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Una giornata al Cozzo Corvo

Un maestro all’antica. La poliedrica attività di un capo banda.

di Antonio Carollo - mercoledì 13 giugno 2007 - 4217 letture

Prima tappa la Favara, la piazza intitolata ai Principi Lanza di Trabia. con abbeveratoio e palco. Sulla destra, lato mare, vi era il palco,una grande terrazza di cemento, rialzata rispetto al piano della strada, con balaustrate in stile barocco. Vi si accedeva da due brevi scalinate. Era il posto mitico dove ogni mattina, noi alunni della classe quarta della scuola elementare dalle otto alle otto e mezza, prima della campanella, giocavamo a ’campo e sfida’. Io, insieme al mio compagno Nino Di Vittorio, eravamo le star di quel gioco ed eravamo molto contesi dalle due squadre che ogni mattina scendevano in campo; Quasi sempre giocavamo l’uno contro l’altro. ’Campo e sfida’ era un gioco di velocità e di abilità perché si doveva arrivare primi sul campo avverso senza farsi bloccare dall’avversario che partiva in contemporanea dalla linea opposta. Chi perdeva era preso prigioniero e andava a mettersi nello spazio riservato ai prigionieri. Dopo di che bisognava liberare quanto più prigionieri possibile, lottando contro gli avversari. Non ricordo di essere stato mai fatto prigioniero; neanche Nino. Alle otto e mezza ci aspettava la scuola. Dovevamo essere puntuali. Il bidello suonava energicamente una campanella. Il gioco s’interrompeva subito e tutti di corsa, con i libri stretti da un tirante di gomma, correvamo verso la scuola. Una volta seduti il bidello scorreva con gli occhi le file dei banchi per controllare la situazione: tutti zitti e fermi; altrimenti erano guai. Dopo cinque minuti arrivava il maestro Gattuccio, in completo grigio,gilet, orologio, cravatta e scialle buttato sulle spalle. Il viso scavato (alla Eduardo De Filippo da vecchio), lo sguardo cupo; saliva in cattedra, si sfilava l’orologio dalla tasca del gilet e lo posava sul tavolo. Il bidello, riguardoso, si avvicinava alla cattedra e gli diceva: “Tutto a posto, maestro”. “Bene, vai Vicé”. Se il maestro si si arrabbiava erano dolori per tutti. Teneva sul tavolo una specie di piccola sbarra di legno tratta dalla spalliera di qualche vecchia sedia. In caso di infrazione chiamava il malcapitato, gli faceva appoggiare la mano aperta sul tavolo e giù colpi violenti e calibrati. La palma della mano bruciava come fuoco. Il campione di marachelle e di punizioni era un compagno di nome Totò, detto ’ Saccu di vastuna’ (Sacco di bastonate). Certe volte prendeva anche dieci-quindici colpi, come se nulla fosse; rientrava al suo posto tranquillo, ostentando indifferenza. Una volta successe il finimondo. ’Saccu di vastuna’ stese la mano accanto all’orologio del maestro, che quel mattino era particolarmente nervoso: entrando in classe aveva brontolato ad alta voce contro la sua donna di servizio, Cecchina, una donna sessantenne completamente schiavizzata, che gli aggiustava lo scialle fin sulla soglia di casa, accanto alla scuola. Il maestro, nervoso com’era, alzò la sbarra e la calò con forza; senonché ’Saccu di vastuna’ istintivamente la ritirò; il colpo, impreciso per la concitazione del maestro, finì sull’orologio mandando in frantumi il vetro e facendogli altri danni. ’Saccu di vastuna’ scappò nascondendosi sotto l’ultimo banco. Il maestro ballava come una molla, paonazzo in viso, inveendo e strillando come un vecchio gallo. Noi eravamo morti dalle risa. Mise a tutti zero in condotta e per una settimana ci riempì paurosamente di compiti a casa. Adesso, passando davanti la scuola chiusa, mi venne spontaneo “Tié, maistru Gattuccio, la scuola è finuta e non mi puoi fari cchiu nenti”. Dall’altro lato della strada, su un piano più basso, c’era l’abbeveratoio, una lunghissima vasca con una ventina di cannoli che vi rovesciavano un mare d’acqua. La vasca era quasi sotto un costone altissimo di montagna. Accanto c’era lo stabile di una elettropompa sempre in funzione, giorno e notte, che sollevava l’acqua in cima alla montagna, in una grande cisterna coperta, da cui partiva l’acquedotto che riforniva tutto il paese. La sorgente ai piedi della montagna era ricchissima d’acqua. Oltre che a soddisfare le esigenze delle abitazioni, essa serviva per l’irrigazione dei giardini lungo la pianura che da Trabia si estende fino a San Nicola, tra