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Tre gradini più giù, a Francofonte

"La bellezza delle cose esiste nelle menti di chi osserva" (D. Hume, Ricerca sull’intelletto umano)

"Contro la stupidità gli stessi dèi lottano invano" (F. Schiller, La pulzella d’Orléans)

di Giuseppe Tramontana - martedì 5 gennaio 2010 - 6150 letture

Tre gradini non sono molti. Oppure sì. Dipende. Dipende da ciò che c’è in cima e da cosa ti porti dietro. Dipende da cosa devi raggiungere e da cosa ti stai lasciando alle spalle. Dipende, appunto. A me, i gradini della scuola elementare “Dante Alighieri” di Francofonte non hanno mai dato fastidio. Tutt’altro. Tre gradini, parte di una vita, si potrebbe chiosare. Qualcuno ha deciso, però, che le cose non andavano bene così. Tutto o quasi da rifare, allora. E siccome quando c’è da rifare, non ci si tira mai indietro, si è rialzata tutta la piazza antistante la scuola. Giusto per cancellare quei tre fastidiosissimi gradini. E c’è della coerenza in tutto ciò: in un posto in cui non deve esistere un centro di aggregazione sociale, un luogo di ritrovo e confronto, perché mai mantenere quei gradini che, bene o male, sono stati, per anni e per molti di noi, lo spontaneo sostituto ai punti d’incontro, l’alternativa proletaria ai salotti buoni?

Quei tre gradini oggi mancanti, quei sessanta centimetri scarsi di basalto nero, siamo noi, abbandonati stancamente nella risacca dell’ombra sottile nei cocenti giorni di luglio. Pellegrinaggio ed estasi. Sudore e sollievo. E chiacchiere. Chiacchiere frivole o stracche, sapide, sonnolente, irriverenti, scheggiate dall’ira, smerigliate dalla persuasione. Quei tre gradini sono i nostri cazzeggi senza fine, senza fini, senza gloria. Sono il divano della nostra giovinezza inesperta, spalle appoggiate alla porta della scuola, sguardi fissi ad un futuro incerto, appollaiati come pappagalli sui trespoli. E parole, parole. Parole ormai dimenticate, estorte alla memoria, smozzicate dal tempo, annerite dalla fuliggine delle preoccupazioni dell’età matura. In bilico tra spudoratezza e riserbo. Eliminare quei tre livelli di pietra lavica levigata è come aver voluto azzerare parte della nostra memoria, cancellare un segmento (il più delicato) della nostra giovinezza. Qualcuno ha deliberato di amputarci di parte dei visi conosciuti, dei discorsi e dei pensieri su cui ci siamo affannati, dei sogni cullati. Di parte della nostra grama vita francofontese. Senza indugiare in facili metafore, la misura dello sprofondamento della piazza è direttamente proporzionale a quanto l’ignavia morale e culturale ha ingurgitato della memoria collettiva del paese.

E sui gradini c’eravamo, ci siamo noi. C’era Giuseppe, Giuseppe Carnibella. Oggi graduato dell’aeronautica militare. Era juventino, Peppe. Calmo, riflessivo, si presentava alternativamente con la Repubblica o la Gazzetta. Era scurissimo di carnagione. E quando rideva, il nitore dei denti spiccava su quell’incarnato da mozarabo come una fresca fetta di noce di cocco. Quasi taciturno, raramente partecipava alle diatribe che si scatenavano quotidianamente contro la dittatura della Juve. Ché di altre dittature non ci si occupava, ma di quella sì. Della dittatura della Juve di Trapattoni, sì. Probabilmente pensava, Peppe, che le ragioni pro domo sua stessero nelle cose e che fosse inutile contrapporre discorsi e passioni alle nostre invidiose, livide invettive antibianconere. Bisognava farci cuocere nel nostro brodo. Sorrideva blandamente, interveniva poco. Ma quando lo faceva, le sue erano sempre parole pesate, piazzate al posto giusto al momento giusto, come un carico gelosamente custodito durante una partita a briscola o a scopone scientifico. Oggi, che le posizioni di dominio calcistico si sono rovesciate, sono io a comportarmi così, assaporando il gusto dolciastro e inattaccabile dell’invincibilità. Nulla è per sempre, così svanisce la gloria del mondo…

