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Una cartolina dalla vita di Rosa

"L’amore che ho" film regia di Paolo Licata, con Donatella Finocchiaro e Lucia Sardo, e il contributo canoro di Carmen Consoli. - produzione Dea Film e Moonlight, con il contributo della Sicilia Film Commission. - dall’8 maggio 2025 nelle sale cinematografiche.

di Sergej - mercoledì 28 maggio 2025 - 944 letture

Rosa nìura, mariuola e fitenti, Rosa a pazza, Rosa ca grida strepita si stinnicchia, Rosa ca rici parolazzi, Rosa sopra le righe (come si diceva un tempo) e che GRIDA IN MAIUSCOLETTO (come si dice oggi), Rosa malagrazia, Rosa disgrazia, Rosa malafimmina, Rosa vistuta sgargianti, Rosa eccessiva. Quando cantava aveva la voce roca e sguaiata di chi non sa stare al suo posto ma travalica, eccede, si fa male, cade, ricade scomposta. La vita di Rosa Balistreri, cantante e autrice di musiche e testi, recuperatrice delle sonorità della “tradizione” (che si sa, per avere effetto cioè per riattivarsi, deve tradire). Quasi una generazione prima di Gabriella Ferri: Balistreri nata nel 1927 a Licata (morta nel 1990), Ferri nel 1942 a Roma (morta nel 2004). Per entrambe una vita tragica, una mala sorte e una mala morte. E un amore immenso per la propria terra e la propria gente.

Sulla vita di Balistreri ora un bel film, diretto da Paolo Licata: si intitola “L’amore che ho” ed è un film da andare a vedere. Bravissime intanto le interpreti: ad iniziare da quelle principali. Lucia Sardo qui è ai massimi della sua intensità. Ma brave anche Donatella Finocchiaro, Anita Pomario (brava!) e Carmen Consoli “cantantessa” che da anni promuove nelle sue cantate una delle voci più intense della storia musicale dell’isola. La sceneggiatura è opera di Paolo Licata, Maurizio Quagliana, Antonio Guadalupi, Heidrun Schleef, utilizzano per bene i flashback - all’origine c’è “L’amuri ca v’haiu” di Luca Torregrossa (il nipote di Rosa Balistreri). Il film poteva essere una “cacata pazzesca” e invece riesce a non scadere. I personaggi maschili sono tutti negativi, infimi, sgradevoli, piccoli omiciattoli che si esprimono per grugniti o con il coltello. O sono fantasmi eterei, come Guttuso, Dario Fo o Camilleri.

Balistreri capitò in un momento particolare della storia politica e musicale italiana. Flussi sorgenti di progresso e libertarie cercavano di farsi strada nell’egemonia culturale della destra cattolica e maccartista. La ricerca musicale si volse all’epoca anche al recupero della tradizione folklorica, quel mondo che si cercava romanticamente incontaminato dal capitalismo (Pasolini, come ricordate, ne parlava) e in cui magari ritrovare la forza di una resistenza culturale all’omologazione consumistica. Contro la musica dei supermercati, la musica dei “dischi del sole” (come si intitolava una collana importante, dell’epoca), le ricerche di De Martino e Antonino Uccello, fino a quella “Canzonissima” del 1968 in cui il folk fu la “novità”: in cui ci fu “Ho visto un re” di Jannacci e Dario Fo (ma non alla finalissima, che la RAI intervenne a censurare); mentre a Sanremo non ci fu Rosa Balistreri, fermata anche lei perché ritenuta “non in linea” con l’Italia piccolo-borghese e cattolica del tempo. Lo spiraglio che riuscì a portare Rosa Balistreri all’attenzione collettiva fu stretto, e fu subito richiuso. La voce “sgraziata” di Rosa Balistreri (Nina Simone siciliana più che Janis Joplin) e i suoi contadini impudichi e scostumati non potevano essere tollerati dal “salotto buono” di cartapesta. Poi la storia, come una palla impazzita, attraversò altri tempi: la crisi petrolifera, il terrorismo, i colpi di Stato, le ristrutturazioni. Il mondo cambiò più e più volte, e anche adesso sta cambiando.

Rosa la guitta, Rosa l’imperdonabile, Rosa la schifosa, Rosa la sciantosa del popolo, Rosa la maschiaccia e Rosa che puzza di prigione, Rosa fresca e aulentissima (questa è facile), Rosa chi bellu nomu mamma a te t’ha misu / t’ha misu u nomu bellu di li rosi / lu megghiu ciuri di lu paradisu... questa sarà in "Mokarta" dei Kunsertu gruppo nato nello stesso nido culturale da cui nasce Carmen Consoli - diverse generazioni dopo quella di Balistreri. La vita di Rosa in questo "biopic" (come vengono chiamati oggi i film biografici) si svolge attraverso "scene" o flash, tessere di un mosaico. Gli antichi cantastorie avevano alle proprie spalle un arazzo su cui erano disegnate le "scene" o quadri. Ogni quadro veniva "cantato" cuntato indicato e decompresso al pubblico: è anche una delle scene di questo film quando Rosa (Lucia Sardo) "spiega" la propria vita cantandola alla figlia: il canto / il cunto l’unico strumento di comunicazione che lei conosce per tentare di ritessere un rapporto, un collegamento, con la propria figlia. Nella realtà la nostra stessa vita è un puzzle che cerchiamo di mettere assieme e che non riusciremo mai a completare, non ci saranno mai pezzi sufficienti o quello che avremo non si adatteranno mai all’incastro. Nel film Balistreri tiene strette in una scatola di metallo i pezzi della propria vita, alcune fotografie sopravvissute al naufragio del tempo. I film come questo su Balistreri sono come queste tessere del ricordo, con cui proviamo a ricomporre un presente che si sgretola mentre ne parliamo.

“L’amore che ho” va visto, per ora nei cinema, poi tra non molto in streaming. Per Rosa (Balistreri), per Lucia (Sardo), per Carmen (Consoli) e per tutti noi, “maschi femmine e cantanti”. Non sono solo canzonette. È la vita delle persone, la nostra vita.


Sulla vita di Rosa Balistreri, si legga la “voce” su Enciclopedia delle donne e su Wikipedia.



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