Superare la Legge 30...
Superare la Legge 30 per ricomporre il mercato del lavoro. Un intervento di Alfonso Gianni (Liberazione del 05/09/2007).
Caro Ichino la flessibilità si corregge con il contratto nazionale
Vorrei brevemente tornare sugli argomenti avanzati nella sua lettera di ieri da Pietro Ichino, ospitata su queste pagine. Non certo perché non ritenga sufficiente la replica di Emiliano Brancaccio, ma perché Ichino mi chiama direttamente in causa e poi e soprattutto perché discutere senza gridare è meglio e fa bene a tutti.
Ichino fa una affermazione importante, anche se non nuova, cioè si smarca da coloro che sostengono che la causa della elevata disoccupazione derivi dalla rigidità della protezione del lavoro nel contesto europeo. Ribadisce invece che quest’ultima è solo responsabile del peggioramento della qualità della disoccupazione perché provocherebbe il fenomeno dei disoccupati permanenti e la divisione degli occupati in due categorie, quella degli iper-protetti e quella dei precari. Questi ultimi, secondo una classificazione che lo stesso Ichino contribuì a portare in voga una decina di anni fa, assieme ai disoccupati costituirebbero gli outsiders che si contrappongono ai più fortunati insiders, creando un tipico dualismo nella struttura generale del mercato del lavoro.
Prima di discutere la terapia proposta avrei da obiettare sulla diagnosi. E’ sicuramente vero che la composizione della disoccupazione italiana ha caratteristiche specifiche in ambito europeo di segno chiaramente negativo. La presenza di disoccupati di lunga durata (la cui permanenza in quella condizione è superiore ai 12 mesi) è percentualmente assai superiore nel nostro paese che non negli altri paesi europei. Nello stesso tempo è più basso il nostro tasso di occupazione, particolarmente per ciò che concerne le donne. Né i miglioramenti della situazione negli ultimi tempi hanno annullato queste marcate differenze.
Ma, è questo il punto su cui richiamo l’attenzione, la disoccupazione di lunga durata, come l’inoccupazione femminile, è particolarmente consistente e concentrata nel Sud del paese. In altre parole non è la presunta eccessiva rigidità della tutela del posto di lavoro che peggiora le caratteristiche interne al fenomeno della disoccupazione, ma l’esistenza di un’atavica questione meridionale, che persiste, o addirittura si accentua, malgrado le differenziazioni interne manifestatesi nel Sud dell’Italia. Qui sta la radice dello specifico dualismo del mercato del lavoro italiano. Se vogliamo affrontare questo aspetto è sul modello di sviluppo che dobbiamo agire, sulle condizioni strutturali dell’economia e del tessuto produttivo del nostro paese e non tanto sulle regole che governano il mercato del lavoro.
Quello che invece si può tranquillamente affermare in punto di analisi è che certamente la precarietà - o , se si preferisce, il modo concreto con il quale la flessibilità del lavoro si è venuta realizzando nel nostro paese - peggiora costantemente la qualità dell’occupazione. E’ quanto abbiamo sotto gli occhi. Gli indici statistici, che peraltro sappiamo essere più che imperfetti, ci indicano una diminuzione della disoccupazione in presenza contemporaneamente di una perdita di produttività generale del lavoro (l’Ires Cgil parla addirittura di produttività negativa durante il quinquennio del governo di centrodestra). Del resto non ci vuol molto a capire che chi non sa dove e se andrà a lavorare la settimana successiva non sarà certo invogliato ad una migliore qualità della propria prestazione lavorativa. In altre parole se qualche lustro fa avevamo uno sviluppo senza aumento dell’occupazione, ora siamo di fronte al rovesciamento del fenomeno, cioè l’aumento dell’occupazione senza incremento dello sviluppo.
Quello su cui abbiamo insistito in questi anni è precisamente che la lotta alla precarietà non va solo fatta in nome, e già basterebbe, della difesa dei diritti e della retribuzione dei lavoratori, ma anche dal punto di vista del miglioramento della qualità e della innovazione del nostro sistema produttivo generale, unica garanzia per una sana competizione nel quadro economico mondiale e per aggredire la questione meridionale di casa nostra.
