiutata, trasformata e neutralizzata, ripresa e moderata o persino rilanciata. Tuttavia un dubbio mi resta, che si tratti della registrazione di un testamento troppo esplicito e consistente perché lo si possa ignorare, ma di cui pare non potersi accogliere l’eredità. Se forse Hannah Arendt non ha fatto altro che tornare sul problema dell’eredità senza testamento di quella politica cui solo avrebbe riconosciuto di avere questo nome, qui parrebbe quasi essere di fronte ad un testamento senza eredità. Quasi, dico, pensando al dibattito filosofico-politico mainstream e alla concezione dominante di politica, per i quali quell’eredità sembra -probabilmente è - inassumibile, se non a parole. Quasi, perché c’è almeno un discendente che ha ad alta voce rivendicato la titolarità di quell’eredità, e lo ha fatto non solo a parole, ma nella sua azione politica, ed è il femminismo. Arendt, sconfortata dalla monotonia e pochezza della tradizione, diceva che forse per capire qualcosa della politica conveniva chiedere agli uomini d’azione; e di sicuro non immaginava che avrebbe fatto meglio a rivolgersi all’agire delle donne. Il suo rapporto con il femminismo, si sa, fu problematico. E’ noto come rifiutasse di definirsi femminista dicendo di odiare gli "ismi": «essere una "ista" significa far parte di un gruppo, di una folla, di un pacco». Un duro giudizio su quella che parlando di Rosa Luxemburg definiva «l’eguaglianza delle suffragette»: al movimento di emancipazione imputava un difetto di reale politicità, restando esso sul piano di rivendicazioni sociali e economiche. E’ un giudizio che oggi sottoscrive di cuore il femminismo della differenza sviluppatosi negli anni ’70, e si può forse immaginare che sia guardando a quegli sviluppi che, come testimonia Virginia Held, Arendt dicesse di aver mutato parere negli ultimi anni della sua vita. Resta però che la condizione di esser nata femmina nel giorno che oggi ricordiamo non venne assunta da Hannah Arendt al centro della sua riflessione sulla condizione umana. Sebbene dopo la natalità sia la pluralità esemplificata dalla creazione di Adamo ed Eva ad essere nominata in Vita activa come la seconda marca della condizione umana, Arendt non assunse mai la differenza sessuale come prima pluralità. Né interrogò mai le implicazioni politiche della reclusione femminile, storica e simbolica, in quella sfera "impolitica" dell"oikos che confermò tale nel suo insistere sulla distinzione tra pubblico e privato. E’ qui l’ostacolo che ha fatto più problema nella ricezione femminista di Arendt: se c’è stato un punto di accordo costante nel pensiero e nell’azione politica delle donne, è stato proprio il superamento della dicotomia tra la dimensione personale e privata e quella pubblica e politica. Da ciò le ripetute accuse a Arendt di aver disegnato una visione interna ad una concezione e a una pratica tutte maschili della politica, addirittura una visione "machista", fino a parlare per lei di autentico "anti-femminismo". Non c’è da stupirsi, quindi, che le parti del pensiero arendtiano che hanno goduto della prima rivalutazione femminile siano state quelle più "filosofiche" (penso soprattutto alla natalità e alla costituzione relazionale e narrativa della soggettività) o quelle che contribuivano a sciogliere alcuni annosi nodi del dibattito femminista, come l’approccio in termini di "condizione" piuttosto che di "natura" umana che taglia alla radice il nodo del cosiddetto essenzialismo. Decisamente più controverse le vicende della ripresa di altri punti, più apertamente politici, del pensiero di Arendt: se le sue critiche alla dimensione politica come rappresentazione del che cosa piuttosto che del chi hanno incontrato ampio consenso, le conseguenze anti-identitarie che se ne ricavavano sono andate a ricadere su un terreno di vivo confitto nella politica delle donne. Come pure è avvenuto per quanto riguarda il ruolo che in quest’ultima è da assegnarsi alle questioni sociali ed economiche tradizionale terreno dell’emancipazionismo di contro al femminismo che ha affermato la priorità della libertà femminile come cuore dell’agire politico. Lo stesso si può dire per la concezione del potere come agire di concerto, che da un lato ha avuto interpretazioni femministe in chiave di etica della comunicazione che ne hanno edulcorato la radicalità politica, dall’altra è stato sviluppato nel senso di una pratica femminista performativa e agonistica. Insomma anche tra le donne la questione dell’eredità arendtiana diventa tanto più conflittuale quanto più si avvicina al terreno della visione del potere e delle pratiche politiche. Su questo terreno si è visto che gli aspiranti eredi tendono a dileguarsi, e le eredi tendono a dividersi. Il che conferma due punti tra loro interconnessi: che il "tesoro perduto" dell’agire politico arendtiano tanto duro da ereditare nella politica è il senso stesso su cui si gioca la politica, e che la contesa sul senso politico del femminismo sta nel cuore del conflitto sul senso della politica stessa. Ciò che costantemente Arendt ha cercato è stato quel tesoro, quello che la politica ha perso consegnandosi alla logica della strumentalità e del governo, a un’idea del "fare" che inesorabilmente è finito nel realismo di chi sottoscrive l’antico proverbio che «bisogna rompere le uova se si vuole fare la frittata», dimenticando, come diceva, le ragioni delle uova. Cercò i momenti quando «le uova alzano la voce» e li riconobbe