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Siamo tutti Sallusti? No, grazie. Io no!

Festival dell’ipocrisia nella difesa bipartisan del direttore del "Giornale". Tutti parlano di attentato alla libertà d’opinione e invece è solo diffamazione. Il ruolo dell’Ordine dei giornalisti: due pesi e due misure

di Adriano Todaro - martedì 2 ottobre 2012 - 2880 letture

La galera non la auguro a nessuno. Non mi fa mai piacere apprendere che qualcuno è finito in galera. Perché so che non serve a nulla e il più delle volte è deleteria e non "rieduca" affatto. Un giornalista italiano, Alessandro Sallusti, è stato condannato, in via definitiva, alla pena di 14 mesi di reclusione. Così ha deciso mercoledì 26 settembre la Cassazione. Conferma di condanna perché secondo la suprema corte, la notizia pubblicata il 18 febbraio 2007 su Libero, non rientra nel reato di opinione ma si tratta di "pubblicazione consapevole di notizie palesemente false".

Alla notizia della condanna, è immediatamente scattata la solidarietà di tutti, destra e sinistra, politici, giornalisti, autorevoli commentatori, sindacato e Ordine dei giornalisti. Tutti uniti, al di là delle personali opinioni politiche, per cercare di non far andare in galera il direttore de il Giornale. Opera certamente nobile ma ammantata di ipocrisia. Sì, perché è terribilmente ipocrita difendere un giornalista noto e fregarsene, altamente, quando altri giornalisti molto meno noti, senza potere, hanno problemi non solo con la magistratura ma anche con l’ultimo assessore del piccolo centro dove scrivono. Quelli pagati 3 euro al pezzo. Quelli che rinunciano alle false o mezze verità. Quelli esposti alle tante violenze e non solo psicologiche.

Pensate che se ci fosse stato al posto di Sallusti un anonimo direttore di un piccolo giornale, ci sarebbe stato così tanto impegno, da parte di tutti, nel difenderlo? Forse che il direttore della Voce della Brianza (testata inventata) abbia meno diritto di vedersi appoggiato da innumerevoli esponenti del giornalismo e della politica?

Ricordiamoci sempre che quando uccidono a Catania Giuseppe Fava, il sindacato dei giornalisti si guarda bene dal partecipare alle esequie. "Questione di donne" si è subito malignato. Quindi meglio non farsi vedere. E come dimenticare tanti bravissimi colleghi, penalizzati e lasciati soli nel momento in cui avevano più bisogno?

Ora bisogna salvare il soldato Sallusti ma prima di dire qualcosa su questa ipocrisia, su questo tentativo di salvataggio, vorrei analizzare la vicenda che è al centro della sua condanna. Il 18 febbraio 2007 esce su Libero, diretto in quel momento da Alessandro Sallusti, un articolo dal titolo: "Il giudice ordina l’aborto. La legge più forte della vita". L’occhiello chiarisce: "Il dramma di una tredicenne". L’articolo è firmato con uno pseudonimo: Dreyfus. Chi si nasconda dietro il nome dell’ufficiale ebreo francese condannato nel 1894 per tradimento, non lo sappiamo ufficialmente, anche se molti l’ascrivono a Farina "Betulla".

Il punto però non è questo ma cosa dice l’articolo in questione. E’ un articolo violentissimo in cui si parla di una ragazzina di 13 anni rimasta incinta e "costretta" ad abortire. Nell’articolo si cita Salomone, Caino, l’Eneide, Priamo, i lager nazisti e i gulag comunisti. Tutti uniti in un’unica marmellata. L’incipit di Dreyfus è brutale: "Una adolescente di Torino è stata costretta dai genitori a sottomettersi al potere di un ginecologo che, non sappiamo se con una pillola o con qualche attrezzo, le ha estirpato il figlio e l’ha buttato via. Lei proprio non voleva. Si divincolava. Non sapeva rispondere alle lucide deduzioni di padre e madre sul suo futuro di donna rovinata. Lei non sentiva ragioni perché più forte era la ragione del cuore infallibile di una madre".

Poi l’articolo ha un crescendo da gran guignol. I genitori hanno deciso che il bene della figlia fosse l’aborto: "In elettronica si dice: reset. Cancellare. Ripartire da zero. Strappare in fretta quel grumo dal ventre della bimba...". E qua l’articolista si produce in modo interessato, diciamo così, al tempo libero di quella famiglia che non conosce. Parlando dei genitori della ragazzina li immagina affaticati "a portare avanti e indietro la pupa da casa a scuola e ritorno, in macchina con la coda, poi a danza, quindi in piscina. Ora che lei [la ragazzina-Ndr] era indipendente, ecco che si sarebbero ritrovati un rompiballe urlante e la figlia con i pannolini per casa... Hanno pensato che in fondo era sì sincera, ma poi avrebbero prevalso in lei i valori forti delle Maldive e della discoteca del sabato sera... E una vacanza caraibica l’avrebbe riconciliata dopo i disturbi sentimentali tipici dell’età evolutiva".

