Socrate al caffé

Testo pubblicato in occasione del bookfestival di Caltagirone (zerobook, 1999)

di Pina La Villa - mercoledì 18 ottobre 2006 - 4035 letture

Socrate al caffè? Socrate, Il Filosofo, girava per la città, brutto, ironico, inquietante. Fu condannato a morte perché insinuava il dubbio. Con lui i giovani non rispettavano più le sacre tradizioni, i miti della città e le illusioni della democrazia. Ma cosa faceva Socrate? Chiedeva le definizioni, insegniamo a scuola. Ma cosa sono le definizioni? Socrate chiedeva: cos’è la virtù? alla risposta, quella che tutti daremmo, diciamo quella che va per la maggiore - generica, banale, scontata, ragionevole e piena di buon senso - Socrate incalzava, ironizzava, demoliva, ampliava e restringeva il discorso, prendeva in giro e accompagnava per mano l’interlocutore. Fino a dove? Fino al luogo della consapevolezza, quando la risposta non fosse più quella dei più. Socrate non dà le definizioni, non scrive, aveva paura che il concreto, l’esperienza potesse rimettere in discussione tutto. E allora occorreva ricominciare. Il nome di Socrate è legato alla famosa massima "conosci te stesso". Il richiamo a conoscere se stessi non è un richiamo all’interiorità. Conosci te stesso significa parti da te per giudicare, per conoscere, rifletti, pensa con la tua testa e il tuo cuore. Il caffè è il luogo per eccellenza della chiacchiera inutile. L’accostamento a Socrate è invito a immaginare la distanza tra la piazza, l’agorà di Atene, e il caffè, in cui, rispetto alla piazza della città-stato, manca assolutamente il contatto con la città e i suoi problemi, manca un potere di decisione, per cui la chiacchiera diventa fine a se stessa. "Chiacchiere da bar" diciamo, a indicare il più basso livello delle discussioni. Metti però Socrate in questa specie di non-luogo - l’antropologo Marc Augé definisce così i luoghi privi di storia e di identità, sede dell’anonimato, come gli aeroporti e i supermercati - o meglio ancora, immaginalo in un luogo della città - la proposta dei circoli filosofici cittadini - in cui si riuniscono più di due persone per parlare, discutere. Non quindi la filosofia dell’accademia e degli addetti ai lavori, ma la filosofia come indagine e amore per la polis, per la politica. L’idea è quella di un "nuovo" prendersi carico dei problemi da parte dei cittadini. Ma questo pone altri problemi: chi sono i cittadini? Hanno un potere di decisione? In quali ambiti? (Io mi pongo il problema di cosa farò oggi pomeriggio se posso decidere cosa farò oggi pomeriggio; se non ho un potere di decisione semplicemente me ne frego, attendo che qualcuno mi dica cosa devo fare). Ho paura che su molte questioni, nella società complessa in cui viviamo, noi abbiamo un potere di decisione molto limitato. Anche perché abbiamo, per varie ragioni, smesso l’abito della critica, della riflessione (o non l’abbiamo mai avuto?). Cosa chiederebbe oggi Socrate ai suoi interlocutori? Quando ho fatto questa domanda ai miei alunni dapprima hanno detto la pace, poi, sottovoce, poiché io ho chiesto cosa veramente pensassero che interessava oggi, qualcuno ha detto il sesso. Sono entrambe risposte indicative del potere di decisione di cui parlavo prima. La pace è stata indicata perché era quello che si aspettavano io volessi, il sesso era il campo sul quale volevano sapere qualcosa di più, almeno fino a quando non si sono resi conto che la guerra, presentata dai mass-media, soprattutto all’inizio, in maniera così asettica e lontana, è in realtà molto vicina. E forse merita che cerchiamo di capire se ci resta un margine di potere di decisione in questo campo. Oggi Socrate mi chiederebbe, ci chiederebbe: Cos’è la guerra umanitaria? Cos’è il terrorismo? Cos’è la politica? Cos’è il giudizio? Perché sento questo senso di impotenza? O almeno questo è quello che io mi sono chiesta negli ultimi mesi. Non ho gli strumenti per affrontare un discorso di questo genere, né è questo il tema del nostro incontro. Però spesso, negli ultimi mesi, riflettendo su queste domande, e poi anche sul tema di questa sera, mi è venuto in mente uno scritto di Hannah Arendt, filosofa, o meglio pensatrice della politica, come preferiva definirsi. Un testo che ritengo interessante sia per chiarire il senso dell’incontro di questa sera, sia per proporre un tema possibile per una riflessione non accademica: il giudizio. Perché Hannah Arendt e perché un suo testo lo anticipo con le parole di Laura Boella, che ha dedicato ad Hannah Arendt - e ad altre filosofe - un libro dal titolo Cuori pensanti.

"Hannah Arendt parla intensamente alle nostre società deluse dalla politica, in quanto richiama a un’idea di potere come capacità di iniziativa, non titolarità di un ruolo o di un’autorità per disporre dei destini altrui. E richiama anche a un’idea della politica che è dimensione esistenziale, attraversa ogni forma di attività e di esperienza, non è tecnica di governo, ma arte e piacere di stare insieme, di scambiare idee e parole" 1.