emergere e poi sparire, nelle rivoluzioni, nelle esperienze consiliari, nei momenti di felicità politica che avevano saputo rinnovare in nome della libertà il senso dell’umano agire politicamente. Ne riconobbe la fragilità e l’intermittenza, ne vide il cedere di fronte al senso accreditato della politica e alla sua forza, ma mai cedette all’idea che quella, e non l’altra fosse davvero la politica. Canonizzata o meno, questo resta il problema del suo testamento ma soprattutto il conflitto sulla sua eredità nella politica. Un conflitto che in buona sostanza ripropone la questione dell’assumibilità di quella eredità nei termini della stessa esistenza della politica come Arendt la ha intesa. Non esiste, è irrealistica, non può esistere e comunque non può durare, ribadisce il coro del vecchio e del nuovo realismo politico. Ma, molto realisticamente, quella politica è reale, esiste, torna e permane. La politica dell’agire di concerto che non vira in ricerca del dominio e non esercita la forza, che non vuole rappresentare interessi o identità, la politica del riconoscimento non di cosa ma di chi si è, la politica che non rivendica potere o diritti ma riconosce autorità, che vive dell’esercizio della libertà e del suo puntuale rinnovarsi, che ordina e orienta ma non costituisce gerarchie di dominio o strutture di appartenenza, la politica che si regola sulla contestualità delle situazioni e non regolamenta i contesti in cui può darsi, che sta alla necessità di una pluralità che domanda la relazione, la politica che si alimenta dello scambio simbolico e scommette sul senso dell’agire comune del mondo, che non sfugge dalla condizione umana immaginando un’onnipotente presa sulla realtà, che non teme la rischiosità e la fragilità dell’agire e nemmeno la sua impermanenza, questa politica esiste, è reale. Forse è sempre apparsa e ricomparsa, come dice Arendt, come una fata Morgana, come un fantasma di libertà ricorrente che si è dubitato persino fosse reale, come una sorta di miracolo. Ma certo è apparsa ed è venuta al mondo ed è viva, miracolosamente chissà, come quella "politica che non aveva nome di politica" che hanno fatto le donne con il femminismo. Buon compleanno.

Non sono la prima a dichiarare insieme alla soddisfazione per il riconoscimento che Arendt ha avuto in questi anni anche un certo sconcerto per quella che ha le dimensioni quasi di una beatificazione. Tanto più che ben ricordo tempi non poi così lontani, quando il dire di lei che era una outsider della filosofia e della teoria politica era inteso in senso letterale e senza la compiaciuta benevolenza che usa ora. Le cose sono cambiate, non sto a indagare perché, e lo prendo come un buon segno, quantomeno per il fatto che per la filosofia e la teoria politica nelle quali era davvero una outsider è diventato impossibile ignorarla e più difficile liquidarla con quella qualifica. Ci sono volute montagne di pagine, spesso pazientemente accumulate da donne, e lo sfilacciarsi inesorabile del filo di una tradizione che già lei denunciava spezzato, ma è successo che Arendt sembra essere entrata a far parte del canone. Se dapprima era forse solo per il non poter fare a meno delle sue analisi del totalitarismo o della «banalità del male», poi sono diventate indispensabili la rottura con la tradizione, l’analisi dell’agire, la narrazione, il giudizio, la pluralità, il pensare in termini di condizione umana... e la riflessione sulla politica.

Il punto di vista della vittima inerme Dalle strategie del terrore all’orrore senza scopo: quando la singolarità è annientata nella violenza sulla «specie animale uomo». Rileggere Arendt per dare nome ai massacri «casuali» sulla scena del mondo globale Adriana Cavarero Uno dei motivi per rileggere Hannah Arendt oggi sta nella necessità di dare nomi adeguati alla violenza contemporanea senza forzarla nella gabbia inefficace di vecchi concetti. E’ orami accertato che la categoria di "guerra" spiega ben poco, e altrettanto si può dire per il termine "terrorismo" e per l’esperienza del terrore che dovrebbe giustificarne l’etimologia. Sulle varie scene, più o meno militarizzate, che vedono il massacro di civili inermi, l’orrore soppianta infatti di gran lunga il terrore. Ne Le origini del totalitarismo e, ancor di più, nel paragrafo dedicato ai lager, pur ricorrendo molto spesso al termine orrore, Arendt non ne fornisce una precisa definizione. Sviluppa però un’analisi complessa che, passando per la categoria di terrore totale, va a individuare il punto di divaricazione, ma anche la perversa parentela, fra terrore e orrore. Il terrore - scrive - «in quanto mezzo per intimidire gli individui e indurli così alla sottomissione, può apparire in forme straordinariamente variegate e può presentarsi in un gran numero di sistemi politici e partitici che il tempo ci ha reso familiari». Detto altrimenti, il terrore è un noto strumento politico usato a scopo intimidatorio. Ciò non toglie, come Arendt tiene a sottolineare, che esso si articoli storicamente in forme diverse, e che la scienza politica debba saper distinguere i vari «regimi terroristici» che le riguardano, siano questi impersonati da poteri istituzionali, da movimenti rivoluzionari oppure da piccoli gruppi di cospiratori. Tale esercizio di distinzione rimanda comunque sempre ad una certa concezione del terrore che lo descrive come una strategia politica con scopi precisi, finalizzata, in vario modo o per gradi più o meno