Vent’anni fa: Pippo Fava
Fa male. Fa ancora male pensare a Pippo Fava. Non ho mai scritto di lui, dopo la sua morte. Prima ho pubblicato soltanto un’intervista che a lui era molto piaciuta. Venne a prendere il giornale al mio ufficio.
Fa male. Fa ancora male pensare a Pippo Fava. Non ho mai scritto di lui, dopo la sua morte. Prima ho pubblicato soltanto un’intervista che a lui era molto piaciuta. Venne a prendere il giornale al mio ufficio. "Mi hanno detto che hai scritto cose bellissime su di me" mi disse, era contento e a me sembrava un miracolo che il mio grande direttore, il mito della mia adolescenza, fosse venuto di persona a chiedere il mio articolo.
Oggi posso dirlo: era "anche" il mio direttore. Anzi è stato il mio "unico" direttore, di tutti gli altri non mi è mai importato. Pippo Fava era un direttore diverso, anche da tutti gli altri giornalisti e da quelli che, sulla sua morte, hanno costruito carriere e successi. Nel nostro paese si usa odiare molto i vivi per poi amarli, mitizzarli, usarli, dopo la morte.
La verità ha sempre due facce, come tutte le medaglie. Solo con gli anni, le esperienze e le sofferenze, si impara che le persone che più ti amano sono le stesse che più ti fanno soffrire, che le cose più belle delle vita sono, al tempo stesso, le più difficili e così via.
Pippo, a differenza degli altri giornalisti catanesi, non pretendeva di essere chiamato "dottore" e nemmeno "direttore". Voleva che lo chiamassimo "Pippo" e fu la prima cosa "strana" che notai.
Io lo amavo, e scusate la prima persona, ma lo amavo da ragazzina, senza conoscere altro che i suoi articoli e la sua firma. Lo amavo già tantissimo e non sapevo com’era la sua faccia. Dopo vent’anni lo posso dire, senza paura di speculare sulla sua morte, di usare il suo nome per fare carriera. Lo amavo come tanti e Turi Ragonese, il fotoreporter che aveva lavorato in coppia con lui per tanti anni, diceva: "Siete tutti innamorati del direttore". Era vero.
Andai alla redazione del Giornale del Sud, il quotidiano che fondò e diresse prima de "I Siciliani", per offrire la mia collaborazione. Il giornale non usciva ancora. Venne ad aprirmi un tizio in jeans e maglione, capelli lunghi e barba, poi tornò a sedersi al centralino e armeggiare con il telefono. Mi chiese di fargli accendere una sigaretta senza filtro. Parlai con Giovanna Quasimodo che, dopo alcuni giorni, mi presentò al direttore: jeans, barba lunga e maglione rosso, credo.
Pippo riusciva a farsi amare da tutti. qualcuno si incazzava ma, il suo sguardo, al di sopra degli occhiali, era irresistibile. Veniva nella stanza della cronaca. Si sedeva di fronte a me, allungava i piedi sulla mia scrivania e mi chiedeva una sigaretta. Non ho mai più conosciuto un direttore così. Una volta comprai un vaso da fiori cinese, lo misi sulla sua scrivania. Ogni giorno rubavo un fiore, un fiore diverso, ai cancelli delle ville vicine. Forse non ha mai saputo che lo mettevo io.
Dopo ricordo la sera del 5 gennaio 1984. Ero incinta di sette mesi. Mia figlia non l’ha mai conosciuta. Turi Ragonese, che lo ha raggiunto da pochi mesi, rispose al telefono con la voce strozzata. In agenzia scelsi io le foto quella sera, le fotografie che gli aveva fatto un amico, dopo un torneo di tennis al circolo della Stampa. Stringeva in mano una coppa e rideva. Scelsi le foto da inviare all’ANSA e alle altre agenzie. Qualcuno era riuscito a rubare una foto sul tavolo dell’obitorio, ma nessuno la pubblicò.
Ricordo i funerali con poche persone. In tanti si tenevano alla larga, fuori dalla chiesa, in piazza della Guardia. Nessun politico, nessun rappresentante cittadino. Sono passati vent’anni e il dolore è uguale, e non ho voglia di scrivere di mafia, di azzardare teoremi. Vorrei soltanto dire che gli eroi morti non servono a nessuno e può sembrare vigliaccheria ma è amore. E’ solamente amore.
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