Rileggere Karl Polany

Karl Polany ci rammenta che per progettare l’alternativa al capitale dobbiamo avere la chiarezza dei fini oggettivi senza i quali anche le azioni più nobili non possono che precipitare nel caos. Definire la natura umana è già progettualità politica...
La guerra del capitale
Il capitalismo è giunto alla sua massima espressione distruttiva, è svelato nella sua verità. Nel nostro tempo l’Apocalisse è possibile, ma non ci sono dei a determinare la fine dei tempi, è il modo di produzione capitalistico che sta ponendo il “niente nella storia”. Nella sua essenza, dunque, è guerra e annichilimento di ogni forma di vita, poiché tutto è mercificato. Il capitalismo è la compiuta peccaminosità: il bene e il male sono stati rimossi, al suo posto impera la solita logica dello sfruttamento. L’altro non è un semplice antagonista, per l’economia di mercato, ma è sempre “il nemico”.
L’esperienza della guerra totale è all’interno dei confini di ogni nazione, partito, sindacato, istituzione e famiglia. L’economia di mercato ha colonizzato comunità ed esistenze e le ha tradotte in guerra totale. La competizione deregolamentata sospinge verso il caos distruttivo e il “non pensiero”. Il mercato lasciato al suo sviluppo spontaneo ha finito per imbavagliare le forze produttive. Il “Leviatano” divora anche se stesso. Il mercato autoregolamentato impone i suoi prodotti e le sue tecniche di produzione appiattendo la produzione sul plusvalore per i trust e per i cartelli. Il mercato non libera la capacità produttiva, se lasciato a se stesso determina solo il dominio del più forte. In tale logica perversa la comunità perde, mentre l’oligarchia vince con la distruzione della terra sfruttata e desertificata dalla mercificazione.
La terra dovrebbe nutrire, invece è cannibalizzata e “resa polvere di stelle” dai grandi industriali. Anche l’aria come l’acqua sono ormai merce, chi le possiede determina la vita dei dominati e ne controlla i gesti come il respiro. Acqua, aria e terra sono controllate e quotidianamente stuprate. Il lavoro è venduto sul mercato, per cui gli esseri umani sono venduti, malgrado ufficialmente la schiavitù sia stata abolita:
“Il lavoro è soltanto un altro nome per un’attività umana che si accompagna alla vita stessa la quale a sua volta non è prodotta per essere venduta ma per ragioni del tutto diverse, né questo tipo di attività può essere distaccato dal resto della vita, essere accumulato o mobilitato” [1].
Solo nell’economia di mercato il lavoro è merce. Vendere il lavoro sul mercato è un atto di guerra contro l’umanità, tanto più che la vendita è nei fatti deregolamentata. La comparazione tra i modelli economici realizzati nella storia dimostra che solo la “civiltà di mercato” ha reso il lavoro “capitale umano” che deve sottostare alle leggi del mercato. La disumanizzazione è consustanziale all’economia capitalistica.
La logica del mercato ha invaso ogni spazio e ogni tempo vissuto. La qualità di vita si deteriora a velocità straordinaria. Per poter uscire dall’offuscamento tenebroso della società a misura di mercato, è necessario riattivare il senso etico con il quale valutare la realtà, in cui siamo, ed emanciparci dalle catene dolorose dell’individualismo senza speranza.