intensi di violenza, a diffondere la paura e a gestirne gli effetti. Il terrore politico appartiene, insomma, alla logica dei mezzi rispetto ai fini. E’ esecrabile, ma non incomprensibile. Proprio questa logica, tuttavia, è nella violenza totalitaria straordinariamente assente. Ciò risulta tanto più evidente, argomenta Arendt, quando si consideri che anche i regimi totalitari, prima di diventare tali, ossia al loro inizio, impiegano il terrore, non diversamente da altri regimi, «per sbaragliare gli avversari e rendere impossibile ogni opposizione». Il vero terrore totalitario incomincia infatti quando non c’è più nessuna opposizione da distruggere o intimidire, ossia quando viene superato questo primo stadio di ordinaria violenza. Tipico del totalitarismo è il ricorso a un «terrore che ha perso il suo scopo e non è più lo strumento per incutere paura alla gente». Arendt lo chiama terrore totale, nuova categoria del suo già anomalo lessico politico, volto a indicare il paradosso di un terrore che non è più strategico perché è uscito dalla logica dei mezzi e dei fini. Si tratta di un terrore non più utile, anzi, al limite, inutile, controproducente. E, in questo senso, dal punto di vista della storia stessa del terrore, inspiegabile. Per comprendere l’assurdità del terrore totale, Arendt rivolge così la sua attenzione a forme di violenza che vanno sintomaticamente ad evocare la sfera dell’orrore. Vengono innanzitutto elencati i casi storici che mettono in atto il principio secondo il quale «tutto è permesso». Oltre alle guerre di aggressione, l’elenco nomina il «massacro delle popolazioni nemiche» e lo «sterminio dei popoli indigeni» perpetrato dai colonizzatori delle Americhe, dell’Australia e dell’Africa. L’approdo alla categoria di orrore estremo ha però ancora bisogno di un passo ulteriore: quello che supera il principio per cui «tutto è permesso», abbracciando e mettendo in atto l’inaudito principio per cui «tutto è possibile». Che fosse possibile manipolare la natura umana, riducendo gli uomini ad esseri assolutamente superflui, solo il laboratorio infernale del lager l’ha pensato e portato a realizzazione. Ed è precisamente in questo inferno che il terrore totale, ossia il terrore che ha «perso il suo scopo» e non è più strumento per incutere paura alle gente, va finalmente a coincidere con la forma estrema dell’orrore. La vita nei campi di sterminio è tale che «il suo orrore non può mai essere interamente percepito dall’immaginazione, perché rimane al di fuori della vita e della morte». Esso consiste nella perversione di un vivere e di un morire che, nel lager, afferiscono ormai a un vivente inteso come «esemplare della specie animale uomo» nel quale è stata annientata l’unicità. Si tratta di un attacco alla materia ontologica che, trasformando esseri unici in una massa di esseri superflui «il cui omicidio è impersonale quanto lo schiacciamento di una zanzara», toglie ad essi anche la loro propria morte. A differenza del terrore, che è sempre terrore della morte, l’orrore riguarda insomma una singolarità resa superflua da una violenza che la uccide come vittima spersonalizzata e casuale. E qui sta, appunto, il lato per noi drammaticamente interessante della questione. Esiste un curiosa espressione nella lingua inglese che indica le vittime, dovute a morte violenta, come casualities. Il termine si applica in diversi contesti: uragani, inondazioni, crolli di edifici, guerre, attentati e altri ancora. Come attesta il suo uso in riferimento a disastri naturali, esso tende a suggerire che non si tratta di una violenza finalizzata ad uccidere un preciso individuo, bensì di una violenza senza obiettivi specifici le cui vittime risultano, appunto, casuali. Sotto un uragano, qualcuno muore, qualcuno si salva, a caso, per fortuna o sfortuna, non per via della sua identità singolare e, tanto meno, per le sue responsabilità e le sue colpe. Vittime del caso sono anche i soldati caduti in guerra, ma l’hanno, per così dire, messo nel conto. Per le vittime civili della guerra - la cui percentuale supera ormai il novanta per cento - tale conto è invece meno ovvio e il caso si fa perciò ancor più tragico. Né vale la pena segnalare che la predilezione per il massacro degli inermi spetta, oggi, alla cosiddetta galassia jihadista. Rileggendo le pagine arendtiane sull’orrore, potremmo così notare che è soprattutto la scena globale della violenza odierna a far sì che il termine casualities vada a corrispondere alla realtà delle vittime inermi assumendo un significato particolarmente pregnante e, per così dire, etimologicamente esatto. Più che la loro morte, casuale è infatti ciò sostanzia il loro stesso statuto di vittime. Colpite proprio perché casuali, esse non valgono se non per questa casualità che le rende interscambiabili ed esemplari. Pur che, appunto, si decida di rinominare il lessico della violenza posizionandosi dalla prospettiva dei massacrati invece che da quella dei massacratori. E’ ciò che ha fatto Hannah Arendt cercando di comprendere, senza giustificare, la realtà del suo presente. Per spiegare la violenza dell’epoca odierna alcuni, oggi, cercano di riadattare al nostro presente la categoria di "totalitarismo". L’operazione non solo è indebita ma rischia di nascondere un’eredità arendtiana più preziosa. Quel che lei ci ha insegnato è una rivoluzione prospettica che soppianta il punto di vista del guerriero sostituendolo con quello della vittima inerme.

