Riflettere sull’Olocausto insieme ad Hannah Arendt
27 gennaio del 2002: Giornata della memoria
RIFLETTERE SULL’OLOCAUSTO - HANNAH ARENDT
L’orizzonte del pensiero di Hannah Arendt, è il periodo tra le due guerre, il nazismo e il totalitarismo. Occorre tenerne conto, come e più che per qualsiasi altro pensatore, perché il suo pensiero cresce sulle cose, sui problemi, sugli eventi drammatici fra le due guerre vissuti sulla propria pelle. La questione ebraica, il nazismo, la dittatura, la società di massa, la libertà, l’agire politico, l’identità, la pluralità, sono i temi che via via si trova ad affrontare. Nata nel 1906, morta nel 1975, ebrea tedesca, Hannah Arendt sotto la guida di Karl Jaspers si laurea nel 1928 con una dissertazione su: Il concetto di amore in Sant’Agostino. Con l’ascesa al potere di Hitler (1933) è costretta a emigrare in Francia. Arrestata nella primavera del 1940 per la sua attività a sostegno delle comunità ebraiche, riesce a fuggire e a rifugiarsi negli Stati Uniti, assumendone la cittadinanza. La sua riflessione ha quest’unico confine, il mondo dell’esperienza storica, quella in cui, per usare un termine heideggeriano, l’uomo è "gettato" e con la quale deve fare i conti. L’eccezionalità e la drammaticità degli eventi a cui assiste orientano il suo pensiero verso la filosofia politica, ma anche da questa prende le distanze perché per hannah arendt pensare la politica non è pensarne il suo aspetto normativo. Pensare la politica è pensare l’esistenza, pensare il mondo "plurale" in cui viviamo e siamo. E pensarli in relazione a ciò che ci è essenziale, la libertà e la pienezza della vita di relazione. "Il senso umano della realtà esige che gli uomini attualizzino la mera datità passiva del loro essere, non per mutare, ma per rendere articolato e chiamare alla piena esistenza ciò che altrimenti dovrebbero comunque soffrire passivamente" . La vita di relazione è quella nella quale siamo interamente noi stessi, nella quale nasciamo, perché nascere è creare il nuovo, agire. "Ogni relazione promossa dall’agire, creando un legame tra uomini agenti, rientra […] in una rete di relazioni e rapporti in cui produce nuovi rapporti, modifica in modo decisivo la costellazione delle relazioni esistenti e così dilaga sempre più e mette in contatto e in movimento più di quanto l’agente abbia mai potuto prevedere" Esperienza Parola chiave per comprendere il senso di queste affermazioni è Esperienza. Leggo da un comune dizionario della lingua italiana, di Devoto-Oli. Esperire: attuare come probabile mezzo risolutivo; tentare, provare, mettere in opera Esperienza: conoscenza acquisita mediante il contatto con un particolare settore della realtà; contenuto psichico dovuto ad una vicenda individuale . Politica: teoria e pratica che hanno per oggetto la costituzione, l’organizzazione, l’amministrazione dello Stato e la direzione della vita pubblica; l’attività relativa al governo , spec. In quanto si svolge in rapporto a determinati settori o indirizzi, oppure è suscettibile di giudizio; quanto è riconducibile alla partecipazione, diretta o indiretta, alla vita politica del momento. Fig.: Comportamento improntato ad accortezza e ad astuzia, in vista di un più facile raggiungimento dei propri fini. Politico, lett. : essenzialmente caratterizzato dalla partecipazione alla vita sociale e politica.
