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Violenza maschile, patriarcato e presa di coscienza. Parole antiche? Non direi...

di Giuseppe Morrone - giovedì 4 settembre 2008 - 3223 letture

Un’indagine del Consiglio d’Europa, resa pubblica nell’ottobre 2005, ha rivelato che la violenza subìta da partner, mariti, fidanzati o padri è la prima causa di morte ed invalidità permanente per le donne fra i 16 e i 44 anni, non solo nel mondo, ma anche in Europa.

In realtà, avrei avuto voglia, più che di fornire una mia razionale impressione sulle tematiche in oggetto, di riportare una carrellata di seriose opinioni riguardo alla figura femminile, divenute celebri nel corso dei secoli e sedimentanti, purtroppo, senso comune valevole ancora odiernamente, provenienti dai più svariati ambiti religiosi, filosofici e culturali (i documenti e le pratiche della Chiesa Cattolica in tutte le sue fasi, Confucio, Baudelaire, Nietzsche, Weininger, perfino progressisti come Proudhon e Marx, per non fare che dei rapidi, e contrapposti, esempi). Non l’ho fatto per non abusare del nostro spazio, e, soprattutto, per cercare di fornire un modesto contributo alla discussione che spero si sollevi.

E’ sentimento consolidato, e reale, che, grosso modo durante l’ultimo secolo (dalla conquista del suffragio universale in poi; in Italia datato al 1946), all’interno delle società così dette occidentali e sviluppate, con gradazioni diverse da nazione a nazione, l’emancipazione e l’autodeterminazione femminile, grazie specialmente all’azione incessante operata dalla sterminata galassia dei movimenti per le rivendicazioni di genere, femministi e di “sinistra”, abbiano compiuto dei passi da gigante.

Non è mia intenzione discutere questo assunto, né tante conquiste effettivamente ottenute, anche se, ciclicamente, rimesse in discussione: basti pensare al travaglio della legge 194 italiana, quella sulla legalizzazione dell’Interruzione volontaria di gravidanza, a trenta anni (1978) dalla sua approvazione parlamentare; e seppure riconoscendo che esse vadano indagate nella loro complicata e stratificata realizzazione.

Comunque, in base alla logica conseguenza di questo ragionamento, fondato su fatti concreti ma non sull’interpretazione (o, forse, accettazione) di massa, attualmente, l’unico luogo al mondo dove i diritti delle donne verrebbero massicciamente violati sarebbe costituita dai territori a predominanza, religiosa e sociale, islamica. Anche qui, nessuno si sognerebbe mai di negare che in Arabia Saudita piuttosto che in Iran la costituzionalizzazione (cioè la traduzione in leggi dello Stato) dell’inferiorità femminile, e mostruosità connesse, sia un dato innegabile e da contrastare culturalmente (senza, tuttavia, stare a scadere nella retorica, e nella criminale prassi, della liberazione occidentale tramite “l’esportazione della democrazia”, come avvenuto in Iraq od in Afghanistan) con i mezzi che le teorie liberali, socialiste, comuniste, libertarie e radicali ci hanno offerto, seppure con sbandamenti d’applicazione evidenti in molti casi, cioè quei “Diritti inalienabili della persona” sanciti in tante rivoluzioni, dichiarazioni e costituzioni ancora vigenti. Ma, dapprima, ci sarebbe da conoscere, da scandagliare, da confrontare, quei luoghi, quelle tradizioni, quelle culture, così lontani e lontane dal nostro fuoco, inconsapevolmente, etnocentrico.

Per andare al centro della nostra argomentazione, ciò che a me pare altrettanto evidente, ma misteriosamente sottaciuto, è il tema di quella interpretazione di massa non compiutamente metabolizzato (o non compiutamente accettato), riguardo all’emancipazione femminile, da parte delle nostre cosmetiche “società del benessere”, sia al livello maschile che a quello femminile.