Le due sponde della rivoluzione Una biografia intellettuale svolta tra Europa e Stati uniti. Condizione umana, questione sociale e costruzione costituzionale oltre la tradizione del vecchio continente Bruno Accarino

Quando tradusse alcuni dei suoi stessi scritti in tedesco, Hannah combinò anche qualche pasticcio, al punto che l’edizione più affidabile di Vita activa è ancora oggi quella inglese e non quella tedesca, che qua e là è abbastanza diversa e non ha sollecitato, a mio sapere, un confronto di testi. L’estrazione heideggeriana di Arendt avrebbe suggerito di attestarsi su un antiamericanismo di maniera, ma già l’incontro con la lingua fu senza attriti. La ragione non attiene, se si pensa ai protagonisti dell’emigrazione tedesca antinazista, ad un innato temperamento ebraico cosmopolitico o diasporico, giacché non mancò qualche ebreo, per tutti Ernst Bloch, che in segno di protesta contro un universo linguistico coatto e non liberamente scelto si abbarbicò alla madrelingua sino al punto di rifiutarsi quasi di imparare anche solo per ordinare un caffé in inglese. In realtà, a parte una non comune predisposizione all’apprendimento delle lingue (spettacolare fu, per tutta la vita, la padronanza del greco e del latino, che diede filo da torcere alle curatrici dei Diari postumi), l’integrazione nell’orizzonte di pensiero americano coincise con la necessità di fare un bilancio di quello europeo. Benché molto lontana da una sensibilità francofortese, Hannah aveva pur messo le mani, percorrendo strade tutte sue, sulla diabolica catena che connette l’illuminismo al totalitarismo. Per carità, niente dialettica dell’illuminismo, ma certo il sospetto, e qualcosa di più, che nelle propaggini politiche dei lumi fossero stati incubati gli orrori del ventesimo secolo. A quel punto bisognava esplorare un territorio che, nonostante la ricorrente zavorra del legame con la madrepatria tedesca, avesse potuto e saputo sfruttare le distanze oceaniche per darsi un’identità propria. Nasce qui la percezione della diversità del destino della rivoluzione americana da quello della vicenda rivoluzionaria francese. A ben vedere, per scardinare lo scrigno che ne contiene il segreto erano necessari e sufficienti due strumenti: il Federalist e Tocqueville. In aggiunta, magari, un Montesquieu al posto di Rousseau. In tempi di guerra fredda, ci vollero non poca spregiudicatezza e prontezza di riflessi per togliere a Tocqueville l’etichetta di nobiluomo conservatore. Un’Europa perennemente appiedata dalla sindrome vestfalica sembrò ad Hannah condannata a non produrre un costituzionalismo autenticamente innovativo. L’Europa si sfianca per emanciparsi dalle tradizioni, l’America semplicemente non ne ha. Gli sforzi europei sono tesi a destreggiarsi nella selva di cittadine, municipalità, guarentigie, privilegi, blasoni, stendardi, piccoli e grandi feudi che minano o ostacolano la sovranità. È un lavorio che sfianca, nel momento stesso in cui spinge nelle braccia di uno statalismo centralistico. Ma non si può dire né che gli americani non conoscessero morfologie feudali, né che gli europei non abbiano mai incontrato qualcosa di assimilabile all’associazionismo e ai corpi intermedi, valvola di sicurezza e garanzia di decentramento: li hanno bocciati per la loro foja microidentitaria e per il loro alto tasso di bellicosità. Quanto alla questione sociale, che secondo Hannah esercita una pressione distorsiva sullo sbocco politico della rivoluzione francese ed è invece meno incalzante o del tutto assente in quella americana, si può obiettare che il povero (e per altri versi il malato) non è mai stato, in Europa, un dato asetticamente statistico: non fa in tempo ad uscire dal circuito dell’assistenzialità religiosa e del pellegrinaggio, o dell’accattonaggio, che già entra in quello delle poor laws, cioè in un groviglio di interventi e di aggiustamenti legislativi finalizzati a prevenire l’esplosione di conflitti non controllabili. È pur vero, poi, che l’addensarsi di una canaille politicamente nociva al disegno rivoluzionario europeo e votata ad incanaglire, appunto, il suo versante libertario, poteva essere, in America, neutralizzato dalla disponibilità di spazi immensi, dove l’urgenza di bisogni elementari insoddisfatti trovava il modo di dissiparsi e di disinnescarsi. Il punto è che in Europa neanche il ricco è una figura amorfa e innocua: la maniacale tendenza degli europei a costruire paradigmi di filosofia della storia, che ad Hannah sembra ingombrante e ridondante, e certamente lo è, è però anche un macerarsi sull’origine della proprietà. Neanche i più farraginosi o fantasiosi mitologemi europei la ignorano, ma