Questa breve ricognizione ci permette di fare un piccolo discorso filosofico - il vocabolario fotografa una realtà, un momento del pensiero collettivo - : da un lato c’è la politica com’è, nella pratica (purtroppo spesso) e nel senso comune, quel senso comune che poi ce la fa accettare così com’è, che non ci fa immaginare, pensare che ci potrebbe essere un altro senso. Dall’altro la politica come dovrebbe essere, come in qualche luogo è stata agita, pensata, voluta. In Arendt il termine esperienza acquista un valore particolare. Quello che Arendt si propone con la riflessione filosofica è "di descrivere esperienze, non di costruire dottrine" . E’ il caso della vicenda degli intellettuali ebrei in Germania nel cruciale passaggio dal Settecento all’Ottocento descritta attraverso la vicenda di Rahel Varrnhagen, un’intellettuale tedesca, ebrea vissuta negli anni in cui si tentava - alla fine del Settecento - un’assimilazione degli ebrei alle varie comunità nazionali. Un processo che li espose alle contestazioni delle varie lobbies sociali. Pur di inserirsi nella buona società berlinese Rahel considerò come un marchio da cancellare la propria origine ebraica. La sua vita misura il fallimento di questa scelta, che ne fece una sradicata, cosa che non avvenne al suo erede intellettuale Heinrich Heine, che fece della sua origine ebraica un punto di forza per criticare i miti e le illusioni dei romantici. Il libro su Rahel Vernhagen offre un esempio del modo di procedere di Hannah Arendt: una esperienza che si fa pensiero e che "a partire da qui radicalmente mette in questione codici consueti". L’esperienza di un’assimilazione mancata, vissuta con e attraverso Rahel (l’assimilazione ai valori universalistici dell’illuminismo, l’assimilazione degli ebrei agli altri cittadini da Rahel voluta), introduce il tema della diversità e su questa base "misura i fondamenti stessi del pensiero occidentale moderno quale si è venuto formando tra illuminismo e romanticismo" . Da questo pensiero della differenza non emerge però, " una frantumazione dell’universalità in particolarismi o separatismi solipsistici, ma un modo nuovo di pensare l’universalità stessa come un insieme di diversità in relazione" . Dalla realtà della sua nascita Rahel non può uscire negando se stessa: "Per il mondo e nel mondo ha stabilità solo ciò che si può comunicare. Ciò che non viene comunicato e non si può comunicare, ciò che non è stato raccontato a nessuno e non ha colpito nessuno, che non è penetrato per nessuna via nella coscienza dei tempi e sprofonda senza significato nell’oscuro caos dell’oblio, è condannato alla ripetizione" . Il libro su Rahel è importante anche per un altro aspetto. Arendt è convinta che la nostra storia per trovare un senso deve essere narrata e narrata da altri. E’ quello che lei fa con Rahel. L’identità personale postula sempre il rapporto con l’altro. Ulisse piange solo al racconto delle sue azioni, dice Arendt che "soltanto ascoltando il racconto egli acquista piena nozione del suo significato" . "Verità, che senza realtà, realtà condivisa con altri uomini, perde ogni senso" . Il valore dell’esperienza per il filosofare arendtiano. Appare chiaro che qui non si tratta di appiattire il pensiero sull’esperienza. Hannah Arendt analizza il fenomeno del totalitarismo: è la sua esperienza storica (gli anni in cui visse), la sua esperienza esistenziale (lei è ebrea), filosofica (la critica al pensiero della modernità nella filosofia del ’900). Il risultato della sua riflessione è la comprensione forse più acuta di questi fenomeni della storia del nostro secolo. Valore dell’esperienza vuol dire che riusciamo a leggere la nostra vita e le nostre esperienze, che - badiamo bene - non sono così eccezionali -, senza utilizzare categorie pronte all’uso, ma facendo della nostra esperienza una chiave di lettura . Se riusciamo a leggere la nostra esperienza non come un fatto privato e individuale , un’esperienza eccezionale, ma come parte del nostro essere "gettati" (l’insegnamento heideggeriano) del nostro vivere in una data epoca. Una data epoca che ci rivela a noi stessi, nella quale troviamo le coordinate del nostro esistere - vivere, pensare, sentire, agire in un certo modo. Non si tratta di interpretare la nostra singola esistenza ma di capire il nostro universo di