Anche Vito era juventino. Ma di un’altra tempra. Alto, altissimo, con gambe affusolate da atleta, veniva in bici, almeno in estate. Una bici azzurra da corsa. Raramente, però, ci saliva. Solo per andarsene via. Più spesso se la trascinava dietro, semplicemente. Ma quando ci stava su, appariva troppo piccola per lui, un enorme trampoliere a cavallo di un’affusolata faina. Vito, al contrario di Peppe, nella polemica era feroce. Gesticolava, insultava, imprecava, s’incazzava davvero. E mandava tutti affanculo. Noi lo stuzzicavamo apposta. E lui immancabilmente finiva per cadere nella trappola. All’inizio – e per un po’ – taceva. Apparentemente disinteressato. Probabilmente con l’intenzione di resistere, di non abboccare alla provocazione. Poi, però, perdeva il controllo. Dimenticava i buoni propositi, si scordava di essere paziente e, patatrac!, ecco che sbottava, inveiva, mandava al diavolo. Nel momento più aspro dello scontro, cominciava persino a balbettare, come se le parole non riuscissero a star dietro alle idee, ai pensieri, alla foga.

In cima all’ultimo di quei gradini, una volta che mi fece proprio imbestialire, sbattei un gelato in faccia a quel rompipalle di Gaetano Farfaglio. Il cugino più piccolo, però. L’altro, omonimo, che era un armadio a quattro ante e che ti faceva paura solo a sentirlo respirare, era meglio non contrariarlo. Quella volta, invece, me la presi con quel rompicoglioni del cugino piccolo. Piccolo rispetto all’altro Gaetano, ma pur sempre mio coetaneo. Era quello che sapeva sempre tutto lui e pretendeva pure di essere ascoltato. Bene, un gelato in piena faccia. Diretto. Cioccolato e pistacchio. Purtroppo, appena cominciato. Diritto sul naso, su quella faccia di merda arrogante.

Da lì scrutavamo, soprattutto nei giorni di festa, le ragazze passare. E passavano, passiàvano, passeggiavano. Proprio lì davanti a noi. Ci sentivamo dei marajà, dei sultani, che so… Le guardavamo, taliavàmo, con occhio apparentemente distratto, ma attento, indagatore. E commentavamo le gambe di questa e il culo di quella, la minigonna della tizia e la scollatura di caia, piuttosto che lo spacco della bionda o le tette ballonzolanti della riccia… Discorsi vacui, frasette salaci, considerazioni via via sempre più mordaci e ilari che rimbalzavano da un capo all’altro dei gradini facendoci scompisciare dalle risate. Una fucina di formule e battute genialmente assurde, divertenti e sferzanti di cui ancora serbo memoria. Qualcuno, ricordo, si spinse fino ad elaborare una vera teoria sulle ragazze. Aveva collocato, sull’ascissa e sull’ordinata di un presunto diagramma cartesiano, rispettivamente la larghezza del bacino e il grado (scientificamente parlando) di annacàta, cioè di ancheggiare. La curva che ne veniva fuori gli serviva per capire se la ragazza avesse o meno assaporato il dolce e proibito frutto del sesso. E da qui, poi, varie conseguenze pratiche, non ultima la strategia da adottare in vista di un eventuale tentativo di abbordaggio. Né, a dire il vero, si è mai saputo di qualcuno che, trovatosi per conoscenza diretta ed intima della fanciulla, nelle condizioni di poter verificare la validità della teoria, si sia poi preso effettivamente la briga di informare gli altri del risultato dell’esperimento. Perciò la teoria è rimasta, più che teoria, solo mera, non corroborata ipotesi.