Nata nel 1906, morta nel 1975, ebrea tedesca, allieva di Heidegger e di Jaspers , Hannah Arendt ha come orizzonte di pensiero il periodo tra le due guerre, il nazismo e il totalitarismo. Occorre tenerne conto, come e più che per altri pensatori, perché il suo pensiero cresce sulle cose, sui problemi, sugli eventi drammatici fra le due guerre. La questione ebraica, il nazismo, il totalitarismo, la società di massa, la libertà, l’agire politico, l’identità, la differenza. Sono le sue esperienze, la sua vicenda esistenziale - soprattutto l’esperienza dello sradicamento - che diventano problema filosofico. Il risultato della sua riflessione è la comprensione forse più acuta di questi fenomeni della storia del nostro secolo. Nel 1933, con l’ascesa al potere di Hitler è costretta a lasciare la Germania e a emigrare in Francia. Arrestata nella primavera del 1940 per la sua attività a sostegno delle comunità ebraiche, riesce a fuggire e a rifugiarsi negli Stati Uniti, ottenendone la cittadinanza. Qui insegna filosofia della politica alla "New School for Social research" di New York. Nel 1961 fu inviata dal periodico "The New Yorker" a Gerusalemme per seguire e commentare il processo a Rudolf Eichmann, il gerarca nazista responsabile dell’olocausto e catturato dal Mossad in Sud America dove si era nascosto. Queste cronache, poi raccolte in un volume che in Italia è stato tradotto nel 1964 col titolo La banalità del male. Eichmann in Gerusalemme, da Feltrinelli, suscitarono una polemica, nata soprattutto, dice Arendt, da fraintendimenti, come spesso accade (il concetto di banalità del male, rimasto a indicare l’orrore dei campi di sterminio nazisti, subì una varietà di interpretazioni). Su queste cronache, e sul dibattito che suscitarono, nel 1964 Arendt scrive La responsabilità personale sotto la dittatura, che è il testo di cui prima dicevamo.

Non intendo in questo modo fare paragoni tra i fatti sui quali oggi proviamo a riflettere e quelli sui quali rifletteva Arendt. Niente di più lontano da un’arendtiana convinta del valore dell’esperienza particolare e della necessità di un giudizio che nasce dalle cose e non applica pedissequamente norme e principi generali. Credo però che alcune questioni che il testo solleva ci possano essere utili. Utili soprattutto a tener desta l’attenzione sui rischi sempre in agguato per la società di massa in cui viviamo.

Il testo dunque. Arendt segue il processo al criminale nazista Eichmann (sarà poi condannato a morte dal tribunale israeliano). Quello che la colpisce, e che spinge la sua analisi, è la assoluta tranquillità, anzi la assoluta normalità di Eichmann, un "banale" mostro: un uomo che poteva compiere quei crimini e sentirsi tranquillo, giocare coi bambini, essere un buon padre di famiglia. Non condivide né la linea dell’accusa né quella della difesa: l’accusa pretendeva di processare, con Eichmann, un sistema; la difesa, e l’imputato in primo luogo, ribattevano che non si era trattato d’altro che di ubbidire agli ordini. In entrambi i casi veniva sottovalutata la responsabilità personale. Arendt dimostra quindi in primo luogo che esiste una responsabilità personale, esiste nel caso di Eichmann, esiste nel caso di tutti gli altri "burocrati" nazisti processati in quegli anni. Assodato questo resta il problema di capire come sia stata possibile l’esistenza di tanti Eichmann, considerando che non solo si trattava di ubbidire agli ordini ma, spesso, di condividerli. Per quanto riguarda il primo punto: "Io ero partita dalla convinzione che noi fossimo pur sempre d’accordo con Socrate che affermava: ’E’ meglio subire un torto anziché farlo’". Non era così, il ragionamento che si faceva era che fosse impossibile resistere a qualsiasi tentazione. Citazione da Mary McCarty (amica e corrispondente di Arendt): "Se uno ti punta addosso un fucile e ti dice ’uccidi il tuo amico o io uccido te’, egli ti induce in tentazione, ecco tutto". Può esserci una giustificazione giuridica, non morale. In realtà c’era, secondo Arendt, nel dibattito suscitato dalle cronache, una diffusa paura di giudicare. Era più facile ricorrere al concetto di colpa collettiva o, come voleva la difesa e Eichmann, alla figura del capro espiatorio, che si assume le responsabilità di tutti e che per questo può sperare di farla franca. Tutti colpevoli è come dire nessuno colpevole.

(Mi è capitato a scuola di mio figlio. In gita scolastica i ragazzi avevano messo un sonnifero nelle bevande dei professori - volevano andare a ballare fino a notte tarda. Qualcuno ci riflette , confessa. Al ritorno si imbandisce un processo , per far crescere i ragazzi , farli riflettere sul tema dell’omertà, farli confessare tutti, soprattutto quelli che, sapendolo, non lo hanno detto in tempo ai professori. I ragazzi, probabilmente guidati da qualche genitore, hanno scelto la soluzione del capro espiatorio. Uno solo di loro , quello che , per avere la madre che prendeva sonniferi e il padre medico, poteva facilmente essere individuato come chi era in possesso del sonnifero, si accollò la responsabilità, facendolo in modo tale, con l’aiuto determinante della difesa materna, da risultare alla fine il vero eroe. Coperti i singoli responsabili del gruppo che aveva architettato tutto, i veri rei risultarono alla fine coloro che avendolo poi saputo, non avevano confessato immediatamente - tra cui mio figlio, superficiale come tanti - che hanno dalla loro però il fatto che non avevano avuto il tempo di riflettere e di avere rimorsi come il ragazzo che poi confessò. Diversi livelli di responsabilità - non fu nemmeno menzionata la possibile responsabilità di chi aveva permesso che dei ragazzi in gita potessero procurarsi e mettere un sonnifero nelle bevande - trattati in maniera assolutamente diseguale e un processo altamente diseducativo).