bisogna concedere che sono un ottimo termometro della passione che spinge ad indagare la genesi: come si diventa ricchi? Questa domanda è, nel nuovo continente, accasata e normale o stravagante ed importuna? Già, le grandi narrazioni. Nonostante l’occorrenza, qua e là, di una fuorviante condition humaine, di esistenzialismo francese non c’è traccia, se non nelle sistemazioni manualistiche e alla buona. È invece proprio l’America che suggerisce ad Hannah di spostare il baricentro della riflessione dalla natura umana alla condizione umana: ai grounding fathers fu risparmiato l’onere di decidere tra originaria malvagità o bontà dell’uomo, perché anche una natura umana peccaminosa è imbrigliabile attraverso vincoli comuni. Ma l’odierno ritorno in grande stile, nel vecchio continente, del dibattito sulla natura umana è lì ad indicare che non si trattava di bazzecole salottiere sull’homme sauvage. Non mancano tratti di accanimento (e di smarrimento) argomentativo, come quando la colonizzazione del continente americano, con i conseguenti massacri delle popolazioni indigene, viene totalmente sottratta all’azione di gruppi organizzati e alle spinte immanenti della storia americana, e misteriosamente riconsegnata ad accidentali ed individuali «tendenze bestiali insite nella natura umana». Anche il saggio On Violence (1970) è scritto con gli occhi puntati su Berkeley, e infatti la calligrafia concettuale del giovane Benjamin sulla violenza non fa breccia nella meditazione di Hannah, altrove sua lettrice ed editrice. Oggi la questione di linguaggi atlantici che non si intendono potrebbe assumere, provvisoriamente, questo profilo: Hannah accetta non tanto l’autointerpretazione della rivoluzione francese, quanto l’autointerpretazione della risposta restauratrice alla rivoluzione, evento così sconvolgente e irreligioso da meritare un’inversione della storia. Sopravvaluta, più che la Bastiglia, la risposta alla Bastiglia. Ma se il conservatorismo europeo avesse radici più remote e più salde di quelle che fanno capo allo spavento propagato dal 1789, e se ricomparisse con la tenacia delle vecchie talpe e con la virulenza dei nuovi tempi, anche alcune delle meno plausibili linee del pensiero europeo riguadagnerebbero la lungimiranza che il nuovo mondo non volle loro riconoscere.

La democrazia dell’essere in comune Una ricerca talvolta innovatrice e coraggiosa, talvolta discutibile, fuorviante, reazionaria. Che vede la banalità del male ma non la forza libera del bene Toni Negri e Judith Revel

Bisogna essere giusti con Hannah Arendt e finire di imbalsamare la vecchia signora nei diversi ritratti - più o meno simpatici, più o meno veri - che ne sono stati fatti: dall’amante di Heidegger (con relativa versione morbosa, la vittima ebrea sedotta e manipolata da un kapò ariano) alla fanciulla mitteleuropea sbarcata in America alla ricerca della libertà; dalla sopravvissuta alla Shoah alla grande teorica del pensiero liberal; fino alla nuova - in quanto tale ormai intoccabile - Diotima (nella santa trinità filosofica femminile che, sulla traccia del platonico simposio, la vede sedere accanto a Simone Weil e a Simone de Beauvoir... che ne farebbe volentieri a meno). No, essere giusti con Hannah Arendt significa rendere conto di un pensiero, e di una ricerca, reali: criticabili, discutibili, spesso fuorvianti, talora francamente reazionari. E altre volte, invece, armati di un coraggio politico e di un’immaginazione innovatrice di cui si è detto poco. Dei testi della Arendt "americana" è giusto rinnovare la critica. Lo faremo isolando due punti che ci sembrano essenziali nell’articolazione complessiva di un "pensiero della reazione": da una parte, la critica delle rivoluzioni europee della modernità - dall’inglese all’americana alla francese - costruita a partire dalla fantasiosa dicotomia fra rivoluzione "politica" e rivoluzione "sociale" - critica che permette l’apologia della rivoluzione americana in chiave liberal. D’altra parte, in secondo luogo, la teorizzazione del "totalitario" (perché pachidermico ed indifferenziato) concetto di "totalitarismo" (concetto tanto poco complesso da risultare applicabile alle più diverse realtà politiche in maniera "indeterminata", salvo difendere in ogni caso la coazione liberale ad un rapporto sociale "determinato" tra stato e mercato, tra proprietà privata e forme costituzionali dell’organizzazione politica). E’ evidente che le due affermazioni della Arendt "americana" - la prima che esalta l’idea di una rivoluzione politica che porta alla fondazione degli Stati Uniti (che fonda cioè uno «spazio politico» puro) e l’oppone alle rivoluzioni sociali francese e russa (che