Rileggere Karl Polany
Rileggere Karl Polany nel nostro tempo è esercizio di realtà. Senza il giudizio valutativo sul modo di produzione capitalistico non è ipotizzabile costruire un modello socio-economico altro. Per poter dare una direzione verso l’uscita dalla caverna del mercato non si possono non affinare le armi della critica sociale. Il capitalismo con il mercato deregolamentato umilia ogni essere umano, poiché a tutti nega il pieno sviluppo dell’umanità. I padroni dell’economia sono i responsabili dell’attuale condizione, ma nel medesimo tempo sono servi dei processi di naturalizzazione del mercato. La lotta sempre più feroce e totale per la gestione di porzioni sempre più ampie dei mercati produce guerre e vittime incalcolabili e neutralizza la creatività umana:
“La produttività tecnica, nell’economia capitalistica, resta al di qua del massimo teoricamente raggiungibile: piccole aziende e aziende individuali mantengono in genere, soprattutto nell’industria, un livello non ottimale di produttività; la concorrenza impedisce la standardizzazione dei tipi di produzione anche là dove sarebbe desiderabile. D’altra parte, quando la concorrenza viene esclusa da cartelli, trust, sindacati e altre forme di monopolio privato, queste forme organizzative contribuiscono al mantenimento di aziende relativamente improduttive dal punto di vista tecnico e all’esclusione di concorrenti tecnicamente più produttivi.
Analogamente, nell’economia capitalistica tutti gli altri monopoli naturali, giuridici e congiunturali portano al mantenimento di modi di produzione relativamente improduttivi e quindi a una quantità indeterminabile di tecniche produttive non sfruttate, in particolare nel campo delle invenzioni e dei miglioramenti ecc. (Limiti della produttività tecnica relativa). L’entità della produttività tecnica, cioè la produttività tecnica assoluta, resta anch’essa al di qua del massimo teorico: crisi economiche generali e particolari portano ad arresti e limitazioni della produzione; l’esclusione della concorrenza attraverso cartelli e sindacati porta spesso alla deliberata restrizione della produzione; le spese improduttive dell’economia concorrenziale sono notevoli (pubblicità, rappresentanti, agenti, presentazione della merce ecc.)” [2].
Il capitalismo non conosce la dimensione del “senso”. Si autoriproduce mediante la produzione di beni che non rispondono ai reali bisogni dell’umanità. A tal fine ha falsificato la natura umana, infatti ha trasformato in un mito ideologico la concezione secondo cui l’uomo per natura è “un animale che non conosce che il valore di scambio”. Karl Polany fu un antropologo dell’economia, oltre che storico dell’economia, pertanto ha dimostrato nei suoi studi che innumerevoli civiltà hanno non hanno conosciuto l’economia di mercato. La naturale propensione al guadagno dunque non è connaturata all’essere umano; la storia dell’economia e la storia delle civiltà lo dimostrano ampiamente.
Economicismo totalizzante
L’economia di mercato ha generato la disposizione al calcolo degli interessi privati e ha rimosso la reciprocità. Il liberismo ha inglobato la società nell’economia con un’azione totalitaria: la società è inglobata nei processi economici. Il popolo è solo massa da stimolare per aumentare i consumi. Il capitalismo è intrinsecamente indifferente verso l’umanità, essa ha un valore fin quando produce e consuma, se mancano tali condizioni, la si può anche non tenere in vita. Non a caso il “diritto alla libera morte” è uno dei nuovi stratagemmi con cui il capitale si libera dei soggetti improduttivi. L’estensione di tali diritti, in questi anni, è la prova evidente della natura maligna del sistema-capitale.
La logica del consumo improntata sull’utile e sull’edonismo sollecita le pulsioni più materiali, il capitalismo “animalizza” l’essere umano, lo rende animale consumante e indifferente alla vita. L’indottrinamento è la sua pratica quotidiana; gli esseri umani trasformati in tecno-consumatori finiscono, malgrado l’evidente infelicità, col credere di essere nati solo per il valore di scambio, in tal modo si lasciano morire spiritualmente, mentre sono in vita.