Considerando tale contesto, solamente, dal punto di vista dell’eterosessualità (per considerarlo dal punto di vista pure della omosessualità, o della transessualità, avremmo avuto bisogno di una enciclopedia tante sono le discriminazioni), cosa voglio dire? Faccio qualche esempio quotidiano: in Italia, lì dove, durante gli ultimi decenni, sotto il profilo legislativo, la parità fra uomo e donna è stata praticamente sancita (tranne che per alcune zone d’ombra), e lì dove troviamo, spesso, affermate donne piazzate ai posti di combattimento, cioè con ruoli di responsabilità, tranne che nell’arena politica (anche se non è, solamente, questa l’emancipazione cui penso), un tema come quello della violenza verso le donne (sessuata, sarebbe opportuno dire), materiale o psicologica, è, ancora, drammaticamente all’ordine del giorno.

Prima di procedere nell’analisi del fenomeno della violenza sessuata, è opportuna una piccola postilla riguardo alla "parità sul posto di lavoro"; in questo ambito, infatti, c’è da considerare che le "differenti" concezioni della vita umana, al maschile ed al femminile, necessitano di una parallela diversificazione in quanto a mansioni, diritti ed opportunità; ma, credo altrettanto che, spesso, tale necessità venga usata come un alibi da parte dalle donne, e come una clava da parte degli uomini; è questa una traccia da sviluppare, ma con metodo e, magari, in un’altra occasione.

Passo ora a citare un frammento preso da un recente documento dell’Udi (Unione Donne Italiane).

"Indignarsi per l’esposizione commerciale del corpo femminile ci deve far riflettere su che cosa significa oggi violenza, e per noi quella sessuata. Oggi la violenza fa parte del marketing perché è eccitante e stimola all’acquisto fosse anche di un videogioco o del biglietto per il cinema. Oggi la violenza è anche merce rappresentata in modo spudorato. Ma la violenza ha sempre fatto storia. Anzi, la storia è storia di violenze. Secolarmente codificata nell’uso della forza degli eserciti, essa pareva addirittura nobile ed eroica.

Allora ridefiniamola questa VIOLENZA. Essa è brutalità. Essa è stupro, per il solo piacere della rapina, del possesso e del controllo. Essa è botte, per il piacere di sottomettere. Essa è anche insulto in pubblico e in privato, per il piacere di umiliare. Essa è anche l’uomo che urla per il piacere di spaventare. È tutto quello che sappiamo, raccolta in dati statistici che ci dicono prima di tutto quanto siamo malmenate in casa. E solo in parte fuori di casa. Da stranieri o nostrani, ma sempre uomini.

FEMMINICIDIO è il termine corretto: ci vogliono uccidere in quanto femmine, a prescindere dallo status. Le motivazioni e le scuse possono essere infinite, ma quello è il termine. Ci vogliono uccidere per riportarci all’unico ruolo consentito, quello di femmina. Ci vogliono uccidere per sentirsi maschi, questa è la verità."

Non commento questo passo, perché mi sembra già abbastanza esplicativo da sè e vado avanti.

Ritornando alla bi-partizione che abbiamo individuato fra violenza materiale e psicologica, per quel che riguarda il primo caso, lancio una domanda: avete mai pensato ad un tentato stupro da parte di una donna verso un uomo? Eppure nulla ne vieterebbe l’immagine, mentre il contrario rappresenta una orrenda perversione e dominazione praticata a livelli percentuali altissimi, quasi sempre fra le rassicuranti ed omertose mura domestiche. Per meglio chiarire: sono perfettamente cosciente del fatto che, analizzando la "dinamica e la meccanica" di un classico rapporto sessuale, esso (cioè lo stupro da parte femminile a maschile) risulti impossibile da attuare concretamente; tuttavia, la mia vuole essere una provocazione conseguente alla considerazione che tale situazione non è neanche lontanamente pensabile (anche solo a livello inconscio), tale è lo "strapotere" da parte maschile; ho richiamato questa immagine, se si vuole simbolicamente, con l’intento (d’accusa) di mostrare l’impressionante silenzio maschile nei confronti di un momento che "ci vede" come attivi protagonisti, mostrandone l’irreale (in quanto fuori dai circuiti dell’intelligibilità) rovescio.