avrebbero dato spazio ad interessi corporativi e alla volontà egoistica di attori sociali che volevano appropriarsi della ricchezza altrui); e la seconda che immagina la riduzione ad unum di comunismo, stalinismo, fascismo e nazismo sotto il cappello del "totalitarismo" - è evidente, dunque, che queste due affermazioni giacciono sotto la stessa coperta. Con lo svantaggio che, da qualsiasi parte tiri la coperta, sempre scopri una funzione propagandista del suo pensiero. Completamente immerso nel clima della guerra fredda e decisamente caricaturale nelle sue espressioni scientifiche. Ancor più insufficiente quando si tenga conto della sua relativa ignoranza (se non di una volonterosa mistificazione) dell’analisi dei processi di trasformazione rivoluzionaria e del suo spregio per la critica dell’economia politica. Non è un caso che queste posizioni abbiano finito per nutrire le peggiori operazioni "revisioniste" nel periodo successivo alla caduta del muro di Berlino. Ma ci sono altri testi della Arendt che non possono essere dimenticati e che sarebbe non solo giusto ma necessario rileggere oggi: in effetti, si tratta di una Arendt che si è voluto cancellare. Numerosi gli argomenti a sostegno di quest’oblio selettivo: la vieille dame stava appunto invecchiando, non si trattava di filosofia ma di giornalismo. La Arendt di Eichmann a Gerusalemme, la teorica della banalità del male, quella fragilissima e al contempo determinatissima coscienza che accompagnava il primo tentativo di dispiegamento a freddo dell’orrore dello sterminio. Giornalismo, dissero. Ci fu chi arrivò a chiedersi: Hannah Arendt est-elle nazie? (Nouvel Observateur, 1966). Giornalismo, forse, ma nel suo senso più alto: quello di un’indagine radicale sulle forme del presente, fino a sopprimere dal campo dell’analisi storica (di una storia vissuta nella forma della persecuzione e del lutto) ogni riferimento alla morale ("il male") che non fosse immediatamente sussunto nelle figure della banale, triste, quotidiana esperienza del potere, dell’ignoranza, della stupidità e del rancore, delle piccole vendette, dell’umiliazione e di una bieca volontà di sopraffazione. Quell’uomo lì, Eichmann, chiamatelo pure "maligno", ma sappiate che può essere ognuno di noi, sottoposto alle stesse condizioni del potere: questa la lezione terribile della Arendt. Una maniera di dire che i boia di un tempo partoriscono vittime che a loro volta, in un altro tempo, possono diventare carnefici; e che l’unica soluzione di questo circolo vizioso in cui la sofferenza genera l’orrore e l’orrore la sofferenza, è di inventare un’etica politica che non sia fatta di soli buoni sentimenti, né semplicemente d’individualità romantiche che reclamano il premio delle loro buone azioni. Ciò che solamente può risolvere il rapporto al circolo vizioso del potere è un’etica politica in cui la sperimentazione di una democrazia radicale impedisca ad ogni singolarità l’esperienza della guerra, della sofferenza, dell’orrore. L’esperienza politica della moltitudine. Non era la prima volta che la Arendt, nel corso della sua contraddittoria vicenda vitale, toccava questi problemi. Talora luxemburghista, un tempo partigiana della "democrazia diretta" anarco-comunista, altre volte sostenitrice degli operai insorti nel ’56 in Ungheria, queste reminiscenze si facevano attualità davanti alla gabbia del carnefice. Vi era qui la nostalgia di quei sentimenti originari e di quella libertà fondamentale che Arendt aveva per la prima volta riscoperto nel tracciare la vita di Rachel Varnhagen, in quelle famiglie ebree e in quella società che l’Aufklaerung federiciano aveva sottratto al ghetto ed alla superstizione? Dovremo attendere i libri sulla morale pubblicati dopo la morte di Hannah per comprendere che il suo pensiero andava in quel senso. E tuttavia ci resta l’impressione che nel suo Eichmann a Gerusalemme Arendt non abbia voluto andare fino alla fine del suo ragionamento. Perché alla banalità del male non poteva che corrispondere la libera forza del bene, quella democrazia delle moltitudini che della routine del potere si fa beffe, quella libertà che, se si sapesse preventivamente un bene o un male costituiti - in termini teologici o naturalistici, politici o cervellotici - non saprebbe cosa farsene della singolarità della storia, semplicemente perché non ci sarebbe più, in quanto libertà. Non è Kant ma Spinoza che sta dietro Eichmann a Gerusalemme. E la grandezza della Arendt la troviamo in quella sua talora ingenua, certo spontanea voglia di resistere alla banalità del male. A che vale santificare una concezione religiosa e statale del male uccidendo un’idiota espressione del potere?


