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Sanità, ‘ndrangheta e Calabria: un rapporto indissolubile

In quella talvolta silenziosa guerra civile che in Italia si combatte sin dall’unità nazionale, ossia quella tra le mafie e una parte della società, uno dei fronti più drammatici è l’ambito sanitario

di francoplat - mercoledì 16 ottobre 2024 - 595 letture

Il flagello è antico, ben addentro l’Ottocento: già nel 1892, il futuro presidente del Consiglio, Francesco Saverio Nitti, lamentava che le opere pie italiane, di cui gli ospedali erano parte integrante, fossero «palestre di lotte sociali e servivano assai spesso a niente altro che a scopi personali e di partito», perché i notabili del tempo le utilizzavano «per vincere nelle lotte amministrative».

Può, dunque, stupire che due settimane fa circa, l’Azienda sanitaria provinciale di Vibo Valentia sia stata sciolta dal governo per infiltrazioni mafiose e commissariata? Non stupisce certo. Ma prima di dare conto dell’ennesima battuta d’arresto di un ente locale sanitario calabrese, pare opportuno spendere due parole sul concetto iniziale di “guerra civile”, forse un po’ forte e storiograficamente discutibile. Una guerra civile è un conflitto, di fatto, violento e armato fra membri di una stessa comunità; per il Novecento basti pensare a quella spagnola – più ampia in realtà di una pura guerra tra franchisti e repubblicani – e a quella nostrana, tra antifascisti e aderenti alla Repubblica sociale italiana. Ecco, il conflitto interno ai nostri confini così come lo prospetta chi scrive non è una contrapposizione armata, drammatica, circoscritta in tempi relativamente brevi, ma una tensione e un confronto tra gruppi diversi della società italiana che si è dispiegato nell’arco di quasi due secoli e che ha visto e vede contrapporsi, da un lato, le mafie e i loro sostenitori, più o meno espliciti, e, dall’altro, quella parte della società che non ha voluto e non vuole soggiacere alle ambizioni egemoniche del clan e dei variegati supporters che ne hanno consentito la lunga durata nel tempo.

Che si sia trattato e si tratti di una guerra impari è evidente. Il sostegno di una parte della politica, dell’economia, della cultura alle consorterie criminali rende inevitabilmente asimmetrico il confronto e rende ancora più meritoria la resistenza civile e morale di chi ha operato una qualsiasi forma di contrasto al fenomeno. Di fatto, da circa due secoli, la rete mafiosa ingabbia le comunità nostrane in una realtà che solo formalmente può definirsi democratica, che solo formalmente può ritenersi capace di dispensare quei diritti e quei servizi che dovrebbero essere il fondamento della quotidianità immaginata dai costituzionalisti. Sarebbe sufficiente citare, anche in modo approssimativo, i dati relativi al commissariamento degli enti pubblici italiani dal 1991 – quando entrò in vigore la legge che regolamentava il problema delle infiltrazioni mafiose – a oggi per comprendere come un numero significativo di italiani abbia vissuto in comunità a cui le cointeressenze tra mafie e pubblici poteri o altre porzioni della società civile (professionisti ecc.) avevano eradicato qualsiasi elementare diritto, a partire da quello alla salute. Giusto per dare un’idea, 361 comuni e 7 aziende ospedaliere sono stati sciolti in circa un trentennio; corrispondono a oltre cinque milioni di persone, ossia l’8% della popolazione italiana, che ha vissuto e vive in realtà prive di un governo della cosa pubblica e orientate, invece, alla difesa di interessi di parte. Vale la pena ricordare che sono 11 le regioni interessate ad almeno un decreto di scioglimento per infiltrazione mafiosa e, nello specifico, Calabria, Campania, Sicilia, Puglia, Piemonte, Liguria, Lazio, Basilicata, Lombardia, Emilia-Romagna, Valle d’Aosta.