senso, nel quale non siamo solo noi ma anche "l’altro", gli altri. Agire politico E’ la pluralità che fonda l’agire politico, il riconoscimento reciproco delle diversità viste all’interno della scena comune che è il mondo. Agire politico, action, "sola attività che metta in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione delle cose materiali". Quindi condizione in cui l’uomo non si aliena nelle cose che usa e produce ma si realizza fra gli uomini e grazie ad essi. In senso kantiano, non usa strumentalmente il prossimo per i propri fini, ma lo riconosce come diverso e ne rispetta il punto di vista senza volergli imporre il proprio. L’azione politica viene distinta dal lavoro - ciò che serve per la sopravvivenza biologica- e dalla poiesis - attraverso cui l’uomo costruisce oggetti durevoli. L’azione politica è la pratica attraverso cui l’essere umano conferisce senso alla sua esistenza. "Si riscatta dalla naturalità del genere affermandosi nella sua singolarità. Descritta come un fine in sé, tra le attività umane è l’unica capace di dare vita al nuovo" . Lo spazio pubblico dell’agire è quello della parola, del discorso. Tutte le filosofie che hanno cercato di occuparsi delle città "si sono astrattamente poste l’obiettivo di definire dall’esterno quali devono essere i fini ultimi a cui la convivenza politica deve tendere" . Per Arendt si tratta invece di dare valore all’essere insieme, al momento della elaborazione, nel rispetto della diversità, delle relazioni, dei fini, dei modi della convivenza, senza che questi siano imposti dall’alto in nome di un’idea di bene comune da cui inevitabilmente molti saranno esclusi. Lo spazio politico è quindi in Arendt uno spazio potenziale, non fattuale, non dato una volta per tutte, fosse pure il migliore dei mondi possibile. Si pone qui la questione del potere. Per Arendt esso consiste in attività, relazioni, e come tale non può essere ceduto. Potere come autorità, autorità conferita nel vivo delle relazioni e nel fare come agire politico. Nozione poco determinata, ma sulla quale possiamo fondare la nostra libertà, che "non è qualcosa di cui ci si possa impossessare una volta per tutte […]. Indeterminabile, se non al prezzo della sua distruzione, essa deve tuttavia continuare a sostenerci con la promessa di un suo arrivo sempre imminente" . E’, questo, un fare, il più lontano possibile da quello che invece caratterizza, secondo Arendt, gli individui nella società di massa, in cui l’isolamento getta facilmente gli individui alla sottomissione. Autorità come contrario di potere, quel potere e quell’isolamento che hanno prodotto il venir meno della capacità di giudicare, di saper discriminare "bene" e "male", che hanno prodotto "la banalità del male", gli orrori nazisti dei campi di concentramento. Responsabilità (giudizio) Le origini del totalitarismo e le cronache del processo Eichmann sono i testi in cui Arendt ha svolto alcune delle sue riflessioni più interessanti. Riguardano il giudizio e la responsabilità ma presuppongono sempre l’idea di politica e il tema della pluralità di cui abbiamo parlato. Interessante, ancora una volta, dare un’occhiata al dizionario di Devoto e Oli. Responsabilità: Consapevolezza di un impegno assunto o di un comportamento, l’accettazione di ogni conseguenza, spec. Dal punto di vista della sanzione morale e giuridica; in diritto, situazione per la quale un soggetto giuridico può essere chiamato a rispondere della violazione colposa o dolosa di un obbligo. Questa per la parola astratta. E notiamo come implichi da un lato la consapevolezza di un impegno assunto o di un comportamento, mentre dall’altra è prevista la responsabilità per la violazione di un obbligo. Responsabile: di persona che in quanto consapevole del proprio agire diviene suscettibile di giudizio o di sanzione; conscia della proprie responsabilità, e quindi perfettamente adeguata al compito per serietà e capacità; i cittadini più illuminati e solleciti del pubblico bene; di persona in quanto investita di determinati doveri in riferimento alla mansione che ricopre o al grado che riveste; lo stesso che colpevole (rendersi responsabili di). In questo senso il termine una varietà di significati, che mettono in campo le mansioni, le responsabilità di ognuno , ma anche, ancora una volta, la consapevolezza. Consapevolezza