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Scemo di guerra, di Ascanio Celestini.

Sullo spettacolo “Scemo di guerra”, di e con Ascanio Celestini, in scena dall’1 al 5 marzo al teatro Musco di Catania nell’ambito della rassegna Nuovoteatro.

di Serena Maiorana - giovedì 9 marzo 2006 - 4448 letture

Quando Ascanio Celestini sale sul palco, quel palco è nero nero. Solo una sagoma, la sua, si intravede, già fitta di parole. Perché questo spettacolo parte dalla parola e da lì continua, intessendo un tessuto fitto fitto, fatto di mille racconti, di mille storie che si intrecciano, si aggrovigliano, per dipanarsi ad un certo punto, e per rimescolarsi subito dopo.

Sono tutte quelle parole che ti rapiscono, che ti portano via. Come quando leggi un libro e, se ti piace, ti sembra quasi di poter individuare tra tutte quelle parole un altro luogo, ora morbido, ora spigoloso. Comunque tu sei lì, e questo basta.

Solo che ora che Ascanio Celestini è sul palco che ti parla, e tu sei lì in mezzo al pubblico ammutolito, che osservi la sua sagoma farsi luce su di un palco nero nero, ora dicevo, tu sei a teatro, e mai ti aspetteresti di sentirti trascinato in un altro luogo.

Ed invece questo accade. Così ti ritrovi in guerra insieme al padre di Ascanio da bambino, mentre lui, da terra, raccoglie una cipolla. È da qui che la storia parte, ed è qui che ritornerà. In mezzo ci stanno però tutte le parole di questo poeta disarmato e disarmante. Ci sono tutte le sue storie, le sue favole e le sue follie. E mentre lo ascolti portarti lontano sai di essere distante mille miglia da tutto ciò che fino ad ora avevi visto a teatro. Questo spettacolo è molto più semplice, più familiare, come quando tua nonna ti raccontava della sua vita da ragazza, come quando da bambino ti leggevano le favole, o magari eri tu a costruirti le tue storie.

Ed intanto dal palco lui racconta e racconta, mentre tu te ne stai lì, con le orecchie spalancate ed il cuore in festa. E non desideri altro se non che a tutte quelle storie se ne aggiunga un’altra, e poi un’altra e un’altra ancora.


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