Serafino Famà nel trentennale della morte: intervista con Flavia Famà
"Per anni, mi sono chiesta, e ancora mi chiedo, insieme ai colleghi di studio di mio padre, cosa rimane dopo trent’anni della sua figura e perché è importante continuare a parlare di lui"
Era il 9 novembre 1995. Era sera, un uomo, un avvocato, esce dallo studio con un collega, si reca verso il parcheggio in terra battuta dove il collega aveva posteggiato l’auto. Si sente chiamare, «avvocato Famà», si volta, sette colpi di pistola lo uccidono. L’altro avvocato resta pietrificato e illeso. Poi, si riprende, chiama i soccorsi, ma non c’è più niente da fare per Serafino Famà.
Trent’anni fa, a Catania, si spense la vita di un noto avvocato penalista, non ancora sessantenne, in un parcheggio che, in seguito, vide l’installazione di una targa commemorativa, in ricordo del professionista freddato a colpi di pistola. L’omicidio di Famà avvenne in un contesto complesso, la realtà catanese, nella quale il fenomeno mafioso sembrava essere percepito in modo attutito, blando, come una cosa lontana, palermitana magari, ma non appartenente alla città etnea. Una città a cui non mancava, invece, un blasone mafioso, non mancavano cosche come quella dei Santapaola o quella dei Laudani, il cui reggente, Giuseppe Di Giacomo, è stato condannato come mandante insieme agli esecutori materiali del delitto dell’avvocato. Una città che, alla pari di altre città italiane, assumeva un atteggiamento, non di rado, dubbioso nei confronti di un avvocato penalista, stretto tra il sospetto di essere sodale del proprio cliente o complice del magistrato.
Serafino Famà era un uomo rigoroso e un professionista rigoroso, fautore di un’idea dell’avvocatura alla quale ridare lustro, credibilità, rispettabilità. Ormai due secoli fa, Alessandro Manzoni ha cristallizzato nella figura di Azzecca-garbugli l’immagine truffaldina dell’avvocato, sodale dei potenti, intrallazzone, avido, volto a piegare la legge a favore del più forte. Un’idea dura a morire, come ogni pregiudizio, che disturbava e irritava Serafino Famà in vita e che lo investì già morto, attraverso le voci malevole che corrono, più o meno avvertibili, in una comunità: un penalista morto, certo, ma, insomma, non se l’è andata a cercare?
Forse, coerentemente con la propria idea di giustizia, Serafino Famà andò davvero “a cercarsela”, ma non nel senso maligno veicolato da un certo pensiero comune all’indomani della sua morte. Andò a cercarsela nell’equidistanza tra i due fuochi, magistratura e clienti, andò a cercarsela nella scrivania che contrapponeva fra sé e il suo cliente, per evitare pericolosi ammiccamenti, andò a cercarsela quando, stando alle risultanze giudiziarie, convinse l’allora amante di Giuseppe Di Giacomo, Stella Corrado, a non testimoniare in favore di quest’ultimo. Andò a cercarsela lottando perché si affermasse il “giusto processo”, ossia un iter giudiziario in grado di rispettare le garanzie difensive dell’imputato; di fatto, la riforma in tal senso del processo fu introdotta qualche anno dopo la scomparsa di Serafino Famà.
Visse in un delicato equilibrio fra le parti, Serafino Famà, cercando di rispondere alla fragile sostanza del diritto e delle leggi, dentro e fuori lo studio da avvocato, magari fra le pareti domestiche, in famiglia, attraverso una pedagogia altrettanto rigorosa, distribuita ai figli, un ragazzo e una ragazza, oggi adulti, ma ancora memori degli insegnamenti rigorosi del padre, sulle frequentazioni, sui comportamenti, sull’onestà di fondo. Ed è proprio da un lungo dialogo con Flavia, la figlia, che emerge l’intervista integrale allegata a questo articolo.
Perché, nel caso di Serafino Famà, così come di altre persone scomparse tragicamente, si attiva quel processo di graduale affievolimento del ricordo, naturale e difficile da contrastare, ma pernicioso quando riguarda una lunga serie di drammi individuali che assumono una valenza pubblica. Perché, al di là del dolore familiare, del lutto dei congiunti, la vicenda dell’avvocato Famà apre tante domande e tanti interrogativi di rilevanza pubblica: quanto è stato facile, in una realtà così sospettosa nei confronti di un penalista, uccidere a volto scoperto quel professionista? Come si è specchiata la città di Catania in quella morte, allora come oggi? Quanto ha tratto da quella vicenda di utile per riconsiderare il peso delle mafie al suo interno, per scrollarsi di dosso, insieme, una certa indifferenza e una certa complicità? E, ancora, perché la targa commemorativa a cui si è fatto cenno prima è stata trafugata e si è attesa una presa di posizione forte di Flavia Famà per ricollocarla al suo posto?
Non è, ovviamente, un atto di accusa nei confronti di Catania. Non più di quanto non sia nei confronti di mille altre realtà, i cui morti sono, per così dire, passati invano, come se appartenessero a un passato ormai scolorito. E se, effettivamente, il tempo deposita silenzio su vicende lontane decenni, se il dolore più profondo resta a strozzare le esistenze di chi sopravvive fra i familiari della vittima, è anche vero che le ragioni profonde che quelle morti hanno provocato, che il contesto in cui quelle tragedie sono avvenute paiono non essere mutati o del tutto sbiadite. Solo esercitando il puntiglioso esercizio della memoria, la valenza pubblica della morte di Serafino Famà potrà restare vitale, spingendoci a riconoscere che, ieri come oggi, è nel silenzio opportunistico o complice, passivo o pigramente ignaro, che fioriscono le mafie, i loro affari sporchi, il loro dominio violento, le loro proteiformi relazioni torbide.
Domenica 9 novembre, in occasione del trentennale della morte di Serafino Famà, ci sarà la commemorazione e l’inaugurazione della piazza a lui intitolata, con la partecipazione, oltre che dei familiari e delle autorità, di don Luigi Ciotti.
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