Social-mafia
Non è ancora il momento di ‘ndranghernet o di youmafia, ma è tempo di riconoscere ad Andy Wharol una certa capacità profetica: «nel futuro ognuno sarà famoso per 15 minuti».
Si vive connessi e, così vivendo, si rischia di incappare in Rete in una delle tante auto-rappresentazioni mafiose, quelle roboanti e muscolari, prove di forza dell’opulenza spesso sgraziata e kitsch dei boss o dei loro rampanti rampolli, quella di auto potenti e tatuaggi dal denso significato comunicativo, quella delle donne piuttosto appariscenti da patriarcato inossidabile o dei simboli dorati della ricchezza: orologi, catenine, braccialetti. A volte, i braccialetti sono catene, manette, largamente presenti come emoticon, insieme a leoni e cuori, cuori di amanti o spose che, a casa, attendono il ritorno del guerriero, il valoroso che abbatterà gli infami che lo hanno tradito e spedito al gabbio, accompagnato dalla colonna sonora di Niko Pandetta o Daniele De Martino.
Non è ancora il momento di ‘ndranghernet o di youmafia, ma è tempo di riconoscere ad Andy Wharol una certa capacità profetica: «nel futuro ognuno sarà famoso per 15 minuti». Era il 1968, il web era ancora di là da venire, ma il talentuoso esponente della pop art statunitense aveva la vista lunga. La Rete concede a tutti la parola, quale che sia, l’immagine, quale che sia, indipendentemente dalla grammatica e dalla sintassi, dal contenuto e dalla forma che accompagna lo stesso contenuto.
Nel mondo virtuale, che di fatto è realtà collettiva e della realtà si nutre e la nutre, si muove inevitabilmente pure la galassia mafiosa, i cui simpatizzanti – scrivono Antonio Nicaso e Francesco Mantovani – «promuovono il “brand” attraverso un’estetica del potere che esalta il lusso e l’onore, e quindi il successo dell’organizzazione anche attraverso il ricordo di chi ha dato la vita e di chi ha patito il carcere per giungere a questo risultato» (Prefazione a “Le mafie nell’era digitale. Rappresentazione e immaginario della criminalità organizzata, da Wikipedia ai social media”, primo rapporto della Fondazione Magna Grecia, a cura di Marcello Ravveduto, 2023; reperibile in Rete).
Altro che mafia silente. Ammesso, come sostengono Nicaso e Mantovani e come ribadisce il procuratore di Napoli, Nicola Gratteri, in ogni sua comparsata in tv, sia mai stata silente, visto che i «boss si annacavano [pavoneggiavano, n.d.r.] nel loro incedere vanitoso. C’era chi indossava un foulard rosso e chi abiti particolari che davano nell’occhio. Molti facevano uso di tatuaggi, spesso per contrassegnare il loro rango all’interno dell’organizzazione. Chi doveva capire, capiva. I boss dell’Ottocento non si muovevano sempre nell’ombra». Quelli del Novecento – i Riina, per intenderci – hanno cercato di essere ancora meno silenti, ma a loro è andata male. Il fragore delle bombe è stato troppo eclatante e irruento.
La mafia parla e, assomigliandoci, parla sul web, come si è detto. Proprio la presenza delle mafie in Rete è stato oggetto di un convegno tenutosi ai Giardini del Massimo di Palermo il giorno 4 dicembre scorso. “Organized crime in the internet age” è il titolo di un incontro volto a riflettere, nella prima parte, su come le organizzazioni criminali sfruttino il mondo virtuale e, nella seconda parte, come in Italia e altrove si stia fronteggiando a livello normativo il fenomeno.
Il quadro emerso dai due diversi momenti dell’iniziativa è, in sé, interessante. Tra i relatori del primo nucleo tematico, vi è Pasquale Angelosanto, generale di Corpo d’armata e già comandante dei Ros, che ha parlato della “crypto telefonia”: l’ufficiale ha, da un lato, rimarcato la natura sempre più imprenditoriale e planetaria delle mafie, e, dall’altro, ha sottolineato come ormai i boss facciano uso di “crypto telefonini”, ossia device elaborati in modo tale da non essere intercettati dalle forze dell’ordine. Walter Rauti – Research Fellow PNRR Lab SDA Bocconi – ha sottolineato un altro aspetto, ossia la capacità delle mafie di agire sulla privacy degli individui, di entrare nel sistema di indagini interforze con i loro hacker oppure nelle cartelle cliniche di telemedicina o, ancora, di infangare la credibilità di un individuo generando fake news ben veicolate. Una mafia che «sa infiltrarsi senza neanche più corrompere», ha aggiunto.
E se la Rete è uno strumento di accrescimento del patrimonio mafioso, è anche, come si è detto, un potente mezzo di propaganda e consenso. È proprio Marcello Ravveduto, docente di Digital Public History presso le università di Salerno, Modena e Reggio Emilia, a mettere in evidenza l’influenza sociale che le mafie esercitano attraverso i social network, «intervenendo pubblicamente nel proprio territorio, occupando il territorio virtuale e mostrando la ricchezza di questo mondo». Bravi imprenditori, suggerisce ancora l’accademico, di un brand chiamato mafia.