Il passaporto «nonsense» dei senza patria Le cartografie delle migrazioni forzate fra le due guerre, ovvero la fine dell’illusione sui diritti umani: non c’è soggetto di diritti al di fuori dello stato nazionale. Ma proprio dall’umanità senza stato può nascere la cittadinanza globale, riflesso dell’"agire in comune" di Hannah Arendt Alessandro Dal Lago

Nel 1969, mentre preparavo la tesi di laurea sul pensiero politico di Gramsci, il relatore mi suggerì di «dare un’occhiata» ai libri di Hannah Arendt, usciti negli anni precedenti. Capii ben poco di Vita activa, fui moderatamente interessato da Eichmann a Gerusalemme e liquidai come propaganda Le origini del totalitarismo. Lessi le tre opere come manifestazioni, qua e là interessanti, di un pensiero sostanzialmente conservatore. Questo era il clima prevalente nella sinistra dell’epoca. Come è noto, in meno di vent’anni il giudizio cambiò. Il tentativo di omologare Hannah Arendt a una riscoperta del platonismo conservatore (Leo Strass, Eric Voegelin) durò lo spazio di qualche convegno accademico. Venne invece alla luce una stratificazione filosofica complessa - un pensiero che partiva da Heidegger per superare l’impoliticità di Sein und Zeit - e soprattutto si scoprì una teoria ludica dell’agire politico che suscitò un certo entusiasmo perfino nel marxismo più innovativo. Prima che sensibilità diverse (letterarie, femministe) accrescessero la varietà delle letture, Vita activa fu per molto tempo il testo centrale per l’interpretazione di quella che era ormai considerata figura centrale del pensiero politico novecentesco. Le origini del totalitarismo restarono invece un testo marginale. Sulla prima parte, dedicata all’antisemitismo, pesavano ancora le polemiche innescate dal celebre reportage sul caso Eichmann. La terza parte, sul totalitarismo in senso stretto, poteva sembrare, e non lo era, debitrice del clima della guerra fredda. La seconda (l’imperialismo), a mio avviso la più importante, fu interpretata probabilmente come un intermezzo in larga parte letterario, giacché discuteva il ruolo delle teorie razziste e imperialiste nella formazione dell’uomo del XX secolo. Non solo: quando il volume uscì, forse perché si era in piena decolonizzazione, l’imperialismo sembrava un residuo del passato. Insomma, le analisi storiche di Hannah Arendt, rispetto a quelle filosofico-politiche, erano in gran parte ignorate. Oggi, la sezione sull’imperialismo mi sembra la più attuale delle Origini e senz’altro centrale in tutta l’opera arendtiana. Si tratta non già di una ricostruzione originale dei processi di lungo periodo che portarono alla crisi della prima guerra mondiale - su cui Arendt è debitrice dei grandi studi di Hilferding e Luxemburg, tra gli altri -, ma dell’analisi dei movimenti culturali e ideologici in cui si espresse l’espansionismo europeo. Uno soprattutto è comune al nazionalismo esasperato, al colonialismo e all’imperialismo: il razzismo. Venticinque anni prima del Foucault di Bisogna difendere la società (e spesso utilizzando le stesse fonti) Arendt dimostra che l’invenzione delle razze è essenziale all’autorappresentazione europea e occidentale. Europa e occidente non possono esistere senza fondarsi sulla superiorità, comunque determinata, rispetto al resto dell’umanità. Superiorità volta per volta mitologica, biologica, razziale, culturale; quale ne sia l’espressione «scientifica», la pretesa ideologica di dominare gli altri sulla base della superiorità, della conquista, della forza o «per il loro bene» è l’essenza della coscienza europea - al di là delle forme più o meno stravaganti con cui la cultura letteraria e filosofica di fine secolo ha rappresentato tale pretesa. Se la competizione imperiale, maturata per una ventina d’anni prima del 1914, contribuì alla prima guerra mondiale, la fine di quest’ultima, con la soppressione di imperi e stati, ha causato il primo esodo di massa del Novecento e l’invenzione dei moderni senza patria. Le pagine dedicate alle migrazioni forzate tra le due guerre e soprattutto alla fine dell’illusione nei diritti umani sono tra le migliori di Arendt in assoluto. Quello che apparve indiscutibile è che i "diritti" non precedevano logicamente gli stati ma ne erano la conseguenza. Chi, armeno, ebreo o balcanico avesse perso lo stato perdeva qualsiasi personalità giuridica. Gli stati europei non riuscirono a risolvere il problema delle stateless persons tra le due guerre, o meglio le confinarono nel limbo degli apolidi, i titolari del celebre passaporto Nansen, che Vladimir Nabokov, con uno dei suoi famosi giochi di parole, definì passaporto nonsense. Si gettavano le premesse per la sparizione di massa degli esseri umani praticata su larga scala a partire dalla seconda guerra mondiale Hannah Arendt scrive a proposito di profughi e migranti: «Gli individui costretti a vivere fuori di ogni comunità sono confinati nella loro condizione naturale, nella loro mera diversità, pur trovandosi nel mondo civile. (...) Il loro distacco dal mondo, la loro estraneità sono come un invito all’omicidio, in quanto la morte di uomini esclusi da ogni rapporto di natura giuridica, sociale e politica, rimane priva di qualsiasi conseguenza per i sopravvissuti». Arendt pensava che il limbo degli apolidi, conseguenza della prima guerra mondiale, preparasse