Erano belle le ragazze. Belle e desiderabili. Con gonne a tubo, jeans più o meno stretti, camicette o magliette che noi vedevamo sempre attillate, sempre maliziose. E l’allegria nel loro sguardo, nei sorrisi. E l’energia che sprizzava scintille ad ogni passo, ad ogni movimento del corpo, ad ogni ciuffo ribelle spostato sulla fronte, ad ogni increspatura di labbra o cenno di intesa. E noi lì, a guardare. Assisi sui nostri scranni di pietra, sognanti ed eccitati. A respirare sensualità e desiderio.

La nostra, solitamente, era un’epopea mattutina. Si cominciava intorno alle 9. Almeno in estate, s’intende. Ché d’inverno si era quasi tutti a scuola e solo in certi giorni particolarmente fortunati ci si poteva ritrovare lì.

Dunque, intorno alle 9. Quasi sempre primi ad arrivare eravamo io, Peppe ‘Juve’ Carnibella ed Enzo Sanzà, con qualche capello in più in testa, i soliti occhialetti alla Trotzky e la fissazione per le cornici artistiche e il buddhismo zen. Tutti muniti di regolare quotidiano. Fin qui, poco da raccontare. Poche battute, poche parole. Con il gusto di granita attaccato al palato, ognuno diceva la sua. Il caldo, la nottata afosa, la notizia clamorosa del calciomercato. Si andava così per un’ora, un’ora e mezza. Poi arrivavano gli altri, alla spicciolata. A poco a poco si formava la ressa. Tanto che, sui nostri adorati gradini, non si trovava più posto. E, per restare nella linea d’ombra, si stava addossati gli uni agli altri, come pinguini su una banchisa antartica. Un controsenso, a ripensarci. Ci si accalcava e accalorava per sfuggire al caldo!

Ecco, uno dopo l’altro, Vito Amore e Gino Bonanno, la figura mingherlina e nera di Giovanni Lo Faro, il nostro Tiberio Murgia, e poi Peppe Di Mauro, con un po’ di quintali in meno, e Giovanni Puglisi, Turi Vinci, in tutta la sua… altezza, Gianni Di Filippo e Nunzio Briguglio con il suo sogno mai realizzato di indossare la divisa e azionare sirene. Dopo giungevano anche Sebastiano Lisi e l’altro Sebastiano, il Leotta, Alfredo Salvo e Turi Mallia, entrambi miei numi tutelari interisti, Enrico Ferrante con il suo arcuato passo claudicante ed i quasi 190 centimetri di Enzo Sacco con la sua barba nera ben curata. Poi toccava all’impettito Sandro Amato, a Nello Russo, un secolo prima di diventare vigile urbano e un secolo dopo la Comune di Parigi a cui aveva partecipato. Infine, giungevano Fausto Patti e la sua chiassosa risata con risucchio incorporato, Maurizio Mallia a cavallo della sua bici con sul davanti il simbolo di DP ed Aurelio Paternò, perennemente con la macchina fotografica a tracolla, reduce da chissà quale ritratto d’autore. Tutti a ciarlare, tutti a sbeffeggiarsi, a prendersi per il culo insomma. Sovente i affrontavano le tematiche politiche di, diciamo, scottante attualità. Ed anche lì le battute fioccavano. Ad esempio: discorso sulla caccia. Alle porte c’era l’ennesimo referendum. Come in tutte queste occasioni, si delineavano ben presto due schieramenti: i pro e i contro. Sulla caccia, Vito Amore, contro tutte le aspettative, si era allineato con gli animalisti. Fu nel corso di una discussione che il tremendo Vito fece una considerazione a dir poco surreale:

“Mettiti al posto del coniglio!” disse rivolto al suo interlocutore, il cacciatore “Cosa diresti se, mentre sei lì, a caccia del coniglio, spunta un coniglio gigante armato di doppietta che vuole difendere suo figlio?”

La cosa ci sconquassò di risate. L’avversario era rimasto spiazzato, ed aveva solo borbottato, visibilmente imbarazzato:

“Ma che minchia dici! Un coniglio gigante!?”