e responsabilità, sono due termini di nuovo riuniti da Arendt quando il senso comune cercava di separarle. Avveniva in un momento storico e in relazioni a fatti, eccezionali. Quelli in cui siamo chiamati a pensare e giudicare fuori dalla rete delle categorie date, dei principi universali quando diventano vuote parole atte a giustificare tutto.. Pubblicato per la prima volta nel 1958 negli Stati Uniti, Le origini del totalitarismo ha avuto diverse ristampe (l’ultima, recente, edizioni Comunità). Libro controverso e rifiutato in passato dalla sinistra per l’assimilazione di nazismo e stalinismo col totalitarismo, analizza diversi nodi storici: "il fallimento degli Stati nazionali, e della loro promessa di coniugare cittadinanza e universalità dei diritti umani; la massificazione della società, che trasforma gli appartenenti alle masse in atomi impotenti e isolati; l’illimitato desiderio espansionistico dell’imperialismo, che oltre a concorrere alla formazione di una mentalità dominatrice insegna all’Europa i metodi illegali e arbitrari messi a punto nelle colonie; il razzismo [antisemitismo] che porta con sé il fardello di credenze legate al sangue e al suolo; l’elaborazione di ideologie che pretendono di procedere in accordo con le eterne leggi della Natura e della Storia" . Ma a capire ancor meglio la natura del totalitarismo - e, forse, i rischi sempre in agguato per la società di massa in cui viviamo e che rendono necessario un fare politico come quello che abbiamo descritto - i celebri servizi giornalistici sul «New Yorker» in occasione del processo Eichmann nel 1961 . Si tratta del processo al criminale nazista Eichmann, uno dei responsabili dell’Olocausto, processo in cui la posizione di Arendt si distingue sia dalla difesa dell’accusato (non aveva fatto altro che ubbidire agli ordini) sia dall’accusa (che con Eichmann pretendeva di processare un sistema). Si tratta invece di responsabilità personale e nell’analisi di questa responsabilità emerge la nozione di giudizio. Ma andiamo per ordine. Quello che colpisce Arendt è la assoluta normalità di Eichmann: un uomo che poteva compiere quei crimini e sentirsi tranquillo (non era solo una linea della difesa), che poteva mandare gli ebrei nelle camere a gas e poi giocare coi bambini, essere un buon padre di famiglia. Ciò che la colpisce è la banalità. Eichmann è un "banale" mostro "perché, seguendo le indicazioni di giuristi e filosofi, si è scaricato da ogni responsabilità obbedendo a un ordine formalmente legittimo, senza aver il coraggio di pensare con la propria testa […]. Diventa così il modello di ogni deresponsabilizzazione burocratica" . Per Arendt la virtù non è un habitus insegnabile, è una perenne interrogazione nelle situazioni di conflitto, "resistenza deliberata a ogni conformismo di un ethos collettivo". Ricordiamo la critica ai principi astratti, "la radicata diffidenza di Arendt per ogni esaltazione totalizzante dei "diritti umani", ritorniamo al rifiuto del pensiero della permanenza, il pensiero metafisico, che si traduce in un pensiero della stabilità e dell’ordine politici. Ancora una volta il richiamo è alla concretezza dell’esperienza, al particolare, al singolare. "L’inesorabile banalità del male sembra potersi arrestare soltanto attraverso il giudizio che distingue, a prescindere da leggi e criteri generali, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato" . "Nessun criterio universale e nessun richiamo al dovere verso l’ethos di una determinata comunità possono giustificarmi per la mia mancata responsabilità, per il mio non avvenuto giudizio" . Giudizio Giudizio è, in senso kantiano, "l’attribuzione di un oggetto a una categoria (oggettiva o soggettiva) espressa mediante il rapporto di due concetti; nel senso comune è un parere motivato, un’opinione". Ma anche, più analiticamente, "la capacità individuale di valutare o definire"; e, nel significato estensivo "sentenza, decisione". Eichmann non ha esercitato la sua capacità di giudizio, l’individuo isolato della società di massa non esercita questa facoltà. Si tratta invece, per Arendt, nelle situazioni di conflitto, di riprendere la nozione kantiana del giudizio nella terza critica, non il giudizio determinante, che applica principi generali alle cose particolari (e rischia di escludere tutto ciò che