E’ lo stesso principio che vale in una società burocratizzata come quella nazista, è il principio delle rotelle dell’ingranaggio, che faceva perdere di vista che quello che si giudicava era un uomo. Al quale si può, nel processo, ribattere: "E perché lei è diventato una rotella del sistema o lo è rimasto, se quelle erano le circostanze?". Parte da qui la riflessione sul regime totalitario, che Arendt distingue dalle dittature, dallo stesso fascismo. Da un lato si chiede come fu possibile l’adesione di molti, un’intera generazione, al nazismo, dall’altro tenta di rispondere a chi, fra questi, accusa coloro che non collaborarono per non essersi assunti la responsabilità di cambiare dall’interno il regime, di rimanere al loro posto per esercitare un’azione moderatrice e salvare almeno qualcuno. L’adesione "non era una simulazione ipocrita dettata dalla paura, ma il fervore improvviso di non perdere il treno della storia. Da un giorno all’altro ci fu un cambiamento di opinioni per così dire sincero, che coinvolse la grande maggioranza della gente di tutti i ceti e mestieri, e che allora fu accompagnato dall’incredibile facilità con cui furono bruscamente troncate amicizie di una vita. Per farla breve: quel che ci sconvolgeva non era il comportamento dei nostri nemici, ma quello dei nostri amici, senza che questi avessero fatto nulla perché ciò accadesse. Essi non erano responsabili del nazismo; erano soltanto impressionati dal suo successo, e incapaci di dare il proprio giudizio contro quello che ritenevano un verdetto della storia" (p.103).

Ci sono altri termini, meno eufemistici, per dire di questo meccanismo: si sale sul carro del vincitore, si diventa più realisti del re (è il caso di molti giornalisti italiani, non responsabili della guerra, ma ardenti suoi sostenitori e per questo soprattutto propalatori di bugie che nemmeno Clinton direbbe: al primo bombardamento di una colonna di profughi, poi riconosciuto come "errore" dagli americani, in Italia si dicevano tutti convinti che era stata una manovra serba per dare la colpa agli americani). "Vi furono poche persone, nel Terzo Reich, che approvarono incondizionatamente i crimini successivi; ma in cambio furono molti coloro che [all’inizio] erano assolutamente pronti a commetterli" (p.114). Sono quelli che dopo la guerra si giustificarono dicendo che erano rimasti al loro posto, posizione secondo loro più "responsabile" di coloro i quali si ritirarono a vita privata. Il loro argomento è quello del male minore. "Quest’argomento dice che di fronte a due mali si è obbligati a scegliere quello minore, mentre sarebbe irresponsabile rifiutarsi addirittura di scegliere. Coloro i quali denunciano la fallacia morale di quest’argomento vengono normalmente accusati di sterile moralismo che nulla ha a che fare con la realtà della politica: gente che non è disposta a sporcarsi le mani". Su questo piano, secondo Arendt, è stato più il pensiero religioso che quello filosofico - ad eccezione di Kant - a respingere qualsiasi compromesso. Nel Talmud è scritto: "Se vi si chiede di sacrificare un uomo per il bene della comunità, non lo consegnate. Se vi si chiede di consegnare una donna da disonorare per la salvezza di altre donne, non lasciate che sia disonorata" (p. 115). Secondo Arendt la debolezza dell’argomento del male minore sta "nel fatto che chi sceglie il male minore dimentica rapidamente di aver scelto a favore di un male" (p. 115). Ancora di più Arendt osserva che questo argomento risale proprio all’epoca nazista, allo "armamentario terrorista e criminale. L’accettazione del male minore viene consapevolmente utilizzata per abituare i funzionari e la popolazione ad accettare in generale il male in sé" (p.116). Era cioè il meccanismo interno di funzionamento di un regime che aveva creato un nuovo diritto la cui pietra angolare era il comandamento "tu devi uccidere". Allora il problema non può essere il cambiamento dall’interno o il male minore, il problema è se dare o no il proprio consenso, il proprio sostegno di fatto a un regime di questo tipo. Il problema è il giudizio e la capacità di non confondere il consenso con l’obbedienza. Vale la pena di riportare per intero l’argomentazione finale di Arendt, avendo presente, come ormai spero si sia capito, il problema del giudizio, e in particolar modo il problema della necessità del giudizio - e le sue implicazioni - sulla guerra in corso.

