Università sottomessa

Un articolo di Eugenio Mazzarella

di Alberto Giovanni Biuso - lunedì 3 novembre 2025 - 481 letture

Eugenio Mazzarella ha scritto oggi un articolo dedicato all’ennesimo progetto di riforma dell’Università italiana. L’intervento è stato pubblicato su Il Fatto Quotidiano, a p. 17, con una ripresa dalla prima pagina.

Pubblico qui i file grafici dell’articolo e, per una migliore lettura, la sua versione testuale.

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«L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento». È l’attacco assertivo che non lascia margini interpretativi lesivi del suo dettato dell’art. 33 della Costituzione. Assertività che aveva le sue buone ragioni in un Paese che nel ventennio aveva subito il giuramento di fedeltà al regime, per restare in servizio. Assertività che indicava con nettezza lo strumento di questa libertà: «il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato». Limiti, disciplinanti l’attuazione dell’autonomia a tutela delle suddette libertà, che non potevano e non possono surrettiziamente far venire meno, in parte o in tutto la previsione costituzionale, a pena della loro incostituzionalità. Una previsione costituzionale rafforzata a livello comunitario dall’art. 13 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, cui aderiamo, secondo il quale «Le arti e la ricerca scientifica sono libere. . La libertà accademica è rispettata». Un quadro costituzionale e normativo che dovrebbe essere chiaro agli addetti ai lavori: Ministero dell’Università e docenti di “sostegno” alle sue iniziative legislative. Motivo per cui allarmano progetti borderline se non chiaramente lesivi della previsione costituzionale dell’art. 33 come quelli della commissione per la riforma della governance universitaria presieduta dal prof. Ernesto Galli della Loggia, che. ispirandosi ad un suo articolo del Corriere della Sera del 10 aprile (dove si lamentava dell’eccesiva autonomia degli atenei da frenare con «un po’ di competenze al tanto vilipeso potere centrale di una volta»), prevede l’obbligo per gli atenei di far sedere nel CdA un componente nominato dal ministero e due componenti scelti dagli enti locali.

Ma non finisce qui. Il Mur imporrebbe anche delle «linee generali», di cui le università dovrebbero «tenere conto» e verrebbe esteso il mandato dei rettori che passerebbe dai sei anni attuali a otto. Mandato che supererebbe anche l’incarico del presidente della Repubblica che è di sette e sarebbe secondo nell’ordinamento solo a quello dei giudici costituzionali, che è di nove, gareggiando quanto a durata probabilmente con la media ponderata dei senatori a vita. Come nota la Rete29aprile, non sarebbe neppure più previsto il limite di un mandato quadriennale rinnovabile, ma un imbarazzante plebiscito di “conferma in carica”, senza candidature alternative, a metà incarico. Insomma, il rettore «si trasforma, come scrivono, da uomo solo al comando a uomo filo-governativo solo al comando». Una trasformazione antropologica che seconda, va detto, alcune pulsioni accademiche dei vertici della categoria non raramente volenterosamente esercitate. Nel migliore dei casi, al netto dell’ipotesi già di sé ricorrente della “servitù volontaria” di Étienne La Boétie (scritta guarda caso in età da studente), si avrebbe un rettore fortemente condizionato in CdA dalla golden share del Mur, oltre che dai portatori di interessi politici locali, e dalla necessità per lui vitale, per il prosieguo della sua esistenza in vita come rettore dopo il primo quadriennio del consenso del Mur: tradotto in inglese avremmo un quadro da Trastevere consensus (dalla sede romana del Ministero); sopravvivi cioè tu e la tua università (a cominciare dal fondo premiale) sono nel quadro di questo consensus.

Non male come lesione all’art. 33 della Costituzione. E come incostituzionale estensione dei “limiti” (legalità e trasparenza) che possono imporsi all’autonomia universitaria. Per altro nella previsione della durata e delle modalità, del mandato del rettore, un pesante arretramento rispetto alla Legge Gelmini, che sul punto aveva legiferato con razionalità (mi tocca dirlo, perché ero in Commissione Cultura tra i fautori della norma) portando la carica ad un solo mandato di sei anni, e l’eleggibilità non oltre il 64°anno dei candidati.

Eliminando il “mercato” di medio termine interno all’ateneo per la riconferma dopo il primo triennio, e i percorsi da dinosauri dei rettori, che tra cambi di statuto che facevano ripartiva il computo per la rieleggibilità e la previsione che si poteva restare in servizio oltre l’età pensionabile fino termine del mandato, riuscivano a gareggiare con il rinnovo del settennato della Presidenza della Repubblica. Con la bozza della Commissione Galli della Loggia, il mercato di medio termine si svilupperebbe a livello del non più vituperabile “potere centrale”, escludendo dalla riconferma del rettore la platea legittimante la sua elezione: il corpo accademico. Confidiamo che la Bernini si confronti nel merito almeno con la Gelmini. Gelmini.

Se aggiungi poi l’inusuale missiva – con un occhio all’emergenza che rappresenterebbe negli atenei il dibattito anche solo a fini cognitivi sulla Palestina – da parte del segretario generale del Mur, Marco Mancini, dal titolo “Liberiamo le università” con l’obiettivo di «sensibilizzarli al rispetto del diritto allo studio, ovvero consentire a tutti gli studenti di partecipare alle lezioni», senza essere «subalterni ad alcuna influenza di carattere polarizzante», volgarmente di carattere politico, sembra quasi che la posta in gioco sia in sostanza “liberare l’università dalla libertà”, di ricerca e di insegnamento. Un po’ troppo, per non essere costretti a fidare fin d’ora nel “guardiano della Costituzione”: la Corte.

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