La pubblica utilità è oggetto di pubblico disprezzo; il capitalismo prolifera in condizioni “eticamente discutibili”, tale evidenza ci rammenta Karl Polany è rimossa dal discorso pubblico, in modo che l’automatismo possa riprodursi infinitamente senza valutare le conseguenze del sistema e il suo senso:
“Solo i bisogni più rozzi e avidi dominano la produzione, non i più nobili e illuminati. E la conoscenza di questa situazione, per quanto generale sia, non riesce a cambiare lo stato di fatto che di volta in volta si produce. La produzione, realizzata escludendo le valutazioni più elevate, ha un effetto retroattivo demoralizzante sui bisogni e li fuorvia, suscitando artificiosamente bisogni apparenti e confondendo il sano riconoscimento della gerarchia dei bisogni naturali. La produzione alimentare, agricola e industriale, la costruzione di immobili e abitazioni, l’industria dei liquori, tutto il circuito della produzione di moda e di paccottiglia, così come altri campi non meno significativi dell’economia, dimostrano oggi chiaramente l’indifferenza organica del modo di produzione capitalistico per le esigenze di maggiore utilità pubblica nell’orientamento della produzione. Dappertutto vengono creati, con un notevole dispendio di lavoro, valori d’uso, il cui rango dal punto di vista sociale è inferiore, quando non rappresenta addirittura un valore negativo. Ma anche là dove prescindiamo dal fine immediato della produzione, dal prodotto, l’economia capitalistica non riesce a tener conto del punto di vista dell’utilità pubblica: l’economia privata, per sua natura, non riesce a comprendere l’effetto retroattivo del processo di produzione sulla vita della comunità. Il capitalismo è privo dell’organo di senso per capire come si formano la salute, il riposo, l’esistenza spirituale e morale dei produttori e di coloro che abitano nelle vicinanze dei luoghi di produzione, come il bene generale è favorito o pregiudicato da questo o quell’orientamento della produzione o del modo di produzione attraverso i loro lontani effetti retroattivi” [3].
Il capitalismo non ha “visione interna”, afferma il filosofo ed economista ungherese, esso addestra a cannibalizzare e a manipolare, ma resta sempre “astratto” dalla realtà viva e vivente. Non coglie la struttura e la sovrastruttura nella loro dinamicità, non pone in relazioni le parti e specialmente non valuta le conseguenze del modo di produzione sulla comunità e sull’ambiente. La visione è ristretta, si arresta sulla parte e calcola l’utile o l’efficienza della prestazione. Il capitalismo deresponsabilizza e plasma individui incapaci di guardare in profondità la conformità del sistema alla natura umana. Insegna con l’indifferenza a dare per scontato che tutti vogliono e desiderano le medesime mercanzie. Esclude la differenza dalla propria visuale, tutti gli esseri umani sono animali al pascolo del plusvalore e non possono che desiderare come gregge belante il “medesimo”.
Il capitalismo è emotivamente cieco, non guarda gli esseri umani, ma ha occhi solo per i calcoli, gli sfugge la realtà e persegue sempre i suoi tragici obiettivi:
“Riguardo ai bisogni, per esempio, si tende a fare come se essi fossero comunque noti. Per maggior prudenza si prende poi in considerazione il consumo, in certo qual modo in sostituzione dei bisogni reali trascurati, ponendo senz’altro il consumo effettivo di un periodo passato (per esempio dell’anno precedente) al posto dei bisogni attuali. Bisogni e consumo sono, però, cose del tutto diverse, come sanno coloro il cui consumo non soddisfa i rispettivi bisogni. In effetti, il consumo effettivo passato coinciderebbe con i bisogni presenti solo se fosse stato corrispondente ai bisogni passati e se questi fossero rimasti invariati. Ma per poter essere sicuri di ciò, occorrerebbe anzitutto conoscere i bisogni. Non conoscendoli, non rimane veramente altro che ottenere arbitrariamente la perequazione tra consumo e bisogno, o meglio realizzarla sulla carta, mentre i bisogni, in realtà sconosciuti, vengono definiti e regolati dall’autorità e perciò dati per ‘noti’” [4].