"Coloro che non collaborarono e furono accusati di irresponsabilità dalla maggioranza, furono gli unici che osarono giudicare personalmente [non perché disponevano di un sistema di valori migliore, furono anzi "gli elementi della società rispettabile" i "primi a cedere cambiando semplicemente un sistema di valori con un altro"]. Direi dunque che coloro che non collaborarono si comportarono così perché la loro coscienza non funzionava in modo per così dire automatico - vale a dire come se disponessimo di una serie di regole apprese o innate che applichiamo quando occorre, cosicché ogni nuova esperienza o situazione è già giudicata a priori e non dobbiamo fare altro che eseguire quanto già sapevamo in anticipo o abbiamo appreso. Io credo invece che essi abbiano adottato un altro criterio: che si siano chiesti fino a che punto avrebbero potuto restare in pace con se stessi se avessero commesso certi atti, e che abbiano quindi preferito non commetterli. Non perché in questo modo il mondo sarebbe cambiato in meglio, ma perché solo a questa condizione essi potevano continuare a vivere restando se stessi. E quindi scelsero anche la morte quando furono costretti a collaborare. Per dirla in termini estremi: si rifiutarono di uccidere non perché ubbidivano rigorosamente al comandamento "non uccidere", ma piuttosto perché non volevano convivere con un assassino - cioè con se stessi. Il presupposto per formarsi questo tipo di giudizio non è un’intelligenza altamente sviluppata o un senso morale estremamente differenziato, ma semplicemente l’abitudine a convivere senza infingimenti con se stessi, a trovarsi in quel silenzioso colloquio tra sé e il proprio Io che da Socrate e Platone in poi siamo soliti chiamare "pensiero". Pur essendo la base di ogni filosofare, questo tipo di pensiero non è specialistico e non affronta questioni teoretiche. La linea di demarcazione tra chi giudica e chi non si forma un giudizio passa trasversalmente per tutte le differenze sociali, per tutte le differenze di civiltà e di cultura" (p.124).