Dreyfus dà al lettore altre notizie quasi fosse stato presente, in diretta, al momento del ricovero della ragazzina in ospedale: "Ora la piccola madre (si resta madri anche se il figlio è morto) è ricoverata pazza in un ospedale. Aveva gridato invano: Se uccidete mio figlio, mi uccido anch’io". A questo punto poteva mancare la solita tirata sulla pena di morte? No, certo. Ed ecco che l’anonimo giornalista chiarisce a tutti che "ci sono ferite che esigerebbero una cura che non c’è. Qui non esagero. Ma prima domani di pentirmi, lo scrivo: se ci fosse la pena di morte, e se mai fosse applicabile in una circostanza, questo sarebbe il caso. Per i genitori, il ginecologo e il giudice...".

Gli articoli (in realtà c’era anche un altro articolo su questa vicenda a firma Andrea Monticone), erano stati giudicati diffamatori dal giudice tutelare Giuseppe Cocilovo che aveva querelato il giornale. A questo punto Libero poteva pubblicare una smentita, considerato che diversi organi di stampa e ben quattro lanci dell’agenzia Ansa ricostruivano la vicenda nei suoi corretti termini. Cocilovo ha anche fatto la proposta di rimettere la querela se Libero avesse versato 20 mila euro all’associazione Save the Children. Ma Sallusti non ha fatto né la smentita né ha accettato di dare i soldi in beneficenza. Da qui, alla fine, la condanna.

Vorrei anche ricordare che i giornalisti hanno l’obbligo di "correggersi" anche in assenza di formale richiesta di rettifica. La Carta dei doveri del giornalista impegna lo stesso a rettificare "anche in assenza di specifica richiesta, le informazioni che dopo la loro diffusione si siano rivelate o errate, soprattutto quando l’errore possa ledere o danneggiare singole persone, enti, categoria, associazioni o comunità". Tutto ciò Sallusti non l’ha fatto. E qua entra in gioco la professionalità del giornalista.

Sì perché nelle dichiarazioni, in molti si sono appellati al fatto che Sallusti sia un ottimo professionista. Che non c’entra nulla ma che vale la pena sottolineare per definire meglio il personaggio. Io ritengo invece che sia uno dei tanti opportunisti congeniali al potere. Non perché non abbia i numeri per lavorare al meglio ma perché fa parte di quella moltitudine di professionisti dell’informazione sempre proni ai voleri del padrone, qualunque esso sia.

Mi sembra che ci si meravigli molto dal fatto che l’articolo in questione non l’abbia scritto Sallusti ma un "anonimo". Ma la responsabilità è del direttore responsabile perché così dice la legge e perché così è giusto che sia. In caso contrario che ci starebbe a fare un direttore responsabile?

E questo discorso ci porta alle varie prese di posizioni. Il direttore di Repubblica, Ezio Mauro ricorda che "Non si può andare in galera per un’opinione anzi per il mancato controllo su un’opinione altrui. E’ una decisione che deve suscitare scandalo". Gli fa eco il direttore del Corriere, Ferruccio De Bortoli: "E’ davvero molto grave che si arrivi ad ipotizzare il carcere per un collega su un cosiddetto reato d’opinione. E’ un momento molto basso della nostra civiltà giuridica". Per l’attuale direttore di Libero, Maurizio Belpietro, "Questo mestiere non si può più fare. Se i giornalisti devono pagare con la propria libertà le opinioni che esprimono, non si può più fare". Secondo Lucia Annunziata, direttora dell’edizione italiana dell’Huffington Post, "La notizia della conferma della condanna a Sallusti è terribile. E’ una cosa sbagliatissima e un precedente inquietante" e per Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, "Nessuno dovrebbe andare in carcere per questo reato". Gad Lerner, invece, si concentra sull’eccessività della pena: "La sentenza è eccessiva nella pena comminata e quindi sbagliata".

E gli istituti dei giornalisti? Per il segretario della Fnsi (il sindacato dei giornalisti), Franco Siddi la sentenza "sconfigge e mortifica la libertà di espressione, e priva un uomo della libertà personale. I giornalisti sapranno dare una risposta unitaria e straordinaria, oggi dobbiamo sentirci tutti condannati come Sallusti" e propone "spazi bianchi" sulle prime pagine dei giornali. Enzo Iacopino, segretario dell’Ordine dei giornalisti parla di "intimidazione a mezzo sentenza, un’intimidazione a tutti i giornalisti". E così continua: "La Corte costituzionale ha scritto che la libertà di informazione è la pietra angolare del nostro sistema democratico. Da oggi si sentono preoccupanti scricchiolii".