Per quel che riguarda il secondo caso (violenza psicologica), invece, si pensi al modo di relazionarsi, padronale, superbo e prevaricatore, della “stragrande” maggioranza degli adolescenti di sesso maschile verso le adolescenti di sesso femminile, oppure, ancora peggio, all’interno di un rapporto, sia esso d’amore o d’amicizia; e quando si diventa adulti, la situazione, se possibile, si acuisce in senso negativo.

Come mai queste discrepanze, le quali non sono le sole? Prima di provare ad abbozzare una risposta, segnalo, per somme linee, un’altra cartina di tornasole. Si consideri la mercificazione, su scala globale, dei corpi e del sesso. Essa ha risolto una opportuna rivoluzione dei costumi in una fiera delle volgarità permanente, e sempre a scapito della componente sociale femminile (per altro accondiscendente in quanto non adeguatamente cosciente rispetto al suo ruolo di oggetto) in modo da soddisfare le pulsioni erotiche maschili più retrive.

Basti pensare, ancora, ad un detto tanto sottovalutato quanto presente: gli uomini che sviluppano molteplici “relazioni” sessuali con donne sono connotati, positivamente, come “Don Giovanni”; le donne che sviluppano molteplici “relazioni” sessuali con uomini sono connotate, negativamente, come “Puttane”. Il discorso potrebbe divenire ancora più complesso, e confermare l’ipotesi di cui sopra, concernente la non metabolizzazione di massa (oppure la non accettazione), da parte della maggioranza delle società occidentali (e specialmente l’Italia), dei significati interiori, ed integrali, dell’emancipazione femminile; infatti, questo stesso meccanismo (“Don Giovanni” vs “Puttana”), qui percepito e pronunciato oltre che spesso attuato seppure celatamente, in tante zone a predominanza islamica, come detto a grado zero rispetto la tematica dei diritti delle donne (fatta eccezione per quelle poche, e quei pochi, che combattono contro i “mulini a vento”), diventa costituzione formale e materiale: cos’altro potrebbe significare, altrimenti, il fatto che la “poligamia”, ad esempio, è ammessa per gli uomini (cioè possono avere più mogli), ma non per le donne (cioè non possono avere più mariti)?

Riporto un altro frammento preso da un recente documento dell’Udi (Unione Donne Italiane).

"Quando si dice il mestiere più antico del mondo, tutti - proprio tutti - pensano alla prostituzione. Si dimentica che, fin dall’antichità, l’origine simbolica della prostituzione sta negli stupri, nell’ossessione degli uomini per le Amazzoni, nel ratto delle Sabine, negli stupri etnici, sia in Europa che in Africa che ovunque. Questo mestiere è scolpito nella carne delle donne e nel giudizio degli uomini, tanto da occultare che prima della prostituzione vengono gli stupri, gli abusi e le violenze sulle donne che si vuole si prostituiscano. Il fenomeno della tratta lo svela in tutta la sua brutalità: una volta ridotte a merce quelle donne vengono messe sul mercato dove uomini potranno godere dell’umiliazione di un essere umano addomesticato con la violenza: appunto, una violenza sessuata. E in cambio daranno del denaro a quella donna che lo consegnerà a quello che l’ha ridotta in schiavitù: uno scambio di favori! Le prostitute sono poi un monito per tutte: sono le “altre” che avremmo potuto essere, ma se noi per prime cominceremo a pensare e poi a dire a voce alta che il mestiere più antico è quello del violentatore, ciascun genere saprà in cosa si deve rispecchiare."

Non commento nemmeno questo passo, perché mi sembra anch’esso già abbastanza esplicativo da sé e vado ancora avanti.

Ritornando al contesto meramente occidentale, perfino in settori strategici per la comunità (ad esempio, per insediarsi a capo di un Ministero, oppure nel classico ruolo della segretaria del potente di turno), troppo spesso, le donne più che per i loro meriti, le loro capacità, le loro esperienze e le loro virtù morali, vengono valutate in base all’aspetto estetico. Come ci ricordano le sferzate, cariche di impotente rabbia, di una lucida intellettuale quale Lidia Ravera, è questa una discriminazione insopportabile, ed amaramente diffusa, per tutte quelle donne le quali dimostrano una preparazione eccezionale, molto spesso superiore a quella dei colleghi di sesso maschile, sistematicamente calpestata dalla grettezza, e dall’ignoranza, della concreta ideologia dei bassi istinti.