Questo sintetico resoconto del testo di Hannah Arendt non rende appieno la ricchezza di articolazioni del suo pensiero. Tuttavia alcune considerazioni è possibile farle, soprattutto in relazione al tema del nostro incontro. Intanto possiamo considerare questo testo un modello per un approccio filosofico che nasce dal vivo dell’esperienza, dall’analisi di fatti concreti e di problemi che ci impegnano in quanto cittadini del mondo. Modello che contiene precise implicazioni, che rimandano ad altri luoghi della riflessione arendtiana. C’è il rifiuto del pensiero metafisico e dell’astrattezza universalistica. Il richiamo al dovere dell’obbedienza si sostanziava di tutta una tradizione di pensiero politico normativo in cui la comunità e la ragion di Stato rendevano "morale" l’espletamento del proprio dovere e l’obbedienza. Arendt dice che "gli uomini e non l’Uomo, vivono sulla Terra e abitano il mondo" (Vita activa, p. 7) e che l’agire politico si fonda su questa pluralità. L’agire politico, che per Arendt è la pratica che conferisce senso all’esistenza, non ha nulla a che fare col potere che dirige e impone, ma molto con la profonda necessità degli uomini di comunicare e di agire insieme, di darsi reciprocamente valore. Politica vuol dire quindi spazio dell’elaborazione - nel rispetto delle diversità - delle relazioni, dei fini, dei modi della convivenza senza che questi siano imposti dall’alto in nome di un idea di bene comune da cui inevitabilmente molti saranno esclusi. Lo spazio politico è quindi uno spazio potenziale, non fattuale, non dato una volte per tutte, fosse pure il migliore dei mondi possibili. E’ lo spazio della democrazia partecipata. Ricordiamo che chi durante il nazismo si ritirò a vita privata, comportamento che per noi è il contrario della partecipazione, in quel caso eccezionale assumeva l’unico comportamento adatto a chi è consapevole di non avere nessun potere decisionale. Si riservava lo spazio della dignità. Erano coloro che non si erano adattati al già giudicato, al verdetto della storia che rendeva fatale l’avvento del nazismo. Erano coloro che esercitavano il giudizio sulle cose, non applicando astrattamente e automaticamente principi generali. Era una situazione eccezionale, una situazione di conflitto in cui non si poteva ricorrere alle norme morali che fino a quel momento non avevano posto alcun problema. Possiamo immaginare oggi, la situazione di chi ha coltivato l’illusione che la guerra fosse finita in Occidente, che gli Stati fossero sovrani, che non potessero esistere guerre "giuste"; e a cui invece si dice che esistono guerre umanitarie, che esistono gli "errori" di chi bombarda ospizi e ambasciate, che occorre scegliere tra Milosevic e la Nato. Non siamo, ovviamente, nella situazione di doverci ritirare a fare vita privata, di nasconderci o di emigrare. Ma abbiamo la necessità di difendere l’autonomia del giudizio e di immaginare un luogo del dire e dell’agire politico che non sia quello della delega o del consenso conformista. Socrate al caffè? Socrate, Il Filosofo, girava per la città, brutto, ironico, inquietante. Fu condannato a morte perché insinuava il dubbio. Con lui i giovani non rispettavano più le sacre tradizioni, i miti della città e le illusioni della democrazia. Ma cosa faceva Socrate? Chiedeva le definizioni, insegniamo a scuola. Ma cosa sono le definizioni? Socrate chiedeva: cos’è la virtù? alla risposta, quella che tutti daremmo, diciamo quella che va per la maggiore - generica, banale, scontata, ragionevole e piena di buon senso - Socrate incalzava, ironizzava, demoliva, ampliava e restringeva il discorso, prendeva in giro e accompagnava per mano l’interlocutore. Fino a dove? Fino al luogo della consapevolezza, quando la risposta non fosse più quella dei più. Socrate non dà le definizioni, non scrive, aveva paura che il concreto, l’esperienza potesse rimettere in discussione tutto. E allora occorreva ricominciare. Il nome di Socrate è legato alla famosa massima "conosci te stesso". Il richiamo a conoscere se stessi non è un richiamo all’interiorità. Conosci te stesso significa parti da te per giudicare, per conoscere, rifletti, pensa con la tua testa e il tuo cuore. Il caffè è il luogo per eccellenza della chiacchiera inutile. L’accostamento a Socrate è invito a immaginare la distanza tra la piazza, l’agorà di Atene, e il caffè, in cui, rispetto alla piazza della città-stato, manca assolutamente il contatto con la città e i suoi problemi, manca un potere di decisione, per cui la chiacchiera diventa fine a se stessa. "Chiacchiere da bar" diciamo, a indicare il più basso livello delle discussioni. Metti però Socrate in questa specie di non-luogo - l’antropologo Marc Augé definisce così i luoghi privi di storia e di identità, sede dell’anonimato, come gli aeroporti e i supermercati - o meglio ancora, immaginalo in un luogo della città - la proposta dei circoli filosofici cittadini - in cui si riuniscono più di due persone per parlare, discutere. Non quindi la filosofia dell’accademia e degli addetti ai lavori, ma la filosofia come indagine e amore per la polis, per la politica. L’idea è quella di un "nuovo" prendersi carico dei problemi da parte dei cittadini. Ma questo pone altri problemi: chi sono i cittadini? Hanno un potere di decisione? In quali ambiti? (Io mi pongo il problema di cosa farò oggi pomeriggio se posso decidere cosa farò oggi pomeriggio; se non ho un potere di decisione semplicemente me ne frego, attendo che qualcuno mi dica cosa devo fare). Ho paura che su molte questioni, nella società complessa in cui viviamo, noi abbiamo un potere di decisione molto limitato. Anche perché abbiamo, per varie ragioni, smesso l’abito della critica, della riflessione (o non l’abbiamo mai avuto?). Cosa chiederebbe oggi Socrate ai suoi interlocutori? Quando ho fatto questa domanda ai miei alunni dapprima hanno detto la pace, poi, sottovoce, poiché io ho chiesto cosa veramente pensassero che interessava oggi, qualcuno ha detto il sesso. Sono entrambe risposte indicative del potere di decisione di cui parlavo prima. La pace è stata indicata perché era quello che si aspettavano io volessi, il sesso era il campo sul quale volevano sapere qualcosa di più, almeno fino a quando non si sono resi conto che la guerra, presentata dai mass-media, soprattutto all’inizio, in maniera così asettica e lontana, è in realtà molto vicina. E forse merita che cerchiamo di capire se ci resta un margine di potere di decisione in questo campo. Oggi Socrate mi chiederebbe, ci chiederebbe: Cos’è la guerra umanitaria? Cos’è il terrorismo? Cos’è la politica? Cos’è il giudizio? Perché sento questo senso di impotenza? O almeno questo è quello che io mi sono chiesta negli ultimi mesi. Non ho gli strumenti per affrontare un discorso di questo genere, né è questo il tema del nostro incontro. Però spesso, negli ultimi mesi, riflettendo su queste domande, e poi anche sul tema di questa sera, mi è venuto in mente uno scritto di Hannah Arendt, filosofa, o meglio pensatrice della politica, come preferiva definirsi. Un testo che ritengo interessante sia per chiarire il senso dell’incontro di questa sera, sia per proporre un tema possibile per una riflessione non accademica: il giudizio. Perché Hannah Arendt e perché un suo testo lo anticipo con le parole di Laura Boella, che ha dedicato ad Hannah Arendt - e ad altre filosofe - un libro dal titolo Cuori pensanti.

"Hannah Arendt parla intensamente alle nostre società deluse dalla politica, in quanto richiama a un’idea di potere come capacità di iniziativa, non titolarità di un ruolo o di un’autorità per disporre dei destini altrui. E richiama anche a un’idea della politica che è dimensione esistenziale, attraversa ogni forma di attività e di esperienza, non è tecnica di governo, ma arte e piacere di stare insieme, di scambiare idee e parole" 2.

