Una storia torinese
Un corso di formazione per insegnanti sulla cultura palestinese sollecita la reazione critica della comunità ebraica locale e nazionale
A pochi è sfuggito che l’assetto geo-politico internazionale è in una fase di accelerato riassestamento, di profonda rimodulazione degli equilibri di forza planetari: da un lato, la guerra russo-ucraina, che sollecita timori che sembravano sopiti di una nuova guerra nucleare, dall’altro, l’insistente offensiva dell’esercito israeliano nei territori della Striscia di Gaza, oltre che in altre porzioni del quadrante medio-orientale. Offensiva nata all’indomani del 7 ottobre 2023 e tutt’ora in atto, sempre più incisiva e massiccia, con un incremento delle vittime della pressione di fuoco dell’Idf: vittime in larghissima parte civili.
Dentro questa cornice, tra le pieghe di una società civile che non vuole risolversi ad accettare lo status quo della violenza dell’uomo contro l’uomo come metodo di affermazione di una ragione che escluda l’altra per estinzione, si colloca una vicenda locale, per certi aspetti marginale e, per altri, emblematica. Una storia torinese. Sul palco, tra i protagonisti vi è un movimento scolastico cittadino, per la precisione una rete scolastica orizzontale e informale, nata a ridosso della guerra russo-ucraina con la volontà di sottolineare – in quella come in altre guerre – un abile camuffamento, un escamotage non ignoto ai cultori della storia, ossia la magica trasformazione di una grave crisi economica internazionale nella legittimità della guerra. È la Scuola per la pace (d’ora in poi, SPP).
Da tre anni, ormai, la SPP opera, in un confronto continuo interno ed esterno alle istituzioni scolastiche, per sensibilizzare intorno al tema della pace. La drammatica situazione nella Striscia di Gaza è diventata, con il passare del tempo, uno dei temi e degli elementi di confronto e di riflessione degli aderenti alla SPP. Una “guerra” – chi scrive non condivide l’adeguatezza del termine alla tipologia di scontro in atto, a partire dall’asimmetria delle forze in campo – il cui scenario è ritenuto tra i più atroci da una parte dell’opinione pubblica, alla quale appartengono anche i docenti legati alla SPP. Al di là di altre fonti e resoconti provenienti dai più svariati ambiti (accademico, politico, associazionistico, giornalistico, esterni e interni al mondo ebraico e financo israeliano), a informare i docenti in questione sulle atrocità in quella regione sono anche testimonianze quotidiane, messaggi e foto che giungono da Gaza attraverso un Comitato di solidarietà e di sostegno di cui fanno parte diversi docenti della SPP e che denunciano come disumane le sofferenze dei gazawi.
Dunque, a fronte di una situazione ritenuta altamente drammatica per la popolazione palestinese, la SPP ha creduto opportuno avviare alcune iniziative volte a sensibilizzare, non soltanto il mondo della scuola, sul dramma in atto a Gaza, mentre continua a rivolgere la propria attenzione al fronte russo-ucraino. Il 5 giugno, ad esempio, è stata organizzata la “camminata per Gaza”, un corteo sfilato nelle vie del centro a Torino, che ha riunito scuole e famiglie. In questo stesso quadro si collocano altre due iniziative: la programmazione di un corso di aggiornamento per docenti e l’invito a rispettare un minuto di silenzio, il primo giorno di scuola, per solidarietà nei confronti degli studenti di Gaza. “Nello specchio di Gaza. La cultura palestinese e noi” è il titolo della prima iniziativa – in collaborazione con l’associazione “Scuola e società” – programmata nel corso dell’estate, lanciata a fine agosto su Facebook e svoltasi il 19 settembre presso il Liceo “Cavour” di Torino.
Tutto ciò non senza incontrare malumori, resistenze, tentativi di correggerne il tiro. Letta dall’interno della comunità ebraica locale e nazionale, la proposta didattica, avallata dal ministero dell’Istruzione – che ne ha inserito il programma sulla piattaforma ministeriale Sofia – e accolta positivamente dai docenti che hanno saturato in breve tempo i posti a disposizione, è risultata meritevole di un’attenzione particolare, fortemente critica. Ecco comparire gli altri protagonisti della vicenda torinese. Già il 29 agosto, pochi giorni dopo la pubblicizzazione dell’evento, a sollevare le prime, forti obiezioni è stato David Sorani su “Pagine ebraiche. Il portale dell’ebraismo italiano”, con un editoriale chiaro fin dal titolo: “La frottola che si fa verità e miasmo”. Sorani, già docente di filosofia e storia del liceo “Cavour”, muove da un nucleo concettuale scarno ed essenziale: una montante marea di menzogne attorno a quanto avviene a Gaza alimenta e sostiene un atavico antisemitismo, una “tenaglia antisemita” che trova fondamento, nella sua argomentazione, nell’ostracismo e nella scomunica nei confronti di attori, atleti israeliani e, per estensione, di tutto il popolo ebraico.