Opposizione e resistenza
Al movimento anonimo e macchinale del capitale bisogna opporre la democrazia della visione interna che diviene modello sociale ed economico da realizzare. Ogni membro della comunità nel partito operaio deve partecipare alla vita politica e di fabbrica imparando così a guardare e a pensare l’intero in cui è consapevolmente implicato. La distruzione dei partiti comunisti e di ogni esperienza associativa fondata sulla gratuita reciprocità, dopo il 1989, denuncia il timore del capitalismo liberista per ogni esperienza rivelatrice della menzogna del capitale con la sua antropologia. L’essere umano diventa “umano”, se riconosce nell’altro se stesso. Solo il riconoscimento reciproco permette di intessere relazioni solidali stabili e durature. Nei momenti di crisi la capacità politica e sociale vissuta e acquisita consente di sviluppare in modo comunitario la direzione da intraprendere per risolvere conflitti e contraddizioni e di lavorare responsabilmente, affinché l’azione politica finalizzata al bene comune non decada in forme di atomismo:
“Consideriamo la condizione di un partito operaio organizzato democraticamente, durante una crisi politica acuta, dunque nel momento della sua massima prestazione. La visione che ha la direzione del partito circa la volontà, la determinazione, l’efficienza e la capacità d’azione degli elettori organizzati nel partito è perfetta. Essa conosce in ogni momento tutte le correnti e le sottocorrenti esistenti nella massa, la loro tendenza e intensità, e reagisce ad esse con la sensibilità della più sofisticata apparecchiatura fisica. La visione interna della tendenza dei sentimenti e della volontà di ampi strati di elettori è completamente realizzata in un partito del genere. Accanto a questa visione della direzione, quasi perfetta, esiste però anche, in misura notevole, una ‘visione dei membri’. Cioè, ogni membro di una vivace e democratica organizzazione di partito si rende perfettamente conto se il potere e la capacità di azione del movimento è, al momento, in fase ascendente o discendente, e anche la chiarezza di questa visione dipende quasi esclusivamente dal carattere democratico del partito” [5].
Con la visione interna non si vive da atomi, ma da esseri umani che comprendono e agiscono per soddisfare i bisogni autentici dei membri. L’economia è integrata nella società, ma è solo una parte di essa, pertanto è un “mezzo pensato e non il fine dell’agire umano”.
Il capitalismo è solo visione esterna, si limita a misurare le possibilità di investimento e valuta gli esseri umani per il ruolo che occupano e per la capacità di consumo. Esso è disumanizzante, in quanto insegna a valutare l’altro solo come mezzo. La visione interna crea legami di protezione e di difesa dalla “visione esterna” del potere. La sussistenza di forme di protezione e di difesa dalla diabolica azione del capitalismo dimostra che la natura umana è per sua predisposizione volta alla reciprocità sociale e solidale:
“Ma ogni associazione sana ha una specie di visione interna dei rispettivi rapporti di forza tra le singole sezioni in base al loro significato, cioè a seconda dell’importanza della loro funzione nell’ambito dell’azienda o dell’industria. Questa visione interna è molto di più di un sentimento confuso, è la vera base dell’organizzazione dell’associazione. La visione interna descritta circa il significato funzionale delle singole sezioni, cioè l’importanza della funzione di ognuna di esse nell’ambito dell’azienda o del settore industriale, è evidentemente uno dei più importanti elementi di futuro nella costruzione dell’attuale movimento operaio. Essa costituisce infatti uno dei presupposti più importanti dell’autogestione industriale. Il caso di una fiorente cooperativa di consumo organizzata democraticamente è molto simile. Attraverso il contatto quotidiano e diretto con le mogli degli operai, e grazie ai rapporti costanti e diretti con gli abitanti del luogo, che nello stesso tempo in quanto aventi diritto al voto sono autorizzati a indirizzare con la loro critica la direzione della cooperativa, la direzione diventa un organo della visione interna dei bisogni dei membri, visione che può essere tanto profonda e comprensiva quanto quella di un capo famiglia riguardo ai bisogni dei propri congiunti. In modo diverso ritroviamo la stessa funzione in un comune socialista. Gli abitanti di un vicinato, che hanno gli stessi bisogni collettivi e i cui dirigenti fanno parte dello stesso ambiente, trasmettono alla direzione una visione interna completa circa i loro bisogni in quanto membri della comunità” [6].