Nata nel 1906, morta nel 1975, ebrea tedesca, allieva di Heidegger e di Jaspers , Hannah Arendt ha come orizzonte di pensiero il periodo tra le due guerre, il nazismo e il totalitarismo. Occorre tenerne conto, come e più che per altri pensatori, perché il suo pensiero cresce sulle cose, sui problemi, sugli eventi drammatici fra le due guerre. La questione ebraica, il nazismo, il totalitarismo, la società di massa, la libertà, l’agire politico, l’identità, la differenza. Sono le sue esperienze, la sua vicenda esistenziale - soprattutto l’esperienza dello sradicamento - che diventano problema filosofico. Il risultato della sua riflessione è la comprensione forse più acuta di questi fenomeni della storia del nostro secolo. Nel 1933, con l’ascesa al potere di Hitler è costretta a lasciare la Germania e a emigrare in Francia. Arrestata nella primavera del 1940 per la sua attività a sostegno delle comunità ebraiche, riesce a fuggire e a rifugiarsi negli Stati Uniti, ottenendone la cittadinanza. Qui insegna filosofia della politica alla "New School for Social research" di New York. Nel 1961 fu inviata dal periodico "The New Yorker" a Gerusalemme per seguire e commentare il processo a Rudolf Eichmann, il gerarca nazista responsabile dell’olocausto e catturato dal Mossad in Sud America dove si era nascosto. Queste cronache, poi raccolte in un volume che in Italia è stato tradotto nel 1964 col titolo La banalità del male. Eichmann in Gerusalemme, da Feltrinelli, suscitarono una polemica, nata soprattutto, dice Arendt, da fraintendimenti, come spesso accade (il concetto di banalità del male, rimasto a indicare l’orrore dei campi di sterminio nazisti, subì una varietà di interpretazioni). Su queste cronache, e sul dibattito che suscitarono, nel 1964 Arendt scrive La responsabilità personale sotto la dittatura, che è il testo di cui prima dicevamo.

Non intendo in questo modo fare paragoni tra i fatti sui quali oggi proviamo a riflettere e quelli sui quali rifletteva Arendt. Niente di più lontano da un’arendtiana convinta del valore dell’esperienza particolare e della necessità di un giudizio che nasce dalle cose e non applica pedissequamente norme e principi generali. Credo però che alcune questioni che il testo solleva ci possano essere utili. Utili soprattutto a tener desta l’attenzione sui rischi sempre in agguato per la società di massa in cui viviamo.

Il testo dunque. Arendt segue il processo al criminale nazista Eichmann (sarà poi condannato a morte dal tribunale israeliano). Quello che la colpisce, e che spinge la sua analisi, è la assoluta tranquillità, anzi la assoluta normalità di Eichmann, un "banale" mostro: un uomo che poteva compiere quei crimini e sentirsi tranquillo, giocare coi bambini, essere un buon padre di famiglia. Non condivide né la linea dell’accusa né quella della difesa: l’accusa pretendeva di processare, con Eichmann, un sistema; la difesa, e l’imputato in primo luogo, ribattevano che non si era trattato d’altro che di ubbidire agli ordini. In entrambi i casi veniva sottovalutata la responsabilità personale. Arendt dimostra quindi in primo luogo che esiste una responsabilità personale, esiste nel caso di Eichmann, esiste nel caso di tutti gli altri "burocrati" nazisti processati in quegli anni. Assodato questo resta il problema di capire come sia stata possibile l’esistenza di tanti Eichmann, considerando che non solo si trattava di ubbidire agli ordini ma, spesso, di condividerli. Per quanto riguarda il primo punto: "Io ero partita dalla convinzione che noi fossimo pur sempre d’accordo con Socrate che affermava: ’E’ meglio subire un torto anziché farlo’". Non era così, il ragionamento che si faceva era che fosse impossibile resistere a qualsiasi tentazione. Citazione da Mary McCarty (amica e corrispondente di Arendt): "Se uno ti punta addosso un fucile e ti dice ’uccidi il tuo amico o io uccido te’, egli ti induce in tentazione, ecco tutto". Può esserci una giustificazione giuridica, non morale. In realtà c’era, secondo Arendt, nel dibattito suscitato dalle cronache, una diffusa paura di giudicare. Era più facile ricorrere al concetto di colpa collettiva o, come voleva la difesa e Eichmann, alla figura del capro espiatorio, che si assume le responsabilità di tutti e che per questo può sperare di farla franca. Tutti colpevoli è come dire nessuno colpevole.

(Mi è capitato a scuola di mio figlio. In gita scolastica i ragazzi avevano messo un sonnifero nelle bevande dei professori - volevano andare a ballare fino a notte tarda. Qualcuno ci riflette , confessa. Al ritorno si imbandisce un processo , per far crescere i ragazzi , farli riflettere sul tema dell’omertà, farli confessare tutti, soprattutto quelli che, sapendolo, non lo hanno detto in tempo ai professori. I ragazzi, probabilmente guidati da qualche genitore, hanno scelto la soluzione del capro espiatorio. Uno solo di loro , quello che , per avere la madre che prendeva sonniferi e il padre medico, poteva facilmente essere individuato come chi era in possesso del sonnifero, si accollò la responsabilità, facendolo in modo tale, con l’aiuto determinante della difesa materna, da risultare alla fine il vero eroe. Coperti i singoli responsabili del gruppo che aveva architettato tutto, i veri rei risultarono alla fine coloro che avendolo poi saputo, non avevano confessato immediatamente - tra cui mio figlio, superficiale come tanti - che hanno dalla loro però il fatto che non avevano avuto il tempo di riflettere e di avere rimorsi come il ragazzo che poi confessò. Diversi livelli di responsabilità - non fu nemmeno menzionata la possibile responsabilità di chi aveva permesso che dei ragazzi in gita potessero procurarsi e mettere un sonnifero nelle bevande - trattati in maniera assolutamente diseguale e un processo altamente diseducativo).