ferrovia e mare. Un grosso condotto scoperto, in muratura (’u cunnuttu), correva a fianco della ferrovia. A capo di ogni tenuta di ’giardini’ (frutteti ed orti) c’era un buco con saracinesca sulla parete del condotto, dal quale s’irrigava a turno. Un corpo di guardiani controllava il rispetto dei turni; in sette giorni si irrigavano tutti i giardini e si ricominciava da capo. A volte qualche pirata d’acqua di notte apriva la saracinesca fuori vicenna (turno) per rinfrescare qualche suo orto. Difficilmente però la faceva franca perché veniva denunciato all’associazione dei giardinieri (proprietari dei giardini) subendo un formale biasimo e sanzioni in denaro. Uno dei guardiani era un cugino di mio padre, anch’egli giardiniere, ziu Giò: di media statura, gioviale e pronto alla battuta; portava in testa un berretto perlomeno della guerra del ’15, in mano una trombetta che faceva risuonare energicamente ad ogni tenuta per avvisare della vicenna i giardinieri interessati ad abbeverare il loro jardinu. Oltre che jardinaru e guardiano dell’acqua, ziu Giò era noto in paese perché capo della banda musicale e capo di un’orchestrina che suonava nei matrimoni, nei battesimi e per carnevale. Per decenni insegnò ai ragazzi di Trabia a suonare uno strumento, arruolandoli, se bravi, nella banda e qualche volta nell’orchestrina. Durante le feste del paese, Festa ’o Signuri, Dell’Immacolata, del S. Natale, di San Giuseppe, di Pasqua, della Madonna delle Grazie, la banda in divisa di gala, sfilava per Corso La Masa, perfettamente intonata. Ziu Giò, stava sempre un passo avanti suonando il clarino e girandosi indietro di tanto in tanto per aggiustare qualche disarmonia e per dare infine gli ordini di stop. Se mi vedeva in mezzo ai bambini imbambolati a guardare, o tra la gente che in allegria seguiva la banda, mi sorrideva, smetteva un attimo di suonare e mi salutava agitando la mano. A me la musica piaceva molto. Però, peccato: non avevo alcuna inclinazione a suonare Diedi uno strappetto alla redine di sinistra per far deviare Cicciu verso la discesina che portava all’abbeveratoio. Giuntovi, con un salto fui a terra. Cicciu già beveva tranquillamente. I cannoli versavano acqua a pieno regime. Mi bagnai le mani provando con piacere la sensazione di quell’acqua fresca appena sgorgata dalle radici della montagna. A Trabia quando si voleva indicare quest’acqua, oltre che Favara, si diceva ’acqua l’oru’ (acqua dell’oro). Infatti era conosciuta e invidiata da tutta la Sicilia. Acqua dell’oro in quanto fonte principale di ricchezza per il paese. Grazie a lei Trabia vantava una produzione agricola di prim’ordine. La frutta di Trabia andava nei maggiori mercati ortofrutticoli del Nord. Mezza Palermo si riforniva di frutta e d’olio nel nostro paese. Con la mano cominciai a bagnare la faccia a Cicciu, come vedevo fare a mio padre. Le manate d’acqua gli erano gradite, ma non voleva che gli bagnassi gli occhi; cosi scuoteva la testa e cercava di allontanarla. Io insistevo perché proprio le ciglia degli occhi avevano più bisogno di pulizia. Smisi e chiamai Gemma che stava accucciata sotto il carretto; si alzò; mi chinai e la presi per una zampa. La portai sull’orlo della vasca e lavai ben bene la faccia anche a lei, tenendola stretta per il collare. Un po’ si dimenò, ma la tenevo per bene e finii l’operazione. I carrettieri in fila all’abbeveratoio, mentre le loro bestie bevevano, mi guardavano divertiti. Qualcuno mi disse: “Bravu, Ntuniuzzu!”. Cercai di issarmi sul carretto: non era tanto facile; dovevo fare un bel saltello o appoggiare un piede su un raggio della ruota. Ripresi le redini e via, dietro la carovana degli altri carretti, che nel frattempo si era adunata. Davanti alla Chiesa di Santa Oliva mi feci il segno della croce, come sempre mi faceva fare la mamma. Attraversammo la porta delle antiche mura rivolta a Palermo, o, meglio, quel che rimaneva di quell’antico monumento, dopo che gli americani, per allargarla e farvi passare i carri armati, l’avevano demolita a colpi di bazooka o a cannonate, facendo crollare il suo pregevole arco. Dopo il passaggio a livello, che per fortuna era aperto, mi si spalancò l’immenso panorama dei giardini, delle colline, delle spiagge, del mare fino alle Torri saracene, a Porticello e al Capo Zafferano.

(3-continua)


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