La visione interna consente il consolidarsi protettivo dalle spire del potere del capitale. La progettualità politica si materializza nella consapevolezza dei bisogni di tutti. Ogni persona ha bisogni particolari che devono essere conciliati con le necessità di tutti. Universale e particolare convivono e diventano il motore che conduce alla realizzazione di comunità solidali da estendere e con cui trascendere la violenza del mercato:
“L’autorganizzazione – questa la nostra conclusione principale – che è uno strumento della visione interna circa quell’ambito della vita dal quale nasce il motivo, il fondamento dell’autorganizzazione. Chi si unisce con i compagni in una cooperativa di consumo per soddisfare i bisogni, crea un organo della visione interna relativa all’intensità e alla tendenza dei bisogni di tutti i membri. Chi si unisce con i propri colleghi in un sindacato nell’ambito di un settore, di una professione, per proteggere il proprio lavoro, crea un organo della visione interna relativa all’intensità e alla tendenza della valutazione reciproca della fatica del lavoro” [7].
Autorganizzazione
L’autorganizzazione è visione interna. Solo la comunità che pensa collettivamente i propri bisogni può vincere il freddo automatismo del capitalismo. Per poter vincere la violenza del capitale, dobbiamo congedarci dall’economicismo, solo in tal modo possiamo acquisire un nuovo sguardo sul mondo capace di sovvertire le plurali violenze esplicite ed implicite del capitale. Senza mutare le strutture culturali nessuna rivoluzione sarà possibile. Il messaggio di Karl Polany ci è utile per imparare a guardare in profondità e ad organizzare l’autoorganizzazione dal basso con cui ricostruire la nostra e l’altrui umanità saccheggiata e alienata dal capitale. Reimparare a guardare e pensare il capitale è la condizione imprescindibile senza la quale nessuna autentica trasformazione sarà possibile. Per defatalizzare il presente è necessario storicizzare l’economia di mercato, la quale nel nostro tempo è percepita e vissuta come una “religione senza dio e senza salvezza”. La falsa religione del mercato dev’essere rovesciata, uno dei modi per sottrarci al suo condizionamento è riportare l’economia di mercato alla sua storia, in modo da emanciparci dalla sua naturalizzazione irriflessa.
Senza la definizione di natura umana la critica al capitalismo non può che essere “sterile opposizione”. Karl Polany ci rammenta che per progettare l’alternativa al capitale dobbiamo avere la chiarezza dei fini oggettivi senza i quali anche le azioni più nobili non possono che precipitare nel caos. Definire la natura umana è già progettualità politica, in quanto con essa si valuta il presente e si orienta l’azione sociale verso la disalienazione. Karl Polany è autore attualissimo, all’ignoranza del fare, opponiamo la consapevolezza che i contenuti dei grandi pensatori sono l’energia con cui pensare il presente e orientarci verso il futuro.
Per l’autoorganizzazione necessitiamo di un nuovo sguardo che sposti il suo “focus” dalla vetrina delle merci alla visione interna, senza tale divergenza nessuna prassi reale e razionale sarà possibile.
[1] Karl Polany, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi Torino, 1974 pag. 135
[2] Karl Polanyi L’obsoleta mentalità di mercato Asterios Editore Trieste, 2019 , in Scritti 1922-1957 a cura di Michele Cangiani, Asterios editore Trieste, 2009 pag. 77
[3] Ibidem, pag. 78
[4] Ibidem, pag. 83
[5] Ibidem, pag. 86
[6] Ibidem, pp. 88-89
[7] Ibidem, pag. 90
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