non si conforma a questi principi), ma il giudizio riflettente, simile a quello estetico, che parte dal particolare ma un particolare in cui è visibile, si riflette, il senso universale, il fine, potremmo dire il giusto. "E’ a questo proposito [interpretare l’orrore nazista come un avvenimento della storia dell’essere, il ridurre l’ente a cosa] che l’atteggiamento malinconico della Arendt, di cui parla Lyotard, si allontana dal rammemorare […] di Heidegger per farsi "responsabile e battagliero" nei confronti di una realtà che strappa alla contemplazione […]. E’ dall’autoinganno implicito in ogni puro filosofare, che il suo pensiero, accettando la sfida del suo essere "gettato" "situato", assai più dell’ "Esser-ci" heideggeriano, trova la forza di testimoniare per ciò che è accaduto e non doveva accadere. Una testimonianza sorretta innanzitutto dal faticoso tentativo di ricostruire gli avvenimenti che hanno fatto esplodere il "male radicale"; poi, dalla difficile riflessione su di un possibile significato inedito di politica; e infine, dalla sommessa speranza che si possa trovare nella capacità di giudizio il luogo da cui combattere la "banalità del male" Nel 1961, Hannah Arendt seguì a Gerusalemme il processo al criminale nazista Adolf Eichmann come corrispondente del The New Yorker, e fu sulle colonne di quel giornale che il resoconto del processo uscì per la prima volta. La banalità del male, pubblicato per la prima volta da Feltrinelli nel 1964 sull’edizione americana del maggio 1963, più ampio rispetto al resoconto, ne mantiene tuttavia il taglio descrittivo e il linguaggio chiaro, in cui la riflessione si unisce al racconto e alla cronaca. Un libro prezioso, sia per ricostruire una pagina fondamentale della storia del nostro secolo, sia per avviare una riflessione filosofica sui temi cui prima abbiamo accennato e che, per il modo in cui è scritto, può raccomandarsi con sicurezza alla lettura degli studenti.(la biblioteca del nostro liceo ne possiede due copie nella nuova edizione della Feltrinelli del maggio 1999). Trascriviamo da La banalità del male le pagine dedicate al racconto del caso della Danimarca. Eichmann aveva avuto il compito di sovrintendere alla parte organizzativa della deportazione degli ebrei nei campi di concentramento da tutti i paesi che via via il Reich sottoponeva al suo controllo. Il caso danese si stacca da tutti gli altri, come ci segnala la stessa Arendt - che però nel libro racconta tutte le vicende dei singoli paesi - ed è per questo che noi lo segnaliamo, ad esemplificazione anche delle riflessioni di Hannha Arendt sulla responsabilità e sul giudizio a partire dal caso Eichmann.
"Ma fu in Danimarca che i tedeschi dovettero constatare quanto giustificate fossero le apprensioni del ministero degli esteri.[i timori delle difficoltà che si sarebbero incontrate nei paesi scandinavi per imporre loro la soluzione finale].La storia degli ebrei danesi è una storia sui generis, e il comportamento della popolazione e del governo non trova riscontro in nessun altro paese d’Europa, occupato o alleato dell’Asse o neutrale e indipendente che fosse. Su questa storia si dovrebbero tenere lezioni obbligatorie in tutte le università ove vi sia una facoltà di scienze politiche, per dare un’idea della potenza enorme della non violenza e della resistenza passiva, anche se l’avversario è violento e dispone di mezzi infinitamente superiori. Certo, anche altri paesi europei difettavano di "comprensione per la questione ebraica", e anzi si può dire che la maggioranza dei paesi europei fossero contrari alle soluzioni "radicali" e "finali". Come la Danimarca, anche la Svezia, l’Italia e la Bulgaria si rivelarono quasi immuni dall’antisemitismo, ma delle tre di queste nazioni che si trovarono sotto il tallone tedesco soltanto la danese osò esprimere apertamente ciò che pensava. L’italia e la Bulgaria sabotarono gli ordini della Germania e svolsero un complicato doppio gioco, salvando i loro ebrei con un tour de force d’ingegnosità, ma non contestarono mai la politica antisemita in quanto tale. Era esattamente l’opposto di quanto fecero i danesi. Quando i tedeschi, con una certa cautela, li invitarono ad introdurre il distintivo giallo, essi risposero che il re sarebbe stato il primo a portarlo, e i ministri danesi fecero presente che