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Si può fare. Regia di G. Manfredonia. Con Claudio Bisio, Anita Caprioli, Giuseppe Battiston

di Dario Adamo - mercoledì 14 gennaio 2009 - 4448 letture

.“Si può fare!”. E non si tratta di fare il versetto a Veltroni e allo slogan scelto da lui all’inizio di quell’avventura chiamata Partito Democratico. Si tratta invece di fare la voce grossa, di imporsi contro i pregiudizi e le critiche di coloro che non credono nel valore del recupero, che biasimano aprioristicamente la sola possibilità di reinserimento dei malati o dei diversi, in quella che è considerata una realtà sana o normale. Lo diceva, e forse lo ha anche gridato, Rodolfo Giorgetti quando negli anni ottanta s’imbarcò nell’avventura di realizzare ad una cooperativa di lavoro dove “i picchiatelli” usciti dai manicomi in seguito all’entrata in vigore della legge Basaglia potessero produrre veramente qualcosa e non solo elargire compassione e fecondare patetismi.

E’ appunto la storia di quella cooperativa che il regista Giulio Manfredonia (al suo terzo lungometraggio dopo Se fossi in te e E’ già ieri) ricalca con questa divertente e appassionata commedia Si può fare, a partire da un soggetto scritto dal bolognese Fabio Bonifacci.

Nello (un sempre sorprendente Claudio Bisio) è un sindacalista nella Milano degli anni ottanta, considerato troppo moderno o troppo antico, a seconda da dove venga la recriminazione, se da un suo superiore o dalla compagna (Anita Caprioli), che finisce per dirigere una cooperativa di lavoro formata da una dozzina di malati di mente usciti da un manicomio. La situazione che trova è allarmante ed entusiasmante insieme: ognuno con i suoi problemi, manie e fissazioni, dall’ex-omicida represso al mediatore nelle comunicazioni uomo-ufo. Ma il potenziale, tutto nascosto, c’è e Nello ci crede e vuole scommettere su di loro.

Li convince che possono fare ben più di attaccare francobolli per il Comune o etichettare olive in salamoia per un supermercato e, in pieno spirito assembleare, concerta con “i soci” un nuovo tipo di attività. E’ così che l’”Antica cooperativa 180” si lancia a pieno nel luccicante mondo dei rivestimenti in parquet. Dopo i primi disguidi tecnici dovuti alla scarsa esperienza, l’attività comincia a macinare, vincendo appalti sempre più importanti ed entrando nel famigerato mercato, strano oggetto del desiderio in un nord sempre più industrializzato e competitivo.

Lontano da intellettualismi paramedici e massimi sistemi sulle teorizzazioni riguardo la malattia mentale, Si può fare “è un film che parla al cuore più che alla testa”, come dice lo stesso regista Giulio Manfredonia che abbiamo incontrato al Cinema Lumiére di Bologna insieme allo sceneggiatore Fabio Bonifacci. “Il terrore di creare un’atmosfera di eccessivo ottimismo sulle possibilità di recupero dei malati mentali c’è stato fin dall’inizio”, affermano coralmente i due autori riguardo alle difficoltà di voler affrontare un tema così delicato attraverso gli strumenti e i canoni della commedia. Rimane sottinteso che ciò su cui si è dovuto operare un’intervento di riduzione è stata la cronologia degli eventi, i tempi del recupero appunto, che nei cento e più minuti cinematografici rischiano di far sembrare la guarigione, la reintegrazione e la ricrescita umana un traguardo che si può raggiungere facilmente.

E’ chiaro che raccontare anni di lenta riabilitazione nell’arco di un film può far sembrare tutto una strada in discesa, liscia e senza ostacoli ed è così che il regista riesce anche a inserire il dramma, non deturpando tuttavia il risultato complessivo di una commedia divertente che incoraggia anche la riflessione sulle sorti della malattia mentale per la quale davvero “si può fare” molto, così come credeva il tenace Basaglia, padre putativo di quei matti da slegare.


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