Urbino è una nuvola con un cappello in testa
Novembre era già inoltrato e su Urbino una neve leggera scendeva lieve, si posava sui volti affaticati della piazza, posizionandosi tra i piedi, incastonati nei sampietrini di piazza del rinascimento...
Novembre era già inoltrato e su Urbino una neve leggera scendeva lieve, si posava sui volti affaticati della piazza, posizionandosi tra i piedi, incastonati nei sampietrini di piazza del rinascimento. Quel fermento e quel tepore degli inizi non bastavano a contenere la sua immagine: lei camminava con aria spersa nel tragitto della piazza, con passo quasi di danza andava svelta verso via Veneto. Il suo cappello bianco, di lana pallida, rapiva i miei sensi, insieme a quel suo volto bruno che evocava chissà quale terra, ai miei occhi, così familiare. Fu una pulsazione improvvisa, un innamoramento facile, e, tra me e me speravo che quella ragazza potesse essere si, una mia compagna di corso.
Il giorno dopo si presentava a un nostro professore con la barba bianca, si scherzava con i cognomi: Parigi, Puglia, e così via, insomma c’era l’aria degli inizi, quelli che ti fanno chiedere “adesso mi darà il suo numero di telefono”, “mi avvicinerò a lei sempre di più, sempre di più”. La rincontrai un giorno dopo un incontro fatale, io avevo un libro in mano e lei mi chiedeva tutta incuriosita cosa stessi leggendo. Tanto tempo ormai è passato da quei giorni, eppure dopo una carrellata di storie, di cicchetti bevuti in un attimo e giovedì violentati dalla voglia di vivere, tornano chiare quelle prime parole scambiate, quell’immagine fulgida e annebbiata. Credevo che, in quel suo camminare spensierato come il volo di una farfalla ci fosse una breve traccia del mio destino, che nella sua sciarpetta viola ci fosse annodato una piccola parte del significato della vita da studente nella culla urbinate.
Perché in quella cerchia attorniata dal verde ci sentivamo tutti un po’ così, fuori dal mondo. E lei non credeva di poter essere una nuvola confusa in quel frammento di universo. La rividi in un’altra estate, distesa in un dondolo e questa volta era in una terra a me assai più familiare, il candore della pelle si sposava alla ribellione dei suoi sentimenti che lei sembrava una madre confusa in cerca di acchiappare questo, quello e quell’altro.
Si fece una doccia lì all’aperto tra gli ulivi e i fichi d’india e il mio pensiero si tratteneva come una voce tremante su tutto quello che un giorno avrei voluto scrivere. Chissà lei adesso come si sentirà a sapere che con quei momenti io sto inventando un regno, che è il suo profilo fugace a farmi sentire meno solo. Non mi importa, come sempre, dico che non mi importa!
Eppure lei ancora si aggira con il suo passo di danza e quel suo cappellino di lana sempre in testa, la vedo ancora andare per via Veneto, e spero che il giorno dopo, lei possa essere ancora la mia compagna di corso.
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