Roberto Scarpinato, i "gattopardi" dei Palazzi e i "vinti"
Questo e altri argomenti, hanno portato l’ex procuratore generale di Palermo a dichiarare in modo netto che non è possibile considerare chiusi i conti con il passato e «inaugurare una stagione di riconciliazione nazionale».
Nel giorno del dibattito al Senato sulla fiducia al neonato governo Meloni, Roberto Scarpinato, eletto di recente a Palazzo Madama nelle file del Movimento 5 stelle ed ex procuratore generale di Palermo, ha dato forma a un duro discorso contro la presunta presa di distanza della presidente del Consiglio dal fascismo e, più in generale, contro le tentazioni autoritarie del suo governo.
Era il 26 ottobre scorso. L’intervento dell’ex magistrato, la cui lunga carriera giudiziaria non necessita di precisazioni, ha toccato corde diverse, sistemando assieme quanto di torbido c’è stato e, secondo la sua tesi, esiste ancora nel mondo politico che si compatta attorno alla leader di FdI: le responsabilità neofasciste nelle stragi, i depistaggi nella strategia della tensione, la condanna per concorso esterno a Cosa nostra di uno dei fondatori di Forza Italia, ossia Marcello Dell’Utri. L’idea portante del suo discorso è la seguente: può bastare il giuramento di fedeltà alla Costituzione e ai suoi valori per mettere al riparo dalle derive autoritarie di un capo del governo e dei suoi ministri a fronte di tanti indici che sembrano far pensare che la loro adesione al nostro dettato costituzionale, e soprattutto all’«impianto antifascista e democratico che ne costituisce l’asse portante», sia piuttosto tiepida, poco convinta?
La risposta del senatore pentastellato è no! Non può bastare quel giuramento e non può bastare la condanna, da parte del presidente del Consiglio Giorgia Meloni, delle leggi liberticide e di quelle anti-ebraiche del regime mussoliniano. Quanto alle argomentazioni, Scarpinato ha osservato, fra le altre cose, che il fascismo non si è solo materializzato nelle sue vesti storiche nel corso del primo Novecento, ma è ricomparso in quelle neofasciste dopo la seconda guerra mondiale. E in queste vesti ha coagulato attorno a sé le forze più reazionarie del Paese, «non esitando ad allearsi in alcuni frangenti persino con la mafia», al fine di sabotare la Costituzione del 1948 sin dagli albori della Repubblica. Non solo. Il neofascismo sarebbe stato coprotagonista della strategia della tensione, a detta dell’ex magistrato: alcuni dei protagonisti di quella drammatica stagione sono stati eletti, sino a un’epoca recente, quali «figure di riferimento della vostra attività politica», ha insistito Scarpinato, rivolgendosi ancora a Giorgia Meloni. E ha porto il nome di Pino Rauti, fondatore di quell’Ordine nuovo da cui sarebbero stati incubati, prima, le idee e, a seguire, gli autori di alcune stragi neofasciste: Franco Freda, Giovanni Ventura, Carlo Digilio, Carlo Maria Maggi, Maurizio Tremonti.
Fondato sul proposito di illuminare le contraddizioni fra i proponimenti elettorali dell’attuale premier e il quadro valoriale al quale si è in passato ispirata, l’impianto argomentativo di Scarpinato è proseguito citando la proposta della Meloni, nell’estate 2017, di abrogare il reato di tortura subito dopo che fu introdotto dal legislatore a seguito della sentenza di condanna dell’Italia a opera della Corte europea dei diritti umani per le violenze perpetrate dalle forze dell’ordine nella scuola Diaz al tempo del G8 di Genova. Pena da abrogare, per il neo capo del governo, «perché il reato di tortura impediva agli agenti di fare il proprio lavoro».
