Superare la legge Biagi
Il mondo imprenditoriale reclama da tempo una disciplina del lavoro più flessibile, che venga incontro alle esigenze delle aziende. Si sostiene che contratti meno rigidi favoriscono l’occupazione, perché incentivano l’impresa ad assumere i lavoratori che le occorrono in una determinata congiuntura, senza il freno costituito dal doverne sopportare l’onere una volta mutata la fase economica.
Il capitalismo moderno, ormai progressivamente globalizzato, è caratterizzato da uno spiccato dinamismo, nel quale gioca un ruolo centrale l’innovazione. Le imprese sono costrette a cercare costantemente soluzioni nuove nei prodotti, nelle tecnologie, nei sistemi di produzione, nonché a conquistarsi nuovi spazi di mercato.
L’economia mondiale appare animata da un incessante processo di "distruzione creatrice", come aveva genialmente intuito l’economista austriaco Joseph Schumpeter, in cui le aziende ingaggiano un’impegnativa lotta per la sopravvivenza, l’esito della quale, è un’implacabile selezione in cui ai soccombenti si avvicendano altri operatori economici. In questo scenario fluido la parola d’ordine per l’imprenditore è flessibilità, ossia pronta capacità di adeguarsi alle mutevoli richieste di un mercato in perenne e rapida evoluzione.
Le oscillazioni della domanda, le innovazioni tecnologiche impongono la necessità di disporre di una forza lavoro duttile ma anche potenzialmente fluttuante. La conseguenza è, per il mercato del lavoro, un’accresciuta mobilità: il lavoratore moderno vede diminuire le attese di un posto fisso, mentre è elevata l’eventualità di cambiare diverse volte impiego.
Il mondo imprenditoriale reclama da qualche tempo una disciplina del lavoro più flessibile, che venga incontro alle esigenze delle aziende. Si sostiene che contratti meno rigidi favoriscono l’occupazione, perché incentivano l’impresa ad assumere i lavoratori che le occorrono in una determinata congiuntura, senza il freno costituito dal doverne sopportare l’onere una volta mutata la fase economica.
Ciò ha indotto molti governi in Europa a modificare la legislazione in materia di lavoro, introducendovi elementi, più o meno pronunciati, di flessibilità. Alcuni sistemi hanno optato per la cosiddetta “flessibilità in uscita” (il modello danese), consentendo una maggiore libertà nel licenziamento, altri (il modello spagnolo) hanno puntato sulla valorizzazione delle forme di lavoro atipico.
In Italia, la riforma del mercato del lavoro ispirata alla flessibilità prende il nome di “legge Biagi” (l. n. 30 del 2003), che ha creato nuove figure contrattuali da affiancare al modello del contratto a tempo indeterminato, come lo staff leasing, il job on call, il contratto a progetto, il lavoro condiviso.
Gli effetti di questa riforma sono assai controversi. È indubbio che ad essa sia seguita una riduzione del tasso di disoccupazione. Per altri versi, essa ha pure agevolato l’incremento del precariato, soprattutto nelle fasce più giovani alle prime esperienze lavorative.
Nella realtà dei fatti, il mondo del lavoro, nel nostro Paese, si è spezzato in due: da una parte, i più giovani, spesso inquadrati con contratti atipici e precarizzati; dall’altra, chi in passato è entrato nel mercato del lavoro con un contratto a tempo indeterminato e una rigida disciplina del licenziamento, che rende la sua posizione più garantita e stabile.
Per tale via si è creato un forte squilibrio generazionale a tutto svantaggio dei giovani, su cui si è addossato prevalentemente il prezzo della politica d’incremento dell’occupazione.
È, quindi, un’inderogabile ragione d’equità ad imporre il superamento della legge Biagi. L’uso distorto degli strumenti di flessibilità ha apportato un indubbio vantaggio, in termini di risparmio, alle aziende, che hanno potuto ridurre il costo del lavoro con il ricorso alle forme d’occupazione temporanea. La logica dell’outsourcing, dell’esternalizzazione della forza lavoro, talvolta mascherata dalle cessioni di rami d’azienda, è, però, in una certa misura inaccettabile, laddove segna l’assoluta deresponsabilizzazione dell’imprenditore nei confronti dei lavoratori, poiché tra le due parti viene più a porsi un rapporto contrattuale non diretto, bensì mediato dall’agenzia di lavoro interinale.
È opportuno ridistribuire il carico generazionale della flessibilità, ridimensionando l’accesso alle figure contrattuali atipiche e restituendo centralità al contratto a tempo indeterminato. Sotto questo profilo, il modello da seguire è quello della “flexecurity”, che coniuga flessibilità e sicurezza sociale. Si può assecondare il bisogno delle imprese di fruire di una riserva di flessibilità, rendendo meno vincolanti le ipotesi di licenziamento.
Al contempo, si deve offrire una ciambella di salvataggio a chi perde il lavoro, da un lato potenziando gli ammortizzatori sociali, dall’altro organizzando la formazione professionale permanente, utile a consentire un rapido reinserimento nei circuiti occupazionali a quanti ne sono stati temporaneamente estromessi, e inserendo il lavoro a termine giovanile in un sicuro percorso che porta alla stabilizzazione dell’impiego.
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Questo ’pezzo’ da per scontato che il mutamento della fase economica sia in positivo. E se vi fosse un peggioramento?
Finiamola di chiamare in causa questo pover’uomo che è morto in nome delle sue convinzioni: in Italia c’è crisi non a causa di Biagi, ma per effetto della devastante situazione internazionale.