Chiaramente tale scenario non è monolitico, ma si è corposamente affermato, e lo possiamo verificare ad ogni momento, ad ogni immagine, ad ogni discussione.

E’ stata, quindi, paradossalmente, colpa della sbandierata emancipazione se la figura e la condizione femminile sono state, e sono ancora oggi, percepite, nel profondo delle nostre convinzioni, come inferiori, inadatte, quindi meritevoli di essere guidate e vilipese? Assolutamente no. Infatti, a mio avviso, l’emancipazione sostanzialmente operante a tutti i livelli dell’agire umano, mentale e sociale (seppure nella consapevole differenza di forma biologica, e, forse, di forma sensibile) ancora non si è avuta, e non si avrà mai se, anche, la componente maschile non ne prenderà, risolutamente, atto, negando il proprio carattere di pretesa superiorità e sopraffazione (ad esempio: quando una donna viene stuprata è possibile che nessun uomo, seppure estraneo al fatto, abbia qualcosa da ridire o venga solamente interrogato ad esprimere la propria opinione? Io credo che, anche in questo caso, si tratti di un atteggiamento vergognoso e complice). E’ questo il punto.

Le responsabilità di questa rimozione strutturale sono varie, molteplici ed intrecciate, ma converrebbe interrogarsi sulla brodaglia culturale che ha nutrito i nostri passi, formato i nostri pregiudizi e, perfino, le nostre pre-comprensioni (basti pensare all’ordine del discorso, linguistico e simbolico, ossessivamente, ed automaticamente, declinato al maschile).

Mi riferisco ad un certo provincialismo, ad una certa concezione patriarcale della società, ad un certo cattolicesimo dogmatico, reazionario e favorevole a considerare la Donna solamente come moglie e madre senza nessun riguardo per la propria personale autodeterminazione, da contrapporsi al cristianesimo di base, od alla galassia protestante, che riguardo alla tematica della emancipazione femminile avrebbero potuto fare scuola, ad una certa esaltazione del virilismo, ad una certa retorica dei sessi forti e deboli.

Altrimenti, per concludere con triste ironia, potremo sempre ricorrere a quel genio di Schopenhauer, il quale nei “Supplementi” a “Il mondo come volontà e rappresentazione” non conobbe alcun limite. Infatti, l’idea che avrà tanto successo tra il XIX e il XX secolo, ovvero che le donne sono naturalmente predisposte, a causa dell’inattività fisica ed intellettuale, ad essere sottomesse all’uomo, vegetando in uno stato di perenne infanzia, è di questo filosofo, mentore dell’irrazionalismo. Inoltre, ebbe particolare successo tra i più accaniti misogini un’altra sua trovata che sarà ospitata in certi trattati scientifici: le donne non avrebbero comprensione e sensibilità per musica, letteratura ed arti figurative, e quello che riuscirebbero ad ottenere avverrebbe solamente tramite la mediazione del maschio, per cui l’unico scopo della loro vita sarebbe quello di conquistarsi un marito, e l’unico loro dovere, quasi per diritto divino, quello di concepire figli ed accudirli.

Seppure ci sia da riconoscere come la componente maschile, a livello culturale e scientifico, risulti numericamente preponderante (ed a questo molto hanno contribuito le fandonie di cui sopra, oltre che, materialmente, la canonica divisione del lavoro tra famiglia ed esterno), andatelo a spiegare a Patti Smith, Frida Kahlo, Simone De Beauvior, oppure a quelle femministe italiane che hanno posto al centro del problema la questione della maternità come libera scelta e non come destino, ma soprattutto confrontatelo con i vostri più intimi, a volte confessati, a volte inconfessati, pensieri!


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