Rosso Mal Pelo
Recensione del film di Pasquale Scimeca
Grazie ad un’iniziativa organizzata da “Natura Sicula” (www.naturasicula.it) è stato possibile vedere al cinema un film che probabilmente non sarebbe passato più dalle sale cinematografiche. Si tratta di “Rosso Mal Pelo” di Pasquale Scimeca, liberamente tratto dalla novella omonima di Giovanni Verga.
Malu Pilu è il nome col quale lo chiamavano tutti anche se il suo nome era un altro. Aveva i capelli color di carota e secondo una diceria popolare proprio per questo era un ragazzo cattivo, buono a nulla, tintu.
Malu Pilu lavora nel ventre della terra, nella miniera dove ha visto morire il padre, ed è testimone di una vita dura, fatta di disumano lavoro, di dolore, di disincanto, di cattiveria.
Trattato come un cane, se non peggio, egli cresce con l’idea che la vita è quella. Non esiste altro.
Parla una lingua arcaica ma comprensibile, dura anch’essa, quasi a voler dare un contributo reale per raccontare una storia verosimile.
Non deve essere stato facile trasferire sullo schermo pagine nelle quali la lentezza domina, i suoni delle parole rimbombano, la cattiveria degli adulti predomina su tutto. E proprio per questo il film oltrepassa la dimensione storica raccontata nel testo verghiano e diventa una storia del Novecento siciliano ma che - come si legge all’inizio del film - è una storia triste paradigmatica di sfruttamento minorile, consumata in una miniera.
Girato in Sicilia, nel bacino minerario del Parco di Floristella–Grottacalda, il film presenta alcune scene fedeli al racconto da cui è tratta l’ispirazione, ma altre sono assolutamente creativa interpretazione del regista che ha voluto confrontare il mondo di Rosso Mal Pelo con quello degli adulti. Che in realtà ne escono davvero male. Il risultato di alcune scene è discutibile e sfiorano quasi la macchietta (la scena della “cantante” nell’osteria).
Mentre il comico e l’umoristico si alternano al tragico, in un incontro anche grazie ad alcune citazioni pirandelliane…
La madre di Malu Pilu è priva di umanità, psicologicamente inesistente, quasi troppo giovane. La sorella è egoista, pensa lei a raccogliere i soldi della paga del ragazzo, ma sempre col sospetto che lui non porti a casa tutto quello che guadagna.
Non c’è tenerezza, sorriso alcuno… I muscoli del viso sono sempre tirati, tesi. Lo sguardo duro, incattivito, animalesco. La logica del tornaconto ha la meglio.
E come si porgono gli adulti verso Mal Pelo così lui si pone nei confronti di Ranocchio, bambino che lavora anche lui nella cava e a cui sente di dover insegnare come va il mondo. Mal Pelo non sa amare o meglio ama a modo suo…nessuno glielo ha insegnato.
Il film nasce legato al Progetto Bolivia - finanziato in parte dalla Comunità Europea, dall’Arbasc e dagli attori che sono stati pagati col minimo sindacale – e mira a liberare dalla schiavitù i bambini di tutto il mondo.
Presente a vari Festival del Cinema (Alba International Film Festival, Napoli International Film Festival, Festival di Giffoni e VII Festival Internazionale del Cinema di Frontiera di Marzamemi) la pellicola ha ricevuto il Premio Amnesty International, Premio Cinema Sociale Pergine Valdano, Premio APAC.
Racconta il regista che girare le scene in quella miniera a volte è stata un’impresa sovrumana. A volte la mancanza di spazio e di aria ha determinato la ripresa di alcune scene in cui la macchina da presa era accesa e lasciata a terra, sola, con l’attore.
Il verismo verghiano ha dato una lezione. Ancora oggi tanti bambini sono schiavi del lavoro, costretti a ritmi bestiali, sottoposti a vessazioni gravissime.
Purtroppo ancora oggi la dignità del bambino non è diritto acquisito. Per questo alla fine rimane un groppo alla gola, è difficile accettare tale abbrutimento…
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