E’ lo stesso principio che vale in una società burocratizzata come quella nazista, è il principio delle rotelle dell’ingranaggio, che faceva perdere di vista che quello che si giudicava era un uomo. Al quale si può, nel processo, ribattere: "E perché lei è diventato una rotella del sistema o lo è rimasto, se quelle erano le circostanze?". Parte da qui la riflessione sul regime totalitario, che Arendt distingue dalle dittature, dallo stesso fascismo. Da un lato si chiede come fu possibile l’adesione di molti, un’intera generazione, al nazismo, dall’altro tenta di rispondere a chi, fra questi, accusa coloro che non collaborarono per non essersi assunti la responsabilità di cambiare dall’interno il regime, di rimanere al loro posto per esercitare un’azione moderatrice e salvare almeno qualcuno. L’adesione "non era una simulazione ipocrita dettata dalla paura, ma il fervore improvviso di non perdere il treno della storia. Da un giorno all’altro ci fu un cambiamento di opinioni per così dire sincero, che coinvolse la grande maggioranza della gente di tutti i ceti e mestieri, e che allora fu accompagnato dall’incredibile facilità con cui furono bruscamente troncate amicizie di una vita. Per farla breve: quel che ci sconvolgeva non era il comportamento dei nostri nemici, ma quello dei nostri amici, senza che questi avessero fatto nulla perché ciò accadesse. Essi non erano responsabili del nazismo; erano soltanto impressionati dal suo successo, e incapaci di dare il proprio giudizio contro quello che ritenevano un verdetto della storia" (p.103).

Ci sono altri termini, meno eufemistici, per dire di questo meccanismo: si sale sul carro del vincitore, si diventa più realisti del re (è il caso di molti giornalisti italiani, non responsabili della guerra, ma ardenti suoi sostenitori e per questo soprattutto propalatori di bugie che nemmeno Clinton direbbe: al primo bombardamento di una colonna di profughi, poi riconosciuto come "errore" dagli americani, in Italia si dicevano tutti convinti che era stata una manovra serba per dare la colpa agli americani). "Vi furono poche persone, nel Terzo Reich, che approvarono incondizionatamente i crimini successivi; ma in cambio furono molti coloro che [all’inizio] erano assolutamente pronti a commetterli" (p.114). Sono quelli che dopo la guerra si giustificarono dicendo che erano rimasti al loro posto, posizione secondo loro più "responsabile" di coloro i quali si ritirarono a vita privata. Il loro argomento è quello del male minore. "Quest’argomento dice che di fronte a due mali si è obbligati a scegliere quello minore, mentre sarebbe irresponsabile rifiutarsi addirittura di scegliere. Coloro i quali denunciano la fallacia morale di quest’argomento vengono normalmente accusati di sterile moralismo che nulla ha a che fare con la realtà della politica: gente che non è disposta a sporcarsi le mani". Su questo piano, secondo Arendt, è stato più il pensiero religioso che quello filosofico - ad eccezione di Kant - a respingere qualsiasi compromesso. Nel Talmud è scritto: "Se vi si chiede di sacrificare un uomo per il bene della comunità, non lo consegnate. Se vi si chiede di consegnare una donna da disonorare per la salvezza di altre donne, non lasciate che sia disonorata" (p. 115). Secondo Arendt la debolezza dell’argomento del male minore sta "nel fatto che chi sceglie il male minore dimentica rapidamente di aver scelto a favore di un male" (p. 115). Ancora di più Arendt osserva che questo argomento risale proprio all’epoca nazista, allo "armamentario terrorista e criminale. L’accettazione del male minore viene consapevolmente utilizzata per abituare i funzionari e la popolazione ad accettare in generale il male in sé" (p.116). Era cioè il meccanismo interno di funzionamento di un regime che aveva creato un nuovo diritto la cui pietra angolare era il comandamento "tu devi uccidere". Allora il problema non può essere il cambiamento dall’interno o il male minore, il problema è se dare o no il proprio consenso, il proprio sostegno di fatto a un regime di questo tipo. Il problema è il giudizio e la capacità di non confondere il consenso con l’obbedienza. Vale la pena di riportare per intero l’argomentazione finale di Arendt, avendo presente, come ormai spero si sia capito, il problema del giudizio, e in particolar modo il problema della necessità del giudizio - e le sue implicazioni - sulla guerra in corso.

"Coloro che non collaborarono e furono accusati di irresponsabilità dalla maggioranza, furono gli unici che osarono giudicare personalmente [non perché disponevano di un sistema di valori migliore, furono anzi "gli elementi della società rispettabile" i "primi a cedere cambiando semplicemente un sistema di valori con un altro"]. Direi dunque che coloro che non collaborarono si comportarono così perché la loro coscienza non funzionava in modo per così dire automatico - vale a dire come se disponessimo di una serie di regole apprese o innate che applichiamo quando occorre, cosicché ogni nuova esperienza o situazione è già giudicata a priori e non dobbiamo fare altro che eseguire quanto già sapevamo in anticipo o abbiamo appreso. Io credo invece che essi abbiano adottato un altro criterio: che si siano chiesti fino a che punto avrebbero potuto restare in pace con se stessi se avessero commesso certi atti, e che abbiano quindi preferito non commetterli. Non perché in questo modo il mondo sarebbe cambiato in meglio, ma perché solo a questa condizione essi potevano continuare a vivere restando se stessi. E quindi scelsero anche la morte quando furono costretti a collaborare. Per dirla in termini estremi: si rifiutarono di uccidere non perché ubbidivano rigorosamente al comandamento "non uccidere", ma piuttosto perché non volevano convivere con un assassino - cioè con se stessi. Il presupposto per formarsi questo tipo di giudizio non è un’intelligenza altamente sviluppata o un senso morale estremamente differenziato, ma semplicemente l’abitudine a convivere senza infingimenti con se stessi, a trovarsi in quel silenzioso colloquio tra sé e il proprio Io che da Socrate e Platone in poi siamo soliti chiamare "pensiero". Pur essendo la base di ogni filosofare, questo tipo di pensiero non è specialistico e non affronta questioni teoretiche. La linea di demarcazione tra chi giudica e chi non si forma un giudizio passa trasversalmente per tutte le differenze sociali, per tutte le differenze di civiltà e di cultura" (p.124).