Ciò significa, appunto, che in tali realtà gli interessi pubblici sono stati erosi da quelli privati, che dalla trasparenza del voto locale al più ampio piano dei diritti sociali ed economici gli abitanti dei comuni sciolti per mafia si trovavano nella condizione di migrare per una cura sanitaria o pietire un posto di lavoro ai potentati locali, che lo dispensavano come un privilegio non privo di oneri per chi lo riceveva e di accrescimento di potere per chi lo offriva. Non sfugga che il computo degli enti commissariati parte dal 1991 e non si considera la situazione precedente quella data, ossia l’inizio degli anni Novanta, che segna, non a caso, il momento in cui più sensibile è parso lo Stato dinanzi al tema delle mafie e più aperto e duro lo scontro con Cosa nostra.

Pur se combattuta con forme di violenza spesso implicite, da un lato, e con gli strumenti della legge e delle idee, dall’altro, è difficile non riconoscere in questa dialettica una guerra civile, un lungo, persistente scontro tra la difesa degli interessi privati, mafiosi e non, e la volontà di consolidare le conquiste ideali del concetto di democrazia, oltre che una visione della società non asservita alla volontà predatoria di qualcuno. Bene, la notizia dello scioglimento dell’Asp di Vibo Valentia rientra in questo quadro urticante. Qualche anno fa, su queste stesse pagine, si era dato conto in un lungo documento allegato della situazione sanitaria calabrese, della sua tragica strozzatura a opera di un sistema di potere aggrovigliato, all’interno del quale convivevano figure diverse, dai boss della ‘ndrangheta alla manovalanza mafiosa, da esponenti del ceto politico locale a medici e altri professionisti. Una rete di poteri il cui appetito era tale che, agli occhi dell’allora prefetto Achille Serra, il sistema sanitario locale nel 2007 era parso da «terzo mondo»; testuali parole.

Non era un giudizio eccessivo. Senza entrare nel dettaglio, e solo per argomentare minimamente le parole dell’ex prefetto, si ricorda che, l’anno dopo le considerazioni quest’ultimo, una commissione chiamata a verificare la rilevante serie di morti sospette per malasanità in Calabria, parlava di un deplorevole stato generale dei servizi: ospedali con macchinari e senza personale, senza macchinari e senza utenti con personale sanitario regolarmente in servizio, nosocomi con reparti mancanti o del tutto carenti, strutture chiuse o derubricate ad ambulatori, l’ossessivo ricambio dei direttori generali delle Asp, spesso con competenze scarse, la mancanza di un sistema integrato di comunicazioni per i casi di emergenza, «la cui soluzione è affidata all’affannosa ricerca telefonica di posti letto», l’inerzia con la quale si evitava di rinvenire eventuali responsabilità personali nei casi di decesso per malasanità. E tutto ciò non a fronte della scarsa quantità di spese per la sanità regionale, visto che questo settore gravava sul PIL regionale in misura quasi doppia rispetto a quello di altre realtà italiane (8,77 contro i 4,66% della Lombardia). È evidente che le risorse economiche per l’ambito sanitario venivano e vengono drenate da qualcuno.

In una Calabria la cui stessa sanità regionale è commissariata dal 2010, anno in cui toccò anche all’Asp di Vibo Valentia, dopo che, nel 2006, fu sciolta per la seconda volta quella di Locri, seguita due anni dopo da quella di Reggio Calabria, che avrebbe replicato nel 2019 insieme all’ente catanzarese, ecco che l’azienda provinciale di Vibo replica. A seguito dei riscontri emersi dalla commissione di acceso agli atti insediatasi nel novembre dello scorso anno, il prefetto di Vibo, Paolo Giovanni Grieco, ha tirato le somme e presentato una relazione al ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, nella quale invitava al commissariamento dell’ente; cosa, appunto, decretata alla fine del mese scorso.