E poi c’era stata la battuta sulle centrali nucleari in Sicilia, scaturita naturalmente da un vivace scambio di idee a proposito del referendum sul nucleare:

“Sì, in Sicilia!” disse Enzo Sacco “In Sicilia più che centrali al plutonio si potrebbero fare centrali a minchiate!”

Lui probabilmente non l’ha mai saputo, ma un famoso scrittore italiano, qualche anno dopo, immaginò in un suo romanzo un mondo futuro mandato avanti da energia prodotta da centrali a jella.

Si stava così. E i gradini della scuola erano il nostro club, il nostro convivio, la nostra palestra dialettica. Ci si prendeva per il culo, si sorrideva di tutto, si scherzava su tutto. Irriverentemente. Liberamente. Solo per il gusto di farlo.

Solo una volta restammo attoniti, silenziosi, senza idee a lubrificare le parole. Era il 7 agosto 1985. In giro c’era ancora aria di festa. Il 5 è la festa della Madonna della Neve, patrona del paese. Le strade principali erano infiocchettate con le luminarie, i muri grondavano delle frasette tipo “Madonna della Neve proteggi il nostro Paese” (o, variante “…la nostra comunità”). A ridosso dei muri della scuola erano ancora schierati i banchetti di dolciumi e frutta secca, di mattina ancora chiusi e quindi ricoperti da spessi teloni rossi o verdi. Il giorno precedente era stato ucciso, a Palermo, Ninni Cassarà, il vicecommissario. Con lui era caduto anche Roberto Antiochia. Ma, a dirla tutta, non erano stati gli omicidi in sé a stupirci, ma un’altra circostanza. Poco più di una settimana prima, il 28 luglio, era stato ammazzato Beppe Montana, il capo della squadra catturandi. I due, Cassarà e Montana, erano amici. E tutti restammo impressionati dalle foto sui giornali in cui si vedevano i funerali di Montana con la bara portata a spalle proprio da Cassarà. Ci guardavamo straniti, increduli, come sberciati tanto dalla ferocia degli assassini quanto dalla galattica inanità dello Stato. Due morti, due onesti caduti così, crivellati da pistole e kalashnikov, a distanza di qualche giorno. Davanti ad uno Stato impotente. E noi lì a cazzeggiare… Era dura la realtà, soprattutto per noi giovani siciliani avvoltolati allora nei dei nostri sogni di resistenza e rinascita. Anche questo contribuì a farci crescere. Tutti insieme, su quei gradini. E ancora non sapevamo, non potevamo sapere nulla del 23 maggio e del 19 luglio di quel maledetto 1992…


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Tre gradini più giù, a Francofonte
1 marzo 2010, di : Nunzia da Essen |||||| Sito Web: Tre gradini più giù, a Francofonte

Ciao Giusè, ti do proprio ragione, quei tre gradini mozzati sembrano di aver mozzato , in parte un po’ della nostra infanzia.

Io che purtroppo non vivo più a Francofone, e dico purtroppo con un pizzico d’amarezza – mi vedo ancora con il grembiule bianco scendere quei gradini.

E forse vedo anche voi ragazzi, seduti proprio su quei gradini a fischiettare dietro le ragazze, che nei giorni di festa sfilavano – proprio per voi – su e giù per la piazza.

È il ricordo nostalgico più bello della mia infanzia, l’orgoglio estetico di quella piazza – la “Dante Alighieri” come ricordo con tanto affetto la mia maestra, la migliore -Adda Rapagliá.-

L’anno scorso vissi la mancanza dei gradini con delusione, non riuscivo a trovare il bilancio, l’ ho definito un vero e proprio disastro estetico. A chi davano fastidio? Quale architetto artistico ha architettato una cosa così mostruosa?

Io che vivo di moda e ciò forse si può paragonare a bellezza, quella piazza così come è - bella- di certo non è.

Ho letto per la prima volta i tuoi articoli, e devo dire che quella “maniera” di scrivere un po’ alla –sicula- mi piace.

Cari saluti Nunzia da Essen