Se passiamo ora dalle diagnosi alle terapie, incontriamo un’affermazione a dir poco stupefacente da parte di Ichino. Il giuslavorista milanese afferma infatti di essere addirittura il primo ispiratore della proposta di legge di cui ho parlato più volte su queste pagine e che è stata redatta da un gruppo di lavoro coordinato da Nanni Alleva, avendo proposto di conferire l’insieme delle tutele al lavoratore “economicamente dipendente” e non solo a quello subordinato. Se Ichino vuole intendere che egli può vantare una matrice comune con altri giuslavoristi, quali quelli citati, che risale all’ala progressista e policentrica dei teorici e degli operatori del diritto del lavoro da cui nacque e prese forma lo stesso Statuto dei diritti dei lavoratori, ha sicuramente ragione e posso testimoniare al riguardo.
Il guaio è che parecchia acqua è passata sotto i ponti e le strade degli uni e degli altri si sono da tempo separate. Nel libro che Ichino cita a suo sostegno, Il lavoro e il mercato del 1996, egli mette in secondo piano e oscura la responsabilità dello Stato, delle leggi e dell’impresa nel mantenimento delle garanzie per il lavoratore, spostando tutto il peso sul rapporto di quest’ultimo con il mercato. In altri termini sarebbe il mercato - un mercato più fluido e oliato - il luogo dove dovrebbero riposare le garanzie e le tutele del lavoratore. E’ da questo punto di vista che Ichino compie l’operazione di abbattere le barriere fra lavoratori subordinati e non, nel senso di una sostanziale diluizione delle tutele dei primi in favore di un presunto allargamento di alcune di esse ai secondi. In questo modo tanto il datore di lavoro quanto il lavoratore potrebbero compiere una libera scelta tra la forma del rapporto di lavoro a tempo indeterminato e le varietà dei lavori a termine. Non a caso il libro di Ichino esce mentre stanno maturando gli accordi e le revisioni legislative che sfoceranno nel cosiddetto pacchetto Treu, che però il giuslavorista milanese sopravanza in diversi punti, come ad esempio nella previsione che il lavoro interinale andasse esteso anche alle categorie più basse (il che effettivamente avvenne solo dopo il varo del pacchetto Treu). Ma questa libertà di scelta è pura mistificazione, basta guardare al settore dei servizi ove il precariato è attualmente più diffuso, call-center e non solo.
La proposta di legge che abbiamo presentato per superare la legge 30 muove invece da un’altra logica. Si vuole intervenire su tutte e tre le strade principali attraverso cui si è snaturato il nostro diritto del lavoro. Cioè la creazione di finto lavoro autonomo, tramite il fenomeno delle collaborazioni continuative a progetto; la totale discrezionalità e la possibilità incondizionata di reiterazione nell’uso dei contratti a termine; la deresponsabilizzazione dell’impresa verso il lavoro, attraverso il già citato lavoro interinale e le dismissioni di rami d’azienda. Come si vede non si tratta di rendere solo più fluido il mercato del lavoro, ma di chiamare il pubblico (inteso come insieme di legislazione, di apparato giudiziario e di amministrazione) e il privato (cioè l’impresa) ad essere soggetti attivi e responsabili nel rendere effettivo il diritto al lavoro.
Da qui deriva la proposta di una modifica del codice civile che permetta di introdurre il concetto di dipendenza socio-economica del lavoratore, che può permettere di riunificare il mondo del lavoro effettivamente dipendente, senza appiattire o negare le ovvie differenze. In questo modo il diritto costituzionale ad un’equa retribuzione (magari anche attraverso forme di salario minimo orario); il principio della non licenziabilità senza giusta causa; la garanzia di una contribuzione piena ai fini previdenziali; il sostegno al reddito nei periodi di non lavoro; il pieno godimento dei diritti sindacali e la democrazia di rappresentanza, possono essere annoverati tra i diritti fondamentali estendibili in modo sostanziale, al fine di rompere qualunque dualismo.
Ed è proprio in un simile quadro che torna ad avere una rinnovata validità il contratto nazionale di lavoro, il che, e non a caso, è l’esatto contrario di quanto pensa Pietro Ichino, e non solo.
Alfonso Gianni (Liberazione del 05/09/2007)
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