Sei all'interno di >> :.: Culture | Libri e idee |

Si finisce sempre

La vita è come un copione che viene recitato all’infinito. Amarezza nei versi di Franco Galletti.

di Antonio Carollo - sabato 5 gennaio 2008 - 4119 letture

Nei giorni scorsi ho trovato nella cassetta della posta una busta. Dentro c’era un cartoncino con tre poesie di Franco Galletti insieme ad un’altra di Mao Tze Tung; sul retro un bel disegno a colori di Tommaso Vassalle.

Di pugno: “Dicembre 2007, Franco”. A prima vista il cartoncino non si presenta come una cartolina per le feste di Natale, non c’è scritto “Buon Natale” o “Buone Feste” o simili. Forse l’Autore non s’è sentito di augurare alcunché al suo amico visti i pensieri che gli frullavano per la mente al momento di scrivere i tre componimenti. Figurarsi, in una poesia, parlando di un gene che allungherebbe la vita, si domanda: per farne che cosa?, nell’altra addirittura dice che quella dell’ultimo giorno di vita sarebbe una notte felice se non ci fosse il terrore della morte. Questi temi, e quello dei versi che ho trascritto, non sono consoni con l’atmosfera delle feste natalizie. Da qui il pudore del poeta. Questo è ciò che si può arguire dai testi, dall’autografo senza auguri, dal momento scelto per fare un presente ad un amico. Però io non sono solo un semplice lettore, sono anche, come dicevo, un amico e posso andare oltre le parole e le circostanze. So che per lui una poesia è come un miracolo, una festa per lo spirito. Non è facile dare espressione poetica a pensieri e sentimenti. Lui ci riesce, riesce a tirare fuori con disarmante immediatezza e semplicità d’eloquio il suo mondo interiore. Anche questa operazione è una nascita, che dà carica, energia. E’ per questo che mi sento di dire che anche questa poesia, così dolente, non disturba il clima natalizio che stiamo vivendo.

Vorrei dire adesso due parole su questi versi di Franco. Apparentemente il testo è avaro di immagini. Possiamo seguire solo il filo di un pensiero. Il poeta non s’interroga sul senso del mettere insieme delle parole, sul fare poesia, come spesso hanno fatto, con più o meno sofisticata tecnica espressiva, molti poeti del Novecento. Egli, muovendosi dall’alto della sua esperienza e maturità di vita, afferma, con melanconica lucidità, l’inutilità di uno scavo da cui affiorano alla luce parole inutili, stupide e illuse (“pensando a chissà che”), che non portano ad alcun risultato, non cambiano nulla. Il mondo gli appare ripetitivo e scontato, il poeta non può aggiungervi niente. La vita stessa, pur nelle peculiarità di ciascun individuo, è come un copione che viene recitato all’infinito. Un senso, un brivido d’inanità e di impotenza attraversa le parole (e l’anima) dell’autore che sta piegato sul foglio a vergarle, scegliendole dal linguaggio di tutti i giorni, perché la sofferenza è un fatto della quotidianità. Dicevo dell’avarizia di immagini; però io lettore lo vedo davvero quest’uomo, segnato dal tempo e dall’esperienza, disilluso e quasi rassegnato; sento tutto il peso di un sentimento di smarrimento e di precarietà; mi figuro lo scorrere delle immagini di una vita nella mente del poeta. Però il poeta non è mai un vinto. La parola è vitalità. Le parole si stendono sulla carta e iniziano a vivere una loro vita; la loro densità riflette la luce della creatività concessa all’uomo.

Si finisce sempre
con scrivere la stessa
cosa, le stesse stupide parole,
un mucchio di parole inutili
pensando a chissà che. Invece
ci circonda un mondo già rivisto,
già passato, non offriamo nulla, un
copione già scritto. Come la nostra vita,
uguale a quella degli altri, ma diversa,
E’ così che va il mondo.
Da sempre.


- Ci sono 0 contributi al forum. - Policy sui Forum -