qualsiasi provvedimento antisemita avrebbe provocato le loro immediate dimissioni. Decisivo fu poi il fatto che i tedeschi non riuscirono nemmeno a imporre che si facesse una distinzione tra gli ebrei di origine danese (che erano circa seimilaquattrocento) e i millequattrocento ebrei di origine tedesca che erano riparati in Danimarca prima della guerra e che ora il governo del Reich aveva dichiarato apolidi. Il rifiuto opposto dai danesi dovette stupire enormemente i tedeschi, poiché ai loro occhi era quanto mai "illogico" che un governo proteggesse gente a cui pure aveva negato categoricamente la cittadinanza e anche il permesso di lavorare […] I danesi spiegarono ai capi tedeschi che siccome i profughi, in quanto apolidi, non erano più cittadini tedeschi, i nazisti non potevano pretendere la loro consegna senza il consenso danese. Fu uno dei pochi casi in cui la condizione di apolide si rivelò un buon pretesto, anche se naturalmente non fu per il fatto in sé di essere apolidi che gli ebrei si salvarono, ma perché il governo danese aveva deciso di difenderli. Così i nazisti non poterono compiere nessuno di quei passi preliminari che erano tanto importanti nella burocrazia dello sterminio, e le operazioni furono rinviate all’autunno del 1943. Quello che accadde allora fu veramente stupefacente; per i tedeschi, in confronto aciò che avveniva in altri paesi d’Europa, fu un grande scompiglio. Nell’agosto del 1943 (quando ormai l’offensiva tedesca in Russia era fallita, l’Afrika Korps si era arreso in Tunisia e gli Alleati erano sbarcati in Italia) il governo svedese annullò l’accordo concluso con la Germania nel 1940, in base al quale le truppe tedesche avevano diritto di attraversare la Svezia. A questo punto i danesi decisero di accelerare un po’ le cose: nei cantieri della Danimarca ci furono sommosse, gli operai si rifiutarono di riparare le navi tedesche e scesero in sciopero. Il comandante militare tedesco proclamò lo stato d’emergenza e impose la legge marziale, e Himmler pensò che fosse il momento buono per affrontare il problema ebraico, la cui "soluzione si era fatta attendere fin troppo. Ma un fatto che Himmler trascurò fu che (a parte la resistenza danese) i capi tedeschi che ormai da nni vivevano in Danimarca non erano più quelli di un tempo.[…] Comunque, fin dall’inizio era chiaro che le cose non sarebbero andate bene, e l’ufficio di Eichmann mandò allora in Danimarca uno dei suoi uomini migliori, Rolf Günther, che sicuramente nessuno poteva accusare di non avere la necessaria "durezza". Ma Günther non fece nessuna impressione ai suoi colleghi di Copenhagen, e von Hannecken si rifiutò addirittura di amanare un decreto che imponesse a tutti gli ebrei di presentarsi per essere mandati a lavorare. Best [plenipotenziario del Reich] andò a Berlino e ottenne la promessa che tutti gli ebrei tedeschi sarebbero stati inviati a Theresienstadt [campo di concentramento "blando" dove venivano mandate alcune categorie "privilegiate" di ebrei], a qualunque categoria appartenessero - una concessione molto importante, dal punto di vista dei nazisti. Come data del loro arresto e della loro immediata deportazione (le navi erano già pronte nei porti) fu fissata la notte del 1° ottobre, e non potendosi fare affidamento né sui danesi né sugli ebrei né sulle truppe tedesche di stanza in Danimarca, arrivarono dalla germania unità della polizia tedesca, per effettuare una perquisizione casa per casa. Ma all’ultimo momento Best proibì a queste unità di entrare negli alloggi, perché c’era il rischio che la polizia danese intervenisse e, se la popolazione danese si fosse scatenata, era probabile che i tedeschi avessero la peggio. Csì poterono essere catturati soltanto quegli ebrei che aprivano volontariamente la porta. I tedeschi trovarono esattamente 477 persone (su più di 7.800) in casa e disposte a lasciarli entrare. Pochi giorni prima della data fatale un agente marittimo tedesco, certo Georg F. Duckwitz, probabilmente istruito dallo stesso Best, aveva rivelato tutto il piano al governo danese, che a sua volta si era affrettato a informare i capi della comunità ebraica. E questi, all’opposto dei capi abraici di altri paesi, avevano comunicato apertamente la notizia ai fedeli, nelle sinagoghe, in occasione delle funzioni religiose del capodanno ebraico. Gli