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Se una mattina di inverno un testimone...

Giovanni Impastato: nelle sue parole c’era tutto, la tenerezza e il voluto distacco nel parlare del fratello, la commozione, la forza e la tenacia di continuare a raccontare, il caldo e simpatico accento siciliano.

di Laura Giannini - mercoledì 11 febbraio 2004 - 5089 letture

Mercoledì 28 gennaio, un mercoledì come tanti altri, forse più denso di riflessione, in quanto indomani della commemorazione per le vittime dell’Olocausto..., i nostri pensieri erano ancora rivolti verso quei sei milioni di ebrei morti ammazzati per la follia omicida di chi si credeva super- uomo. Quella mattina si è rivelata per ciò che era realmente: una mattina impregnata di speranza e di impegno civile. Si è aperta con il film "I cento passi", che ha vinto il Leoncino D’Oro e il Leone D’oro al Festival di Venezia per la migliore sceneggiatura, realizzata da Marco Tullio Giordana, da Claudio Fava e da Monica Zapelli. Candidato agli Oscar ma rifiutato perchè ritenuto "troppo di parte". Quella mattina splendida e dal sapore familiare è continuata con Giovanni Impastato, fratello di Peppino, l’eroe che ha sacrificato la propria vita per ideali in cui credeva, il simbolo di un patriottismo che nasce spontaneamente. Come spiegava il fratello, questo film ha significato tanto, ha permesso di far conoscere Peppino al di fuori della realtà locale, in un momento particolarmente importante e decisivo: di lì a poco si sarebbe avuto la sentenza definitiva che avrebbe condannato il vero responsabile dell’omicidio, Tano Badalamenti, o meglio "Tano Seduto". Mattina commovente, piena di emozione e di sentimento, di reale partecipazione. Ognuno dei presenti poteva riconoscersi in Giovanni, che non ha nascosto di essere meno coraggioso del fratello, o in Peppino, che ha rappresentato un po’ per chiunque il modello di coerenza, di fede e di impegno civile a cui tutti aspiriamo, ma a cui pochi riescono ad arrivare. Ha rinunciato al rapporto col padre, perchè simbolo di una realtà da cui voleva sfuggire; ha rinunciato a una possibile famiglia, ma più di tutto ha rinunciato alla vita per una libertà di pensiero che pochi hanno il dono di avere. In quella sala di cinema gremita di giovani che non volevano perdere nemmeno una parola di ciò che veniva detto, le domande sono state tante e profonde, nascevano dalla voglia di conoscere Peppino, di sapere di lui: che scuola aveva fatto, quanti amici aveva avuto, come era nato questo sentimento avverso alla mafia, come aveva vissuto la morte del padre, se si era sentito in colpa, tutto quello che era successo dopo la sua morte. Ma come dice Giovanni:" Quella è un’altra storia...noi con la nostra famiglia mafiosa dobbiamo raccogliere l’eredità di Peppino, sempre e comunque". Eppure è commovente quella figura del padre, poco prima di essere ucciso: le sue parole trasmettevano un senso di amarezza, di solitudine, di impotenza di fronte alla sorte del figlio già segnata: " Io devo parlare? Tu devi parlare, tu devi dire le cose (...). E com’è l’America? e come stanno i cugini? Ma me lo chiede qualcuno come sto io? Ti do un passaggio, un passaggio per dove? Me la dici qualcosa? Non ci parla a tuo padre, però quand’eri picciriddu la cantavi la poesia...come faceva...il naufragare...dolce...ma non ti preoccupare che a me me lo danno un passaggio, a Luigi Impastato ce lo danno un passaggio...ehi me lo date un passaggio?". Subito dopo la tragedia: una macchina non vede Luigi e lo investe. Testimonianza importante, quella di Giovanni, parla di mafia e non di una realtà romanzata, dell’impegno di portare avanti i valori, come ha fatto Peppino e che per questo è stato ucciso senza pietà, come dice sua madre: "Me l’hanno fatto a pezzettini". Una realtà costituita principalmente da persone mostruose, lontana dalla gente perbene e che ha la possibilità di mimetizzarsi con la società stessa. Eppure, è proprio da questo contesto (come non pensare a De Andrè in "Via del campo": "Dai brillanti non nasce niente, dal letame nascono i fior"?)che emergono figure come Peppino, come Rita Atria, che rifuggono la violenza delle famiglie d’origine e pagano con la morte una scelta diversa. Dice Marco Tullio Giordana, colpito dal dignitoso dolore della madre di Peppino, Felicia Bartolotta Impastato, citando Pasolini: "C’e gente che fa della propria mitezza un’arma che non perdona" (introduzione a "I cento passi", p.7, U.E.F, 2001). E’straodinario come una conferenza possa trasmettere una serie di emozioni, dalla tristezza alla speranza, dall’angoscia e dal pessimismo alla fiducia e all’ottimismo, dalle lacrime al sorriso. Questo è quello che è avvenuto quel mercoledì mattina: c’era tutto nelle parole di Giovanni, la tenerezza e il voluto distacco nel parlare del fratello, la commozione, la forza e la tenacia di continuare a raccontare, il caldo e simpatico accento siciliano che catturava l’attenzione del pubblico. C’era tutto nelle parole di Giovanni, tranne qualsiasi traccia di retorica, di moralismo e di paternalismo, che noi giovani tanto odiamo..., per me, appartenente a un Liceo Classico che vanta il prestigio dovuto alla presenza di alunni illustri, questo squarcio aperto sul mondo e sulla sua realtà, ha rappresentato un’offerta, un regalo: offerta e regalo di cosa? di ciò che il mondo e la realtà offrono, al di fuori di mura ovattate nel contesto di situazioni sicure, dove è bene il bene, dove è male il male. Il male e il bene possono confondersi, le distinzioni sfumano e anche il padre di Peppino, apparentemente così condannabile, diventa non solo degno di comprensione, ma addirittura di tutto il rispetto che è in noi. La relazione di Giovanni non solo, infatti, ha contribuito a farmelo conoscere: soprattutto, mi ha consentito di imparare ad amarlo.


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