Un’impalcatura antisemita e dichiaratamente propal su cui, per Sorani, si regge anche l’iniziativa della SPP, il corso di formazione per docenti, che annovera, fra i partecipanti, «“personaggi” come Elena Basile e Omar Barghouti e così via». Il minimo sforzo lessicale per ottimizzare il risultato: Sorani, anziché usare un laconico «così via», avrebbe potuto citare – accanto a due relatori che, ai suoi occhi, si qualificano in negativo per le loro esperienze e i loro orientamenti – gli altri interlocutori dei docenti nella giornata di studi: ad esempio, Laura Ferrero, docente di antropologia del Medioriente e dell’Islam dell’Università di Torino o, dello stesso ateneo, Elisabetta Benigni, docente di Letteratura araba o, ancora, Roberta Denaro, docente di Lingua e Letteratura araba presso l’Università orientale di Napoli. Sarebbe stato opportuno dare conto dell’intero ventaglio di relatori e di precisare che l’iniziativa della SPP intendeva sollecitare una riflessione sui caratteri fondanti del “nostro” mondo attraverso lo sguardo degli altri, lo specchio di Gaza, appunto, rinvenendone tratti magari urticanti, ma utili per una maggiore consapevolezza dei difficili, complessi e violenti rapporti su cui si basano gli equilibri di forza planetari. Tratti che, con una parola, possono definirsi colonialisti.
Noi, dunque. E loro, i palestinesi, perché l’altro obiettivo del corso era quello di fare affiorare i tratti culturali specifici di questo popolo, dimenticati per decenni, ignorati, in buona e in cattiva fede. Ma l’editorialista opina anche sul fatto che i contenuti veicolati dal corso avrebbero potuto costituire un qualsiasi bagaglio culturale per i partecipanti: non di questo si tratta, ma di «militanza ideologica e di propaganda politica sfacciatamente spacciate per cultura». Al di là di ogni altra considerazione, è interessante vedersi intrufolare nel discorso critico un’espressione, “ideologica”, che torna in altre prese di posizione del mondo ebraico nazionale e locale e che meriterà, più avanti, un minimo di riflessione. Due articoli del 17 settembre – a ridosso della giornata di formazione – a firma di Chiara Sandrucci (“Corriere della Sera”) e di Cristina Palazzo (“La Repubblica”), informano, infatti, che, con una lettera datata 1° settembre all’Ufficio scolastico regionale del Piemonte e, per conoscenza, al ministro dell’Istruzione, Valditara, i presidenti dell’Unione delle comunità ebraiche italiane (UCEI) e della Comunità ebraica di Torino hanno espresso profonda preoccupazione per un’iniziativa «improntata a una visione dichiaratamente unilaterale e priva di contraddittorio» (Sandrucci). Un corso definito «fortemente ideologizzato e politicizzato a senso unico», di cui si chiedeva la sospensione, «fortemente auspicabile», o dei «correttivi», al fine di non violare i principi di equilibrio, correttezza e neutralità dell’istituzione scolastica (Palazzo).
Peraltro, l’UCEI aveva già manifestato un profondo disappunto in occasione della richiesta del minuto di silenzio nel primo giorno di scuola. “Appello per una scuola responsabile, inclusiva e pluralista” è il documento prodotto dall’Unione delle comunità ebraiche italiane per affermare come quel minuto di silenzio, dedicato a Gaza, dimenticava altre tragedie, inclusa quella del 7 ottobre 2023, e avrebbe compresso il pluralismo, banalizzato lo scontro in atto, polarizzato le coscienze, traducendo «una crisi geopolitica complessa e dolorosa in una visione ideologizzata, pericolosamente polarizzante».
Vale la pena, ora, fermarsi un attimo ed enucleare alcuni punti critici della questione. In primo luogo, l’ingerenza dell’UCEI sulla libertà di insegnamento. Chiedere la soppressione di un corso di formazione, la cui adesione è volontaria, lasciata alla coscienza dei singoli insegnanti, è un atto brutale, a meno che non si pensi che la libertà di insegnamento debba muoversi su canali precostituiti, costruiti ad hoc da un qualche comitato di saggi, afferenti a un iperuranico mondo neutrale e non ideologico. Questo è il secondo aspetto della questione. È noto da decenni che, per squalificare un orientamento o una visione del mondo o della realtà, è sufficiente usare, connotandola negativamente, l’espressione “ideologia”. Parafrasando Baudelaire, la più grande astuzia degli ideologi è stata quella di far credere che l’ideologia sia un cancro e vada, dunque, debellata. Viene da domandarsi per quale ragione l’ideologia così intesa – ossia l’impurità delle idee, fattesi partigiane e portatrici di danni apocalittici – sia il vessillo definitivo per affossare una posizione, quella dell’altro, proprio da coloro i quali ne sono affetti e animati. Ad esempio, chissà perché mai Nurit Peled-Elhanan – docente emerita di Lingua e Pedagogia presso l’Università ebraica di Gerusalemme, premio Sacharov nel 2001 per la libertà di pensiero – ha titolato un suo interessante volume “La Palestina nei testi scolastici di Israele. Ideologia e propaganda nell’istruzione” (ed. originale 2012)? La complessa galassia ebraica è priva di ideologia? Ideologico – nella sua accezione spregiativa e squalificante – è tutto ciò che si discosta da una declinazione dell’ebraismo ad altissimo livello ideologico, ossia il sionismo? Sarebbe ora di affrontare con un minimo di onestà il problema delle ideologie, non nascondendole, né, soprattutto, arrogandosi il diritto di veicolarle sotto falsa forma, magari la neutralità o l’equilibrio richiamati dall’UCEI.
