Stato d’emergenza in Ecuador
Un articolo sulla crisi sociale in Ecuador di Camilla Desideri, giornalista di Internazionale
Tra il 7 e il 9 gennaio 2024 in Ecuador sono accaduti vari episodi violenti che hanno fatto precipitare il paese nel caos. José Adolfo Macías, noto come Fito, leader del potente cartello della droga Los Choneros, è evaso da un carcere della città costiera di Guayaquil in cui era recluso dal 2011 e dove stava scontando una condanna di 34 anni. Doveva essere trasferito in una struttura di massima sicurezza e da allora è latinante. Dopo di lui è evaso anche un altro leader criminale, Fabricio Colón Pico, affiliato a una banda rivale che si chiama Los Lobos.
Contemporaneamente i detenuti di varie prigioni hanno preso in ostaggio decine di agenti e di guardie penitenziarie, sono esplose almeno quattro autobombe in differenti zone del paese, sono stati saccheggiati molti negozi e ci sono stati attacchi a ospedali e scontri a fuoco in molte province. Di fronte a quest’escalation di violenza il presidente di centro Daniel Noboa ha proclamato lo stato di emergenza. La misura, che resterà in vigore per sessanta giorni, prevede un coprifuoco nelle ore notturne, dalle undici di sera alle cinque di mattina, la possibilità per il governo di mandare i militari nelle strade e nelle carceri e la limitazione di alcuni diritti per i cittadini, come quello di assemblea. La decisione di Noboa non è una novità: il suo predecessore, il conservatore Guillermo Lasso, l’ha applicata venti volte in soli due anni e mezzo di governo.
Il 9 gennaio, il giorno dopo l’annuncio dello stato d’emergenza, un gruppo di uomini armati e in gran parte incappucciati ha fatto irruzione negli studi della tv pubblica Tc Televisión, a Guayaquil, e ha preso in ostaggio dipendenti e conduttori, obbligandoli a restare sdraiati in terra. Per più di un’ora le telecamere sono rimaste accese e hanno continuato a trasmettere in diretta quello che stava succedendo, mentre in sottofondo si sentiva il rumore di spari e detonazioni. Uno dei conduttori, José Luis Calderón, è stato portato davanti alle telecamere e, con varie armi puntate alla testa, è stato obbligato a chiedere agli agenti di ritirarsi.
Dopo circa due ore la polizia è intervenuta, ha riportato la situazione sotto controllo e ha arrestato tredici persone, probabilmente affiliati di una banda criminale chiamata Los Tiguerones. Dopo quest’episodio Noboa ha dichiarato che nel paese è in corso “un conflitto armato interno”, ha ordinato ai militari di ristabilire l’ordine nelle strade e ha definito “gruppi terroristici” ventidue bande criminali attive nel paese.
Per Noboa questa è la prima prova difficile da quando è stato eletto, lo scorso ottobre. È il presidente più giovane della storia dell’Ecuador, ha 36 anni, ha poca esperienza politica, non si dichiara né di destra né di sinistra, anche se è figlio di un ricchissimo imprenditore, Álvaro Noboa, che ha fatto fortuna con l’esportazione delle banane e ha provato a diventare presidente ben cinque volte, senza mai essere eletto. Noboa ha vinto le elezioni con la promessa di combattere la criminalità organizzata e riportare il paese a livelli di sicurezza accettabili, tra l’altro dopo una campagna elettorale particolarmente violenta, segnata dall’omicidio lo scorso agosto del candidato di sinistra Fernando Villavicencio, ucciso a Quito pochi giorni prima del voto.
Resterà in carica solo sedici mesi, cioè fino a maggio del 2025, quando sarebbe dovuto scadere il mandato di Lasso, che ha sciolto il parlamento anticipatamente per evitare un procedimento politico per corruzione e ha convocato le elezioni. Alcune iniziative che il nuovo presidente sta prendendo per limitare il potere delle bande e per cercare di ridurre le attività criminali dei loro boss in carcere, per esempio trasferendoli in istituti di massima sicurezza (quello che stava facendo con Fito) o allungando le loro pene, hanno infastidito le bande criminali che hanno scatenato quest’ultima ondata di violenza, partendo proprio dalle prigioni.
In pochi anni l’Ecuador, dove vivono quasi 18 milioni di persone, è passato da essere uno dei paesi più sicuri della regione a uno dei più pericolosi. Era noto per i suoi vulcani, per la sua ricca biodiversità, per il costo basso della vita, che attirava molti cittadini statunitensi in pensione. Nel 2017 il tasso di omicidi era di 5,78 per ogni centomila abitanti, oggi è di quaranta. Il 2023 è stato l’anno più letale della sua storia recente, con quasi 7.600 morti violente, rispetto alle poco più di quattromila dell’anno precedente.
Le cause di questa trasformazione sono molte, come spiega in un editoriale El País: gli investimenti pubblici sono diminuiti, la pandemia di covid-19 ha aggravato la crisi economica e la disoccupazione, lasciando spazio all’infiltrazione della criminalità organizzata internazionale, in particolare ai cartelli della droga messicani che si contendono con le bande locali le rotte per il traffico di cocaina. Geograficamente l’Ecuador è stretto tra la Colombia e il Perù, i due principali produttori di cocaina del mondo, e negli ultimi anni la città di Guayaquil (dove infatti si concentra la maggior parte degli episodi violenti) è diventata il porto principale da cui partono i carichi di droga diretti in Europa e negli Stati Uniti.
La crisi economica e l’escalation della violenza hanno spinto decine di migliaia di persone a lasciare il paese e a mettersi in viaggio verso nord, tentando la traversata della pericolosa giungla del Darién, al confine tra la Colombia e Panamá. Dopo i venezuelani, infatti, il secondo gruppo più numeroso di persone che passa per il Darién sono gli ecuadoriani, hanno reso noto le autorità panamensi. Ora Noboa ha un compito difficile davanti a sé, conclude El País sottolineando il rischio che il leader ecuadoriano possa seguire il modello autoritario del presidente del Salvador Nayib Bukele: coinvolgere tutti i partiti per mettere in atto una politica implacabile contro la criminalità organizzata, ma senza calpestare i diritti umani e rispettando le libertà fondamentali di tutti i cittadini.
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