Le dichiarazioni dei politici si equivalgono. Ma due sono sopra tutte le altre. Roberto Maroni segretario della fu Lega fa un invito a Sallusti: "Resisti, resisti, resisti" mentre la fidanzata del direttore del Giornale, Daniela Santanché, si appella alla piazza: "Questo Paese fa schifo e spero che gli italiani scendano in piazza perché abbiamo raschiato il fondo. Sono sotto shock".

Penso che gli italiani abbiamo da pensare a cose più importanti che scendere in piazza per salvare dalla galera Sallusti. Quello che però fa specie e che nessuno va al nocciolo del problema. Si parla di reato d’opinione. Ma quello di Sallusti non è un reato d’opinione. Se faccio una critica all’operato di un potente, ma anche di un cittadino qualsiasi, questa è la mia opinione e non posso essere perseguito, sempre che lo faccia in modo corretto. Ma se io porto sul giornale una notizia falsa, pur sapendo che è falsa, questa è diffamazione. Come spiega l’ufficio stampa della Corte suprema, "La notizia pubblicata dal quotidiano diretto dal dottor Sallusti era falsa. La giovane non era stata affatto costretta ad abortire, risalendo ciò a una sua autonoma decisione e l’intervento del giudice si era reso necessario solo perché, presente il consenso della mamma, mancava il consenso del padre della ragazza la quale non aveva buoni rapporti con il genitore e non aveva inteso comunicare a quest’ultimo la decisione presa".

Quindi non un’opinione ma una falsità. Una cosa ben diversa. Qua entra in gioco anche il ruolo dell’ordine professionale che molti ritengono sia necessario abolire. E’ innegabile che i giornalisti siano una corporazione e come tale si comportano. Pur tuttavia ritengo che l’abolizione dell’Ordine dei giornalisti non sia la soluzione migliore per risolvere i molti problemi che persistono in questa corporazione. Se molte volte si discute di questi problemi, se ogni tanto, raramente, qualche giornalista è censurato o radiato, lo si deve perché esiste un ordine professionale e alcune norme deontologiche (che dovrebbero non essere disattese). Poi, certo, la scappatoia si trova perché noi italiani siamo bizantini in tutto. Farina, alias Betulla, è stato radiato dall’Ordine. Il suo giornale Libero avrebbe dovuto licenziarlo ed invece usa un piccolo trucco: gli dà la qualifica da impiegato, ma con funzioni di vice direttore del giornale. E, in seguito, la Cassazione lo assolve. Non dimenticando che senza ordine professionale si ritornerebbe agli anni quando gli editori decidevano, secondo convenienza o conoscenza, chi assumere.

La storia del giornalismo italiano è piena di casi di gravi diffamazioni, eppure mai l’autore del killeraggio mediatico è finito in galera. Ricordo un brutto episodio avvenuto anni or sono in un paese della Brianza. Un bambino di pochi mesi era stato portato al pronto soccorso perché perdeva sangue dall’ano e continuava a piangere. Medici superficiali e cronisti con la fregola dello scoop avevano diagnosticato che avrebbe potuto esserci stata un tentativo di violenza. Era un periodo che la stampa insisteva molto sui pericoli della pedofilia e chissà per quale strana ragione il padre era stato individuato come possibile violentatore o presunto tale.

Pensate un po’ cosa abbia significato per i genitori un’accusa del genere. Una famiglia, in pratica, rovinata, messa al bando, guardata con sospetto. A distanza di mesi, il bambino moriva. La diagnosi: tumore all’ano. Ormai, però, il danno per quei genitori era stato consumato sui giornali. Questi avevano rovinato la vita, ma non avevano avuto neppure il coraggio di chiedere scusa per il male fatto. Una "breve" in decima pagina e via. Tanto chi si ricorda più dell’articolo precedente?

Un’ultima cosa su Sallusti. Nella riunione di redazione dopo la sentenza, il direttore ha spiegato che lui non avrebbe mai chiesto di essere dato in affidamento ai servizi sociali: "Io voglio andare in carcere, non ho certo bisogno di essere rieducato da don Mazzi o da qualcun altro... Certo, se mi mandassero a rieducarmi dalle Olgettine un pensierino potrei farcelo". Come si vede la classe non è acqua.

Tranquilli. Sallusti non andrà in galera. E’ solo l’amara commedia italiana di sempre. In galera ci vanno i poveracci e non chi ha agganci notevoli con il potere. Si è mosso pure Napolitano il quale non fa certo scrivere al suo portavoce Cascella, quando apprende che un drogato sfigato finisce in carcere.


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