le stragi della seconda e che fosse quindi una premessa del totalitarismo. Ma le sue analisi hanno un valore che trascende l’analisi storica. Se è la cittadinanza - e non una generica appartenenza umana, come nell’espressione "diritto umano" -, a fondare l’esistenza sociale, allora la perdita della cittadinanza, come avviene per i profughi, o la rinuncia forzata, come in quello dei migranti, significa l’esposizione all’omicidio anche in situazioni di apparente protezione dell’umanità, come nei sedicenti stati di diritto contemporanei. Arendt avrebbe visto nell’episodio dei polacchi di Puglia, come nelle morti in mare vicino a Lampedusa, un esempio evidente dell’inclinazione omicida (se non altro per omissione) degli stati di diritto nei confronti di chi non ne è cittadino. Se si sospettasse che dieci italiani sono stati uccisi in qualche parte del mondo (e non solo in Italia) lo scandalo sarebbe enorme. Uno stupro imputabile a uno straniero fa infinitamente più rumore della morte di alcune decine di stranieri sulle nostre coste. Non si tratta di minimizzare il primo, ma di notare come agli stranieri, privi della nostra cittadinanza, non sia applicabile alcuno schema di responsabilità, anche indiretta, che non sia quella degli scafisti, colpevoli a portata di mano. Si alzano le spalle, si dà per scontata la nostra innocenza, anche quando - e capita abbastanza spesso - è una nostra nave militare ad affondare qualche battello di migranti. Il diritti, e tanto meno umani, non esistono sul nostro territorio e all’interno delle nostre acque territoriali, per chi non è dei nostri. Collegando fobia anti-islamica e razzismo anti-migranti, la Fallaci (bisogna riconoscerlo) ha il merito di aver reso esplicito oggi ciò che Hannah Arendt aveva intuito cinquant’anni fa e che pochi hanno il coraggio di dire esplicitamente: che il trattamento dei migranti è l’altra faccia del dominio coloniale. La differenza è che all’interno dei nostri stati la privazione dei diritti è sostanzialmente civile, mentre all’esterno è militare. Ma il peso di chi non è europeo o occidentale è lo stesso a Baghdad come nel Mediterraneo, indipendentemente dal fatto che muoia per mano dei marines o per indifferenza. Non esiste socialmente e quindi umanamente. Lo scenario prefigurato da Arendt nella sezione sull’imperialismo preparava il totalitarismo, ma non si sarebbe esaurito con la sconfitta dei nazisti né con la fine del socialismo reale. È la semplice conseguenza dell’incapacità dello stato nazione di concepire l’esistenza dei soggetti di diritto al di fuori di se stesso. Della finzione intrinseca a organizzazioni come le Nazioni Unite o dell’ ipocrisia di un’Europa che è solo la somma di una ventina di nazionalismi, grandi piccoli e non del loro superamento (che d’altra parte non potrebbe configurarsi che come un supernazionalismo.). Le politiche migratorie e del diritto d’asilo, in Europa e nel mondo, lo dimostrano. Ecco dunque il carattere profetico del libro di Hannah Arendt, se lo si sottrae alla vulgata della guerra fredda. Con esso una teoria della soggettività giuridico-politica trova un ancoraggio, anche se non una fondazione vera e propria, tanto meno positiva. Ma è proprio dall’esistenza di un’umanità senza stato, marginale o confinata nelle enclave degli stati nazione del mondo ricco, che potrebbe partire una riflessione su una cittadinanza globale. Si tratta in fondo del riflesso concreto, troppo concreto, di quella fondazione di un agire comune che Arendt ha perseguito nelle sue opere più celebrate.

Il 900 in una biografia Cronologia Le date di Hannah

1906 Johanna Arendt nasce il 14 ottobre a Hannover, figlia unica di Paul Arendt e Martha Cohn 1910 La famiglia si trasferisce a Königsberg, dove Hannah frequenta le scuole fino alla maturità. 1924 Studi di filosofia, greco e teologia all’università di Marburg con Rudolf Bultmann e Martin Heidegger. Comincia la sua lunga storia d’amore con Heidegger che durerà fino all’esilio negli Usa. 1928 Laurea all’università di Heidelberg con Karl Jaspers. Il sodalizio fra loro durerà fino alla morte di Jaspers, nel ’69. Matrimonio con Gunther Stern (poi Anders). 1930 Biografia di Rahel Varnhagen. 1930-33 Attività clandestina per i sionisti tedeschi. Arresto e fuga in Francia. 1935-40 Si separa da Gunther Anders e sposa Heinrich Blucher. Internata nel campo di Gurs in Francia, fugge con la madre e il marito a Marsiglia, dove riceve da Benjamin il manoscritto delle «Tesi di filosofia della storia». 1941 Da Lisbona negli Stati uniti 1941-’49 Lavora per alcune riviste, per la casa editrice Schocken, per la Jewish Cultural Reconstruction. 1949-50 Viaggio in Europa, incontra Jaspers e rivede Heidegger. 1950 Cittadinanza americana. Esce «Le origini del totalitarismo». 1953-56 Corsi a Princeton, Harvard, New York, Berkeley. Dal ’63 al ’67 a Chicago. 1961-62 Inviata del «New Yorker» al processo contro Adolf Eichmann a Gerusalemme. 1962 Aspre polemiche sui suoi articoli sul processo Eichmann. Viaggio in Europa. Esce «On Revolution» 1968 Corsi alla New School di New York mentre cresce il movimento studentesco. 1970 Muore Heinrich Blucher. 1975 Viaggio in Europa, nuovo incontro con Heidegger. Il 4 dicembre Hannah muore a New York di attacco cardiaco


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