Quale neutralità? Quella apparentemente oggettiva della data del 7 ottobre 2023, scelta come momento discriminante per stabilire torti e ragioni, ignorando, manchevolmente, che ci sono fatti pregressi, drammatici e silenziati per anni, per decenni? Scegliere una data, anziché un’altra, è un fatto politico, non neutrale, non oggettivo, ma analiticamente connotato, che ordina e suggerisce una lettura e una valutazione anziché un’altra. Quale equilibrio? Forse, quello che anima i corsi di formazione scolastica sulla Resistenza, ai quali, per assecondare le istanze dell’UCEI sulla necessità del contraddittorio, bisognerebbe far partecipare i sostenitori o i nostalgici della Repubblica sociale italiana. Si conosce la complessità del tema resistenziale, se ne conoscono correzioni e revisionismi, riletture e distinguo, ma assumere un punto di vista privilegiato o univoco non è un esercizio che appartenga alla SPP più di quanto non appartenga alle istituzioni culturali ebraiche i cui corsi di aggiornamento o di perfezionamento non pare presentino contradditori là dove sono orientati all’approfondimento di una cultura specifica.
È chiaro che non esistono processi storici semplici, che il manicheismo è sempre una forzatura. Ma non si capisce perché un corso di formazione sulla Palestina porti impresso in sé il marchio “anti”, perché debba rappresentare l’alchemico alambicco che trasforma i contenuti in odio antisemita. Se dobbiamo ritenere così sprovveduti i docenti partecipanti a quell’iniziativa, al punto da farsi ammorbare senza resistenza critica dai presunti miasmi ideologici del corso, allora varrà la pena ripensare alla scuola, ai meccanismi di selezione degli insegnanti, al portato culturale complessivo della società. Perché la società è animata da dibattiti, che attraversano le stanze ministeriali, i parlamenti, i caffè, e anche le scuole, nelle quali vivono docenti che a quel corso non hanno preso parte, perché non l’hanno sentito vicino, affine, contiguo al loro modo di pensare e di valutare la realtà in atto. Non risultano atti di costrizione perché questi ultimi si iscrivessero al corso. Sarebbe auspicabile che non ci fossero pressioni per evitare, a chi lo ritiene opportuno, di partecipare a iniziative consimili.
Si configura, sinistramente, l’ombra della censura preventiva, tema planetario e non solo locale, nell’epoca dei dogmi trasvestiti da neutralità, della prevaricazione camuffata da sicurezza, della guerra come risoluzione esclusiva delle tensioni. Dentro questo mondo sospeso e impaurito, la SPP ha, forse, una valenza ideologica, che ne caratterizza il nome, ossia “pace”. Pacifismo, non antisemitismo. Può sembrare strano, ma assumere il punto di vista palestinese, potrebbe non significare metabolizzare risorgenti furori antisemiti, potrebbe non significare desiderare – come ha scritto l’UCEI nell’appello contro il minuto di silenzio - «la cancellazione dello Stato di Israele». Perché chi rifugge le soluzioni facili dei “buoni” e dei “cattivi”, potrebbe anche comprendere che essere “pro” non comporta l’automatica attivazione del “contro”. E, anche, che chi partecipa a un corso di quel tipo continua a insegnare e a ricordare altri orrori, dallo sterminio armeno alla Shoah. Tutti gli orrori non negati.
Forse, varrebbe la pena allargare un attimo lo sguardo dalla prospettiva ebraicocentrica – animata da timori comprensibili – e portarlo su un quadro più ampio. Se si uscisse dalla logica regionale e dalla difesa del “gruppo”, risulterebbe più chiaro che il richiamo al dramma in atto a Gaza e la sottolineatura dell’approccio muscolare israeliano alle tensioni nella regione non sono originati da un ancestrale odio antisemita, ma da un altro sentimento, ben più profondo, non etnico, non regionale, non parziale. Ci si riferisce al timore e all’orrore dinanzi alla cultura bellica che sta diventando ogni giorno più incombente e minacciosa, ai venti di guerra che soffiano fuori e dentro le scuole, come racconta, in particolare, l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università. La partita in gioco non è legata agli interessi di una parte, come risulta chiaro dalle svariate iniziative della SPP. È la guerra come cifra e postura delle civiltà che viene condannata, rigettata, rifiutata. Quella combattuta dall’Idf, quelle che vengono prospettate come prossime. I droni hanno preso il posto degli aquiloni nei cieli di questo pianeta. È contro l’imbarbarimento dei cieli – il luogo simbolico dei sogni – e dei popoli che si sta muovendo una parte della società civile. Con essa, la SPP e le sue iniziative.
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