La situazione dell’Asp vibonese era già sotto gli occhi del tribunale locale nell’ambito dell’inchiesta “Maestrale-Carthago”, tutt’ora in corso, e dalla quale era emerso con evidenza l’asservimento dell’azienda sanitaria agli interessi della ‘ndrangheta, «con stretti legami tra alcuni medici, funzionari ed esponenti dei clan vibonesi» (“ilVibonese.it”, 27 settembre). La stessa Dda di Catanzaro, in merito a questa inchiesta, precisava che il quadro investigativo emerso «consente di avere un chiaro panorama di cointeressenza dell’Asp di Vibo Valentia sia con la criminalità organizzata e sia con esponenti politici di vario livello. Tale cointeressenza di fatto condiziona in modo totale l’esercizio delle funzioni dell’ente che mediante i propri atti risponde a logiche criminali e politiche invece che perseguire l’interesse pubblico afferente la sanità». Dal sistema corruttivo delle mense ospedaliere all’alterazione delle procedure concorsuali per cinque posti a tempo indeterminato per operatore socio-sanitario, l’ente locale rispondeva a logiche ben differenti da quelle per i quali sarebbe deputato e tale situazione era tutt’altro che sconosciuta. Sempre “ilVibonese.it”, sostiene che, al di là di ulteriori precisazioni ministeriali in merito allo scioglimento, «i vibonesi, purtroppo, hanno le idee chiare su cosa accadeva dietro quelle mura».

Quanto agli interessi mafiosi, più in particolare la Dda parla di asservimento dell’ente alle consorterie mafiose di Mileto, Limbadi e Vibo Valentia, «grazie anche a funzionari e dirigenti medici compiacenti, per ipotesi corruttive e scambio elettorale politico mafioso». Per quanto vadano intese con cautela, forse possono risultare coerenti con alcuni aspetti del quadro sinora tracciato le considerazioni di un collaboratore di giustizia, Bartolomeo Arena, nel corso del processo “Rinascita Scott”. Poco più di tre anni fa, nell’agosto 2021, il pentito asseriva: «sia l’ospedale che il Comune di Vibo sono luoghi considerati come loro salotti dagli ‘ndranghetisti. Dentro l’ospedale di Vibo facevamo quello che volevamo».

Anche scrostando qualche esagerazione, c’è da credergli. Il quadro è quello di sempre, i volti anche, con qualche eccezione. Ma se, in questa sede, non si appuntano nomi e cognomi, non è per preservare qualcuno o per indolenza. Volutamente si tralasciano le singole personalità, che sicuramente hanno rilievo giudiziario e non solo, perché ciò che più preme è sottolineare la pregnanza del meccanismo reiterato, urge ricordare, per l’ennesima volta, che cambiano i suonatori, ma la musica pare sempre la stessa. I predatori dell’Asp perduta dalla comunità pubblica non dismettono la loro azione di smantellamento del diritto alla salute dei calabresi, con sistematico disprezzo delle vite altrui. Del resto, che in alcuni nosocomi calabresi la ‘ndrangheta si senta a casa propria, lo aveva detto qualche anno fa un giornalista inglese, Miles Johnson, del “Financial Times” (20 luglio 2020), in un articolo dedicato alle infiltrazioni della ‘ndrangheta negli ospedali pubblici per riciclare il denaro sporco. In quell’occasione, il giornalista osservava come nel nosocomio di Lamezia Terme i parenti dei deceduti fossero costretti a scegliere una precisa agenzia di onoranze funebri e trovassero, a volte, i becchini già pronti al loro arrivo. Così come, stando alle dichiarazioni di alcuni medici, questi ultimi erano costretti ad «aspettare fuori da un reparto ospedaliero che gli uomini della ‘ndrangheta aprissero la porta chiusa con le loro chiavi».

Ecco, una forma di privatizzazione della sanità sotto l’egida dell’ente pubblico o subordinato o complice. Difficile non ritenere una silenziosa guerra civile quella che si continua a raccontare con soffocante amarezza su queste pagine.


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