Ricchezza, potere, forza, violenza, droga, alcolici e morte. Perché social-mafia non dimentica i suoi figli morti in quella violenza e per quella violenza. «Boss e morti ammazzati muoiono nella vita reale, ma online restano in vita grazie alla prolifica attività memoriale portata avanti nei social network». Così, afferma il sopra citato rapporto della Fondazione Magna Grecia. E in Rete si trova, allora, il culto di ES 17, Emanuele Sibillo, baby boss ucciso nel 2015 ad appena vent’anni; il 17 è la “S” del cognome, ma anche il numero sfortunato da esorcizzare, tatuato sul petto tra le fiamme. Capello da moicano e barba da mujahidin, Sibillo è diventato un modello di riferimento per tanti giovani che seguono la strada della paranza – espressione che indica il gruppo, la cosca, spesso di giovanissimi camorristi – e che ritrovano sul web frasi e detti di questo giovane tornato alla vita grazie al mondo digitale.
Propaganda e arricchimento, dunque, sono almeno due degli obiettivi di social-mafia. Ampio è il ventaglio dell’uso del web, come affermano ancora Nicaso e Mantovani: per i boss, i social media sono «come la muleta per i tori. Li utilizzano per reclutare nuovi affiliati, misurare il consenso, comunicare minimizzando il rischio di essere intercettati, pianificare le loro attività criminali, sfoggiare ricchezza come dimostrazione di prestigio sociale e minacciare gli avversari in una dimensione sempre più ibrida: digitale e analogica, virtuale e reale».
Davanti a questo uso estensivo, e criminale, del mondo virtuale, qual è la risposta dello Stato, quali sono le difficoltà delle agenzie di contrasto istituzionali? La seconda parte del convegno palermitano offre alcuni spunti di riflessione, a partire da un dato condiviso da tutti i relatori, ossia il vuoto legislativo che accompagna la crescita delle mafie nella Rete. Già in mattinata, Antonio Nicaso, riferendosi alle organizzazioni criminali e al loro sapiente uso della realtà digitale, aveva osservato che «loro sono veloci e, purtroppo, la normativa vigente arranca. […] Per problemi globali sono necessari rimedi globali», ossia far sì che non esistano asimmetrie normative, paradisi normativi e fiscali.
Considerazioni, queste, a cui si sono aggiunte preoccupazioni non dissimili da parte di altri ospiti del convegno. Da Antonio Baldassarre, presidente emerito della Corte costituzionale, che ha rilevato la difficoltà nella quale si trovano i pubblici poteri nel contrastare tali attività, ad Antonio Balsamo, sostituto procurato generale della Corte di Cassazione, che ha parlato della necessità di una «riforma modernizzatrice sulla base degli sviluppi della tecnologia, specie per i messaggi criptati», a Francesco Greco, presidente del Consiglio nazionale forense, il cui intervento si è focalizzato sull’intelligenza artificiale, strumento che «può essere usato dalla criminalità organizzata come mezzo di conoscenza» e che richiede, quindi, un impianto normativo adeguato per regolarla, «visto che è ingovernabile». Sull’IA, si è soffermato pure il viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, sottolineando come ci siano «dei rischi evidenti di creare messaggi falsificati». Nella stessa direzione si sono mosse le considerazioni di Marzia Sabella, procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Palermo: «manca la capacità di perseguire i reati sul web ed è necessario investire nella preparazione tecnologica degli organi inquirenti […]. Una cosa è inseguire i ‘pizzini’, un’altra cosa è trovare le chat criptate».
Nuove regole, ridurre il gap tecnologico tra mafie e forze inquirenti – polizia giudiziaria e magistrature –, diminuire, per quanto possibile, le difformità normative tra Stato e Stato, a fronte di un fenomeno planetario, globale, transnazionale, che gioca proprio su tali asimmetrie per eludere i reticoli legislativi. Questo è il progetto, questi sono i deficit davanti ai quali si trovano tutti gli Stati, senza eccezioni.
Un web privo di regole è la manna per le mafie, un far-web selvaggio e, quindi, accattivante. Chissà cosa potrebbe rispondere la tanto celebrata intelligenza artificiale, manomessa da mani capaci, alla domanda: «cos’è la mafia?». L’abbraccio solidaristico tra membri di famiglie dotate di forte senso identitario e solidali contro le vessazioni di uno Stato iniquo? La percezione dell’appartenenza a un gruppo di persone che hanno scelto la condivisione di risorse e mezzi di sopravvivenza per galleggiare, senza affogare, nella lotta per la vita? La prassi quotidiana di chi, nel mondo selvaggio, si adopera per rivendicare orgogliosamente la propria indipendenza dalle mode accelerate ed effimere e riaffermare i pilastri dei valori tradizionali?
Dalla lontana Conca d’Oro a TikTok, questo camaleonte chiamato mafie ha saputo cavalcare i secoli, giovandosi dell’appoggio dei forti, dell’invidia, ammirazione e/o della paura dei deboli o degli insoddisfatti, della scarna dottrina contemporanea del successo personale da conseguire in qualsiasi modo e a ogni costo. Social-mafia ha trovato nel web il suo spazio privilegiato, dal quale cantare, con Niko Pandetta, «Maresciallo, non ci prendi / un’ora sei stipendi / sono con la mia fam’ / dentro al club, coca e rum / compro tre appartamenti / pago in pezzi da venti» (“Pistola nella Fendi”).
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