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Testimoniare come scelta di e per la vita: intervista con Giuseppe Carini

"Resto dell’idea che una scelta che abbiamo compiuto non possa essere messa sul piatto della bilancia e, quindi, pesata sulla base del ’mi conviene o non mi conviene’, dei pesi e dei contrappesi"

di francoplat - mercoledì 29 ottobre 2025 - 483 letture

Attraverso il balaclava, gli occhi di Giuseppe Carini raccontano e contrappuntano le parole, disegnando dinanzi al sottoscritto una straordinaria gamma di espressioni. È la sera del 26 settembre, Giuseppe, in streaming, narra la sua vicenda umana e lo fa reimmettendosi, di volta in volta, in tutte le fasi complesse della sua vita. È un racconto che parte da un inferno, che pare un paradiso, e approda a un altro inferno, che avrebbe dovuto essere un paradiso. Ma, in tutto ciò, la metamorfosi del giovane Carini, promessa mancata di Cosa nostra e poi fedele servitore di uno Stato infedele, è profonda, così profonda da andare al di là delle meschinità e dei travagli quotidiani, perché, come dice nel finale dell’intervista il mio interlocutore, la sua non è una scelta di vita antimafia, ma «un sì alla vita». E lo dice con un delicato rimprovero all’intervistatore, che aveva messo in un cassetto troppo stretto la parabola esistenziale dell’intervistato.

Un inferno che pare un paradiso, si è detto. È la prima vita di Giuseppe Carini, nel contesto complesso del quartiere Brancaccio-Ciaculli, dove un abitante su due viveva di attività legate, direttamente o indirettamente, alla mafia, dove fuori da Cosa nostra c’era il nulla. Il giovanissimo Giuseppe non vuole restare nel limbo del nulla, aspira al paradiso, quello terreno. Ma accade qualcosa. Siamo nel 1990, nel quartiere arriva un uomo, un presbitero, un uomo dagli occhi profondi e dalla straordinaria capacità di ascolto, don Pino Puglisi, che non giudica i giovani che iniziano ad avvicinarsi a lui, pur sapendoli attratti e, insieme, vittime di un padreterno terreno. La mafia.

Giuseppe inizia un percorso interiore complesso. Non si passa in modo indolore e, soprattutto, improvviso da una condizione all’altra, non ci si sradica né dal proprio mondo interiore né dal contesto sociale in cui si vive. Ma, piano piano, Giuseppe assume, agli occhi dei suoi “vecchi” amici, una configurazione ambigua, pericolosa. È troppo vicino a quell’uomo dagli occhi profondi che sta rubando risorse all’azienda mafiosa, ai fratelli Graviano, sbeffeggiati, per questo, da Leoluca Bagarella.

Non senza aver sentore che una linea rossa fosse stata superata dalle attività della parrocchia di padre Puglisi, si arriva al 15 settembre 1993. Don Puglisi viene ucciso. E Giuseppe sceglie dolorosamente, ma convintamente di abdicare dalla sua vecchia condizione. Sceglie di testimoniare, di entrare in una nuova vita, quella di chi taglia ogni ponte con il passato e si affida allo Stato, testimoniando, appunto, al processo contro gli esecutori e i mandanti dell’omicidio di don Puglisi.

Ed ecco l’altro inferno. Sono parole del mio interlocutore. È lui a sostenere che esiste un parallelismo – che è ciò che più l’ha amareggiato – tra Cosa nostra che chiede il silenzio dei testimoni perché non parlino e lo Stato che chiede il silenzio dei testimoni perché non raccontino troppi particolari di una scelta – la testimonianza di giustizia, appunto – che scaraventa in una realtà ben più che travagliata. Giuseppe la racconta, la racconta nei particolari questa realtà, richiamandosi spesso, per evitare che le sue osservazioni vengano scambiate per lamenti personali, alle relazioni delle commissioni antimafia che si sono succedute negli anni – dal 1998 al 2018 – e che portano registrato in modo indelebile il «trattamento vergognoso» nei confronti dei testimoni di giustizia. Racconta le proprie esperienze, a partire dalla scelta, a un certo punto, di abbandonare gli studi universitari per la follia delle pastoie burocratiche, e racconta anche i dolori, le patologie, le difficoltà di altri testimoni.

Vale la pena leggerla per intero la vicenda di Giuseppe, nell’intervista integrale qui allegata. Perché la forza che emana da quest’uomo è data dalla solidità della scelta compiuta, per quanto lo abbia strappato da un inferno e lo abbia gettato tra le braccia di un apparato istituzionale tutt’altro che benevolo nei confronti dei testimoni di giustizia, acclamati in pubblico e vituperati in privato, fuori dalle telecamere. Ma, appunto, Giuseppe Carini non ha scelto il palcoscenico e gli applausi, non ha sposato una causa civile, per quanto, lui più di altri, la mafia l’abbia conosciuta e combattuta.

A questo proposito, non manca, da parte del mio interlocutore, una riflessione amara e critica nei confronti dell’antimafia da merceria, dell’antimafia distributrice di gadgets. È proprio dalla sostanziale mancanza di supporti convinti e continuativi che – dice Giuseppe – è nata l’Associazione nazionale dei testimoni di giustizia, che, fino ad allora, non avevano avuto voce, a lungo confusi, peraltro, con i collaboratori di giustizia.

Giuseppe, ma, dunque, conviene testimoniare? A qualcuno – risponde – viene la tentazione di dire, magari, «forse avrei fatto meglio a pagare il pizzo», a fronte di una vita stravolta, del disagio economico, dello sradicamento geografico, di quello anagrafico e così via. Ma la sua non è stata una scelta fatta con il bilancino, valutando pro e contro, convenienze o non convenienze. Come si è già detto, il suo è stato un «sì alla vita», per quanto si sia trattato e si tratti di una vita accartocciata dalle mille storture istituzionali e dall’ipocrisia di Stato. Non è stato preso per mano da don Puglisi per essere traghettato solo al di là della mafia e contro la mafia, pare di capire. È qualcosa di molto più importante, radicale, definitivo. È una scelta per la vita, di vita, una testimonianza che va oltre le aule di un tribunale, avendo superato, grazie a un uomo dagli occhi profondi che gli ha ricordato che Dio l’amava, i magistrati della coscienza e della dignità.


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