Questo e altri argomenti, hanno portato l’ex procuratore generale di Palermo a dichiarare in modo netto che non è possibile considerare chiusi i conti con il passato e «inaugurare una stagione di riconciliazione nazionale». Tale stagione potrà essere salutata positivamente, ha aggiunto Scarpinato, soltanto dopo che verranno a galla tutte le verità indicibili connesse alle stragi neofasciste e quando «dal vostro Pantheon politico saranno definitivamente esclusi tutti coloro che a vario titolo si resero corresponsabili di una stagione di violenza politica che costituì l’occulta prosecuzione della violenza fascista nella storia repubblicana».
Una democrazia malata, una memoria distorta e labile, in un Paese che ha un passato rimosso e mai davvero sanato, una compagine di governo la cui legittimità pare trovare sempre maggiori adesioni nei Palazzi del potere, un assetto culturale autoritario, al di là delle dichiarazioni di principio, potrebbero avere un esito nefando per Scarpinato, ossia condurre a «una torsione autoritaria del nostro sistema politico» e dar vita a una democratura o a una democrazia illiberale. E in più prona ai dettami del neo-liberismo, quelli distanti dai valori di solidarietà e di giustizia sociale presenti nella nostra Costituzione e che paiono, invece, così vicini agli intendimenti di forze politiche che sono state e restano, a giudizio del senatore 5 stelle, «l’espressione degli interessi del padronato».
Roberto Scarpinato nutre, dunque, enormi perplessità sulla verginità democratica del nuovo governo, sulla sua reale adesione alla Carta costituzionale. È una diffidenza che nasce dalla storia repubblicana nostrana e da quella globale degli ultimi trenta, quarant’anni. Una diffidenza che nasce dai gattopardi che celano il vecchio dietro il maquillage illusorio del cambiamento. Come può dirsi convincente la volontà espressa dal neo-presidente del Consiglio di combattere con fermezza la mafia se vanta tra i suoi alleati «una forza politica che ha tra i suoi soci fondatori un soggetto condannato con sentenza definitiva per collusione mafiosa, che mai ha rinnegato il proprio passato e che, grazie al suo rapporto privilegiato con il leader del partito, continua a mantenere tutt’oggi una autorevolezza tale da consentirgli di dettare legge nelle strategie politiche in Sicilia»? Ma il nome di Marcello Dell’Utri non è riuscito a pronunciarlo. Il microfono del senatore era stato spento dal presidente La Russa, che lo ha accusato di aver sforato i due minuti previsti.
Inutile dire che l’intervento di Scarpinato è stato duramente attaccato. Politici come Carlo Calenda, che parla di «persona delirante», o alcuni organi di stampa come “Il Riformista”, che avvicina le parole dell’ex magistrato al «copione dell’antifascismo militante e complottardo degli anni Settanta cui non crede più neppure qualche nostalgico stalinista del mondo che fu», paiono non nutrire dubbi sull’infondatezza delle argomentazioni del senatore. Né li nutre un breve editoriale di Giuseppe Sottile sul quotidiano online “Buttanissima Sicilia”, dal titolo «La disfatta in Senato dell’antimafia chiodata», nel quale Scarpinato viene liquidato come l’autore «di quella boiata pazzesca che fu il processo sulla trattativa tra lo Stato e i boss di Cosa Nostra» e il suo intervento come un teorema raso al suolo da Giorgia Meloni. Come sempre accade in questi casi, uno dei modi per confutare le argomentazioni di Scarpinato è stato quello di passare dal merito dei contenuti all’attacco alla persona, ai suoi atti pubblici, alle sue presunte o reali manchevolezze in qualità di magistrato. Con buona pace dell’analisi storico-politica letta in Senato.