Questo sintetico resoconto del testo di Hannah Arendt non rende appieno la ricchezza di articolazioni del suo pensiero. Tuttavia alcune considerazioni è possibile farle, soprattutto in relazione al tema del nostro incontro. Intanto possiamo considerare questo testo un modello per un approccio filosofico che nasce dal vivo dell’esperienza, dall’analisi di fatti concreti e di problemi che ci impegnano in quanto cittadini del mondo. Modello che contiene precise implicazioni, che rimandano ad altri luoghi della riflessione arendtiana. C’è il rifiuto del pensiero metafisico e dell’astrattezza universalistica. Il richiamo al dovere dell’obbedienza si sostanziava di tutta una tradizione di pensiero politico normativo in cui la comunità e la ragion di Stato rendevano "morale" l’espletamento del proprio dovere e l’obbedienza. Arendt dice che "gli uomini e non l’Uomo, vivono sulla Terra e abitano il mondo" (Vita activa, p. 7) e che l’agire politico si fonda su questa pluralità. L’agire politico, che per Arendt è la pratica che conferisce senso all’esistenza, non ha nulla a che fare col potere che dirige e impone, ma molto con la profonda necessità degli uomini di comunicare e di agire insieme, di darsi reciprocamente valore. Politica vuol dire quindi spazio dell’elaborazione - nel rispetto delle diversità - delle relazioni, dei fini, dei modi della convivenza senza che questi siano imposti dall’alto in nome di un idea di bene comune da cui inevitabilmente molti saranno esclusi. Lo spazio politico è quindi uno spazio potenziale, non fattuale, non dato una volte per tutte, fosse pure il migliore dei mondi possibili. E’ lo spazio della democrazia partecipata. Ricordiamo che chi durante il nazismo si ritirò a vita privata, comportamento che per noi è il contrario della partecipazione, in quel caso eccezionale assumeva l’unico comportamento adatto a chi è consapevole di non avere nessun potere decisionale. Si riservava lo spazio della dignità. Erano coloro che non si erano adattati al già giudicato, al verdetto della storia che rendeva fatale l’avvento del nazismo. Erano coloro che esercitavano il giudizio sulle cose, non applicando astrattamente e automaticamente principi generali. Era una situazione eccezionale, una situazione di conflitto in cui non si poteva ricorrere alle norme morali che fino a quel momento non avevano posto alcun problema. Possiamo immaginare oggi, la situazione di chi ha coltivato l’illusione che la guerra fosse finita in Occidente, che gli Stati fossero sovrani, che non potessero esistere guerre "giuste"; e a cui invece si dice che esistono guerre umanitarie, che esistono gli "errori" di chi bombarda ospizi e ambasciate, che occorre scegliere tra Milosevic e la Nato. Non siamo, ovviamente, nella situazione di doverci ritirare a fare vita privata, di nasconderci o di emigrare. Ma abbiamo la necessità di difendere l’autonomia del giudizio e di immaginare un luogo del dire e dell’agire politico che non sia quello della delega o del consenso conformista. Hannah Arendt, Tra passato e futuro,Garzanti (1991) ristampa 2001, introduzione di Alessandro del Lago. Tema della tradizione, l’impossibilità di trasmettere tra le generazioni in assenza di un agire politico. C’entra anche l’istruzione. (ma è poco convincente il saggio ad essa più specificamente dedicato: La crisi dell’istruzione. Il libro è stato pubblicato per la prima volta nel 1961 a cui vennero aggiunti poi due saggi nella ristampa del 1968 .

Le opere Vita activa. La condizione umana, Milano 1989 (1958) (VA) Le origini del totalitarismo , Milano 1967 Sulla rivoluzione, Milano 1983 Tra passato e futuro, Milano 1991 Il futuro alle spalle, Bologna 1981 La vita della mente, Bologna 1987 Teoria del giudizio politico, il Melangolo, Genova, 1990 Rahel Varnhagen. Storia di una ebrea, a c. di Lea Ritter Santini, Milano, Il Saggiatore, 1988(RV)

Hannah Arendt, Tra passato e futuro,Garzanti (1991) ristampa 2001, introduzione di Alessandro del Lago. Tema della tradizione, l’impossibilità di trasmettere tra le generazioni in assenza di un agire politico. C’entra anche l’istruzione. (ma è poco convincente il saggio ad essa più specificamente dedicato: La crisi dell’istruzione. Il libro è stato pubblicato per la prima volta nel 1961 a cui vennero aggiunti poi due saggi nella ristampa del 1968 .


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