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Tropic: due insetti abbagliati dalla nostra era

L’ultima produzione di Giacomo Bernocchi, artista trentunenne di origini pratesi, si chiama ‘Tropic’ ed è un lavoro di coreografia nuda e cruda, andato in scena a Prato

di Ivan Carozzi - sabato 11 giugno 2005 - 6564 letture

Fred Astaire, con il suo sorriso beato, il frac nero e il tacco delle scarpe modificato, affermava che ‘ballare è un duro lavoro, ci vuole tempo per eseguire correttamente un ballo e creare qualcosa di memorabile’. L’ultima produzione di Giacomo Bernocchi, artista trentunenne di origini pratesi, si chiama ‘Tropic’ ed è un lavoro di coreografia nuda e cruda, andato in scena a Prato per una settimana di fila nell’arco della manifestazione ‘Contemporanea Festival’.

Due giovanissimi ballerini (Sebastianne Chavèe e Daniele Cervino, in tuta e scarpe da ginnastica), le pulsazioni on/off di una luce strobo e stop, niente scenografia e soprattutto niente musica, se non il sordo battito meccanico che arriva dalla scatoletta nera della lampada stroboscopica. I due coreuti, come freccette che pattinano su di un desktop, attraversano in lungo e largo uno degli spazi degli Ex Macelli, gli stanzoni dove ha avuto sede il ‘Contemporanea Festival’. Si allontanano l’uno dall’altro, si danno le spalle, a volte ignorandosi, a volte come in una sorta di sfida, poi si riallineano, proprio davanti al pubblico, si afferrano i testicoli e ruotano di scatto la testa nelle opposte direzioni.

L’esibizione ricorda una sorta di ‘best of’ del balletto televisivo e non degli ultimi vent’anni. Da Heather Parisi fino alle veline di Striscia, ma passando anche per ‘Footlose’, ‘Fame’, l’hip-hop, le coreografie di Enzo Paolo Turci e quelle di Garrison Laroche di ‘Amici’, con un occhio particolare al passo più celebre di Michael Jackson (se si esclude il seminale Moonwalk), quello della mano destra che stringe i testicoli e dell’altra mano, la sinistra, che punta verso l’alto in un segno di statuaria esultanza molto anni ‘80. Proprio come nell’enorme scultura che aveva seguito Jackson nel tour di ‘Off the wall’. A tratti i due ballerini ricordano anche le figurine di Keith Haring, con le loro movenze robotiche, le linee dinamiche che contornano il corpo a suggerire il movimento e la vibrazione dei muscoli, come se i due avessero preso vita e si fossero staccati dall’intonaco di una parete dipinta a graffito.

Insomma, un linguaggio del corpo di estrema sofisticazione, di fattura quasi geroglifica, che sembrerebbe parlarci di vita e quotidianità nell’emisfero occidentale all’inizio del terzo millennio. Abbiamo incontrato Giacomo Bernocchi e gli abbiamo chiesto di spiegarci il senso di questo suo ultimo lavoro, anche perché ‘Tropic’ (che fa parte di un progetto più ampio chiamato ‘Pure Show Technology’), è un lavoro altamente astratto, stilizzato, che evoca un immaginario, è vero, delle reminescenze, ma che privato com’è di una base musicale, tutta questa materia proustiana di memorie e deja vu televisivi viene come volatilizzata su di un piano di senso più rarefatto e quasi fantasmatico.

Innanzitutto, raccontaci brevemente il tuo percorso d’artista.

Sono stato iscritto a Medicina e Chirurgia, poi a Filosofia dove mi sono laureato con una tesi sulle forme di negazione nell’arte. Guardo allo spettacolo dal vivo come autodidatta e sono interessato al problema fondamentale della rappresentazione. I miei primi due spettacoli, “Novalis” e “Narciso set” realizzati con l’Ass. Cult. ‘Anonimascena’, parlavano di mitologia classica e di alterazione dei rapporti percettivi nel consumo dello spettacolo sia dal punto di vista dell’attore che da quello dello spettatore. In “Novalis” un unico spettatore seguiva lo spettacolo su di una poltrona girevole azionata a distanza. Intorno a lui, circolarmente, era disposto l’apparato iconografico. In “Narciso set”, invece, la scena era nascosta e rimandata attraverso due proiezioni video identiche se pure asincrone. Con “tropic” per me si inaugura un nuovo ciclo di lavoro, più legato ai segni dell’oggi dall’oggi.

Da dove è nata l’idea di ‘Tropic’?

Volevo lavorare sulla musica, sul ritmo e sul ballo come forme riconoscibili di codice. Inizialmente ho realizzato cinque a soli con due ballerini, una sorta di ep performativo sul modello dell’ep discografico classico: cinque tracce senza titolo. Tropic dura dodici minuti, esattamente, sempre. E’ un duetto di danza profondamente popolare e ironico. C’è ironia sia nella decontestualizzazione della scena che nella serietà dei giovani volti dei due ballerini. Dalla “street culture” a M. Jackson, dalla critica politica alla pop art. Tropic è come una teca con due insetti abbagliati e impazziti. Ma è anche un esperimento futurista sulla scomposizione del movimento. E’ una danza tragica. Per me tropic è trans-estetico.

Insieme ad altre suggestioni, Tropic sembra riferirsi ad un momento del costume televisivo, del varietà etc. Un immaginario barocco e cotonato, in definitiva, che forse hai voluto spogliare di qualcosa, sottraendovi l’elemento musicale...

Penso che sia riduttivo il riferimento alla tv, che pure c’è, inevitabilmente. E’ vero, è pop culture. Ma non trovo Tropic cotonato, penso che piuttosto abbia un’anima violenta, punk... I due danzatori sono accecati dalla stroboscopica e, realmente, non vedono niente. Sono costretti a sviluppare una sorta di sesto senso, di controllo estremo sui tempi. Il ritmo è incalzante e gli stili di ballo sono molteplici, anche se in alcuni momenti non sono riconducibili a nessun modello preciso. La musica non l’abbiamo mai usata, nemmeno in prova, perché non è mai stata necessaria e avrebbe portato fuori strada il lavoro sul movimento e sul ritmo. Comunque sia, potresti provare a metterci sotto anche Wagner e a vedere cosa ne salta fuori. L’eccezionalità e la violenza della luce, il vuoto dello spazio, la serietà, anzi la neutralità dei due ballerini, mostrano un laboratorio scientifico dove si sperimentano codici di comportamento, forme di costume.

La notazione, cioè la costruzione preliminare dello schema e del disegno coreografico, è uno dei problemi fondamentali della coreografia. Tu, nel tuo caso, come ti sei regolato?

Tropic ha una coreografia precisa ed è stata la mia prima avventura coreografica. La coreografia di Tropic è stata scritta insieme a Samuele Cardini, che mi ha aiutato soprattutto nel rapporto con i danzatori e nella definizione delle parti più tecniche. Io non sono un danzatore, ne deriva che ho un rapporto molto istintivo col movimento e col ballo in particolare.

Quali sono i prossimi progetti di ‘Pure Show Technology’?

Pure Show Tecnology è un contenitore per collaborazioni artistiche e un progetto non lineare di sperimentazione audio-visiva in ambito performativo. Vorrei continuare a lavorare alla creazione di tracce brevi, ma dense, dove tutto si sviluppa e si consuma in poco tempo. Tracce che utilizzano segni riconoscibili e che parlano di questa era.


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