Eppure, ha ragione Scarpinato quando afferma che questo non è un Paese pacificato nella sua storia e ha ragione quando afferma che è una nazione la cui democrazia è malata. Basterebbe ricapitolare le vicende mafiose per argomentare senza troppa fatica il degrado politico e civico italiano e ciò anche senza evocare il cavallo di battaglia dei sostenitori della purezza inossidabile dello Stato, ossia l’inconsistenza della tesi sulla “trattativa”. Del suo intervento in Senato va, innanzitutto, apprezzato il coraggio. E va anche apprezzato quello che per l’attuale capo del governo è un insulto, ossia il fatto che sia stato un discorso «smaccatamente ideologico». Chissà perché l’ideologia e i suoi addentellati lessicali sono diventati così improponibili? Non è questa la sede per dibatterne, ma nei luoghi della politica parrebbe ovvio vedere confrontarsi delle ideologie, delle visioni del mondo e dell’uomo associato che non collimano e che confliggono, talvolta più talvolta meno ferocemente. La nostra Carta costituzionale è ideologica, a partire dal richiamato antifascismo da parte dello stesso Scarpinato; i Padri costituenti non ebbero troppa paura nell’auspicare una società democratica, solidale, incardinata sui princìpi di una certa giustizia sociale. Bisogna allora dare ragione a “Il Riformista”? Si tratta di nostalgie di un mondo che fu?
Andiamo oltre e torniamo all’intervento di Scarpinato. Si può non essere d’accordo con il suo discorso, si possono evidenziare alcuni passaggi il cui respiro analitico dovrà ricevere un lavoro ulteriore da parte di chi con il passato ha maggiore dimestichezza, ossia gli storiografi. Perché una rilettura più equilibrata della nostra storia repubblicana è ancora da farsi: dalle continuità tra il fascismo storico e le sue successive metamorfosi alla questione delle responsabilità nei tentati colpi di Stato, nelle stragi, nel processo di destabilizzazione della società e delle forze democratiche da Portella della Ginestra agli attentati dei primi anni Novanta e, ancora, al complesso intreccio di forze antidemocratiche presenti sul suolo italiano (Cia, eversione nera, servizi segreti deviati, mafie ecc). Va anche detto, però, che alcune linee emergono con una certa evidenza: il nostro è un paese anomalo per il radicamento plurisecolare delle mafie e per la quantità di stragi violente, molte delle quali impunite, che hanno scosso la società repubblicana.
Il coraggio di Scarpinato è stato quello di ricordare la nostra anomalia a un Senato che ha vissuto una lunga smemoratezza a riguardo, a un larghissimo fronte politico che ha derubricato da decenni la questione mafie e la questione stragi, lasciando proprio ai magistrati il compito di intervenire a riguardo. Salvo, poi, accusarli di complottismo, di giustizialismo, di sovvertimento degli equilibri dei poteri istituzionali. Anche se non si apprezza o condivide ogni sua affermazione, va riconosciuto a Scarpinato il coraggio di aver ricordato al governo appena formato, e alle altre forze politiche, che la crescita delle disuguaglianze e dell’ingiustizia in Italia «non è frutto di un destino cinico e baro, ma il risultato di scelte politiche a lungo praticate dall’establishment di potere di questo paese che ha surrettiziamente sostituito la tavola dei valori della Costituzione con la bibbia neoliberista».
Giorgia Meloni ha ragione: è un discorso smaccatamente ideologico. Anomalo come la nostra storia nazionale e insolito alle orecchie del ceto politico italiano, che è andato oltre le ideologie brutali, come altrove nel mondo del resto, ed è approdato nelle isole felici del benessere individuale e un po’ egoista, quelle in cui il presente è tutto, da godere intensamente, in cui il passato è passato e va scordato e il futuro è un’ipotesi stancante da progettare per i governanti, ai quali le isole felici regalano il benefit della gestione giorno per giorno, perché il futuro è altrove. Oltre i governi nazionali e oltre le brutture locali, sacrificabili ormai agli interessi planetari del “tutto e subito” che tanto incanta e avvince. Ma questo, si obietterà, è uno slogan e non un’ideologia. Magari è un’ideologia, breve ed essenziale, dei tempi che corrono, veloci e noncuranti dei «vinti che levano le braccia disperate», come osservò la penna lucidissima di Giovanni Verga.
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