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Violenza sulle donne: stereotipi di genere nelle aule di tribunale

Un interessante articolo, con intervista al magistrato Fabio Roia, che da anni si occupa di diritti delle donne, di Beba Minna, dalla rivista Altroconsumo di Dicembre 2017.

di Redazione - mercoledì 20 dicembre 2017 - 5388 letture

Le donne hanno fiducia nei processi che le vedono vittime?
 "In parte si, in parte no. Rispetto ad anni fa sono stati fatti passi avanti nel contrastare la violenza di genere. Innanzitutto sono state introdotte una serie di leggi molto valide. Poi sta avvenendo un cambiamento sociale nell’affrontare questo problema, antico, spesso sommerso proprio per la resistenza culturale. Le aule di giustizia sono lo specchio della società e quindi, è raro che le persone che lavorano a un processo penale (poliziotti, avvocati, giudici) risentano degli stessi stereotipo che esistono fuori dai tribunali. Per esempio, credere che se una donna non denuncia subito gli atti di violenza subiti è poco credibile (è il caso di Asia Argento). Eppure è noto che la donna tende a non denunciare per senso di colpa e per vergogna. Un altro stereotipo è considerare l’ambivalenza affettiva nei confronti del compagno aggressore, come un fattore di inattendibilità. Ma parlare di un crimine che riguarda le relazioni significa mettersi in gioco completamente, non è come denunciare il furto del portafoglio. In più nelle aule di giustizia il clima o spesso rispingente, per cui la testimonianza diventa una prova di coraggio, non una prova di verità".

Quindi finisce che la donna è doppiamente vittimizzata?
 "C’è la tendenza a fare domande che riguardano la vita sessuale della donna, anche se è vietato dalla legge. Se il giudice non è attento a evitare questi rischi, la donna diventa facilmente vittima anche del processo".

Ancora oggi, come negli anni ’60?
 "Le leggi sono arrivate tardi, e si fa fatica ad adeguarsi culturalmente. Quella sul divorzio è solo degli anni ’70, così come la riforma del diritto di famiglia. Fino al 1981 si poteva uccidere la propria moglie con l’attenuante del delitto d’onore. Entrare nella vita delle famiglie significa mettere in discussione l’unità base della nostra società, un tempo considerata un luogo di protezione. Oggi stiamo giudicando il modello sociale in cui siamo cresciuti. L’istituzione giudiziaria, che dovrebbe agire in modo delicato e attento, a volte invece, entra a gamba tesa nella vita delle persone o, per poca sensibilità del giudice o, perché è poco specializzato. Fare questi processi è difficile e faticoso, serve una formazione continua, multidisciplinare insieme agli operatori della rete che prendono in carico le donne, quindi centri antiviolenza, servizi sociali, forze di Polizia. Serve una conoscenza che va al di là dell’esperienza giuridica. La vittima di truffa racconta l’accaduto sempre allo stesso modo, una vittima di violenza a seconda di come sono poste le domande può raccontare cose diverse, ma questo non è segno di inattendibilità. Se il giudice è esperto, sa che non si possono applicare le solite categorie perché, in caso di maltrattamento, dare più versioni è assolutamente coerente".

Per tutelare le donne, lei propone il processo intelligente. Ovvero?
 "Il processo intelligente deve avere tempi brevi, non deve trasformarsi in un processo alla vittima, si devono applicare le buone leggi che oggi ci sono. La giustizia è lenta, ma è previsto che alcuni reati abbiano la precedenza, come quelli di stalking, maltrattamento e violenza".

fotofabioroiacontoga Fabio Roia, magistrato e componente del Tavolo permanente per il contrasto alla violenza di genere


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