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Se lo lascio mi uccide

Perché contare i femminicidi è un atto politico / di Donata Columbro. - Milano : Feltrinelli, 2025. - 208 p., br. - (Scintille). - ISBN 978-88-07-17510-7.

di Alessandra Calanchi - venerdì 17 ottobre 2025 - 312 letture

Avevo appena iniziato a leggere questo libro quando ho ricevuto la notizia atroce del femminicidio di Pamela Genini. 29 anni, modella, vittima da un anno e mezzo di continue intimidazioni e vessazioni, botte e pedinamenti.

Morta ammazzata con almeno 24 coltellate, proprio mentre le forze dell’ordine che lei era riuscita a far intervenire irrompevano nell’appartamento. Si legge nei vari articoli che i due avevano iniziato una reazione poco più di un anno fa, e che lui (52 anni) aveva presto mostrato di essere violento e possessivo, minacciando di morte lei e la sorella incinta. L’aveva addirittura costretta a lasciare il lavoro e in due occasioni l’aveva ferita. Perché non l’aveva lasciato? si chiederanno i soliti saputelli. Rispondo con le parole di Pamela: “Se lo lascio mi uccide” – così aveva detto lei. E così è stato.

Secondo altre versioni, madre e compagno non si sono accorti di nulla: “sembrava felice”, “era tranquillissima”, “era serenissima”.

Il libro di Donata Columbro non è solo uno dei tanti sull’argomento della violenza di genere: è una dichiarazione forte e chiara dell’importanza cruciale di contare le vittime, non per togliere loro il volto e trasformarle in numeri, ma al contrario perché solo avendo una banca-dati pubblica e accessibile si potrà capire come e dove intervenire. Il sito Osservatorio Violenza di Genere e Domestica, scrive Columbro, è vuoto; la selezione relativa al monitoraggio dei dati non è cliccabile. E si chiede: “Non si osserva nulla in questo osservatorio?” È ovvio che senza un sistema di classificazione chiaro e condiviso “il femminicidio rischia di restare sommerso, normalizzato o, peggio ancora, giustificato”.

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Copertina di Perché contare i femminicidi è un atto politico, di Donata Columbo

La tesi del libro è che raccogliere dati serve a mettere in discussione strutture patriarcali e pratiche giuridiche e statistiche che spesso occultano o minimizzano la violenza di genere. L’autrice cita tra le buone pratiche le attività di Vera Gheno, dell’associazione Non una di meno, gli studi dell’Università di Bologna e la Casa delle Donne sempre di Bologna… ma l’altra faccia della medaglia è desolante: “il lavoro delle attiviste e delle reti femministe si inserisce in un contesto mediatico in cui la copertura dei femminicidi tende a enfatizzare soprattutto gli aspetti brutali e più morbosi del caso di cronaca: dettagli su come erano vestite le vittime, quanto fosse tardi quando sono uscite, quanti avessero bevuto o se avessero precedenti penali”. Inoltre, il linguaggio spesso è ancora infarcito di vocaboli sessisti e discriminatori, di parole come “raptus” o espressioni come “troppo amore”.

Il libro traccia inoltre la storia del termine femminicidio, comparso per la prima volta in Italia nel 1977, entrato nel dibattito pubblico nel 2008, è solo nel marzo 2025 divenuto reato. Anche se, come avverte Columbro, “una volta approdati nelle aule di giustizia la parola scompare”. L’autrice cita anche casi virtuosi come la Spagna e il Regno Unito, e ricorda anche che il numero di femminicidi compiuti da cittadini italiani è molto maggiore di quello commesso da stranieri, e che si conteggiano raramente i tentativi di femminicidio; e io vorrei aggiungere i falsi incidenti domestici, le false morti nel sonno, i falsi suicidi, e inoltre il problema della durata dei processi (per cui un assassino può essere condannato anni dopo la morte della vittima e quindi i dati andrebbero continuamente rivisti e aggiornati).

E adesso un po’ di numeri, guardando i siti web nella giornata di oggi 16 ottobre: Il Corriere della Sera cita una media di 100 vittime all’anno uccise dal partner o ex partner (più tutte quelle non conteggiate per i motivi sopra elencati, aggiungo io); l’ANSA parla di quasi 70 femminicidi nel 2025; secondo il Fatto quotidiano sono 42. Invece di “dare i numeri”, sarebbe davvero opportuno creare un database attendibile. Nel 2023 risultano 117, nel 2024 ne risultano 113. Quanti altri ne vogliamo contare nel 2025?


Sinossi editoriale

Contare i femminicidi non è un esercizio di precisione statistica, ma un atto politico.

In Italia, non esiste un registro ufficiale dei femminicidi, e il modo in cui vengono classificati gli omicidi di donne rispecchia un sistema che spesso minimizza la violenza di genere. Chi decide cosa contare? E soprattutto, chi ha il potere di negare la rilevanza dei numeri?

In Perché contare i femminicidi è un atto politico, Donata Columbro, giornalista e divulgatrice esperta di dati, decostruisce l’idea della neutralità statistica e mostra come il conteggio dei femminicidi sia una questione di potere e resistenza.

Attraverso un resoconto tra storia, giornalismo d’inchiesta e attivismo, Columbro esplora il modo in cui i femminicidi vengono registrati nei dati ufficiali e rivela molto sulla percezione istituzionale della violenza di genere. In Italia, l’assenza di un registro ufficiale implica che la violenza sulle donne venga inglobata in statistiche più generali, rendendo difficile una lettura chiara del fenomeno. Per questo motivo, il lavoro di raccolta dati condotto dai movimenti femministi e dalle associazioni assume un’importanza cruciale. A livello internazionale, esperienze come quelle di Brasile, Argentina e Messico dimostrano quanto il monitoraggio dal basso possa essere efficace nel denunciare e contrastare il problema. Questo approccio rientra nel cosiddetto “femminismo dei dati”, una prospettiva che vede nella raccolta e nell’analisi dei numeri uno strumento di giustizia sociale e attivismo politico, capace di sfidare le narrazioni ufficiali e proporre un cambiamento concreto.

Perché contare i femminicidi è un atto politico non è solo un’analisi tecnica, ma un appello a riconoscere la violenza di genere anche attraverso le sue rappresentazioni numeriche. Perché i numeri sono storie, le statistiche sono strumenti di potere, e contare significa dare visibilità a chi non ha voce.

Contare i femminicidi non è solo statistica, ma un atto politico. “Il femminicidio non è un fatto privato, ma l’espressione di una violenza e di un abuso di potere sostenuto dalla struttura patriarcale delle istituzioni e di una cultura che vede l’egemonia maschile come normale, statisticamente e socialmente.”



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