ebrei ebbero appena il tempo di lasciare le loro case e di nascondersi, cosa che fu molto facile perché, come si espresse la sentenza, "tutto il popolo danese, dal re al più umile cittadino", era pronto ad ospitarli. Probabilmente sarebbero dovuti rimanere nascosti per tutta la durata della guerra se la Danimarca non avesse avuto la fortuna di essere vicina alla Svezia. Si ritenne opportuno trasportare tutti gli ebrei in Svezia, e così si fece con l’aiuto della flotta da pesca danese. Le spese di trasporto per i non abbienti (circa cento dollari a persona) furono pagate in gran parte da ricchi cittadini danesi, e questa fu forse la cosa più stupefacente di tutte, perché negli altri paesi gli ebrei pagavano da sé le spese della propria deportazione, gli ebrei ricchi spendevano tesori per comprarsi permessi di uscita […], o corrompendo le autorità locali o trattando "legalmente" con le SS, le quali accettavano soltanto valuta pregiata e, per esempio in Olanda, volevano dai cinquemila ai diecimila dollari per persona. Anche dove la popolazione simpatizzava per loro e cercava sinceramente di aiutarli, gli ebrei dovevano pagare se volevano andar via, e quindi le possibilità di fuggire, per i poveri, erano nulle. Occorse quasi tutto ottobre per traghettare gli ebrei attraverso le cinque-quindici miglia di mare che separano la Danimarca dalla Svezia. Gli svedesi accolsero 5919 profughi, di cui almeno 1000 erano di origine tedesca, 1310 erano mezzi ebrei e 686 erano non ebrei sposati ad ebrei. (Quasi la metà degli ebrei di origine danese rimase invece in Danimarca, e si salvò tenendosi nascosta.) Gli ebrei non danesi si trovarono bene come non mai, giacché tutti ottennero il permesso di lavorare. Le poche centinaia che la polizia tedesca era riuscita ad arrestare furono trasportati a Theresienstadt: erano persone anziane o povere, che non erano state avvertite in tempo o non avevano capito la gravità della situazione. Nel ghetto godettero di privilegi come nessun altro gruppo, grazie all’incessante campagna che in Danimarca fecero su di loro le autorità e privati cittadini. Ne perirono quarantotto, una percentuale non molto alta, se si pensa alla loro età media. Quando tutto fu finito, Eichmann si sentì in dovere di riconoscere che "per varie ragioni" l’azione contro gli ebrei danesi era stata un "fallimento"; invece quel singolare individuo che era il dott. Best dichiarò: "Obiettivo dell’operazione non era arrestare un gran numero di ebrei, ma ripulire la Danimarca dagli ebrei: ed ora questo obiettivo è stato raggiunto". L’aspetto politicamente e psicologicamente più interessante di tutta questa vicenda è forse costituito dal comportamento delle autorità tedesche insediate in Danimarca, dal loro evidente sabotaggio degli ordini che giungevano da Berlino. A quel che si sa, fu questa l’unica volta che i nazisti incontrarono una resistenza aperta, e il risultato fu a quanto pare che quelli di loro che vi si trovarono coinvolti cambiarono mentalità. Non vedevano più lo sterminio di un intero popolo come una cosa ovvia. Avevano urtato in una resistenza basata su saldi principî, e la loro "durezza" si era sciolta come ghiaccio al sole permettendo il riaffiorare, sia pur timido, di un po’ di vero coraggio.Del resto, che l’ideale della "durezza", eccezion fatta forse per qualche bruto, fosse soltanto un mito creato apposta per autoingannarsi, un mito che nascondeva uno sfrenato desiderio di irrigimentarsi a qualunque prezzo, lo si vide chiaramente al processo di Norimberga, dove gli imputati si accusarono e si tradirono a vicenda giurando e spergiurando di essere sempre stati "contrari" o sostenendo, come fece più tardi anche Eichmann, che i loro superiori avevano abusato delle loro migliori qualità. ( A Gerusalemme [sede del processo a Eichmann nel 1960] Eichmann accusò "quelli al potere" di avere abusato della sua "obbedienza": "Il suddito di un governo buono è fortunato, il suddito di un governo cattivo è sfortunato: io non ho avuto fortuna".) Ora avevano perduto l’altezzosità d’un tempo , e benché i più di loro dovessero ben sapere che non sarebbero sfuggiti alla condanna, nessuno ebbe il fegato di difendere l’ideologia nazista". (Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, 1999, pp.177-182)
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