Ridateci Batman – oppure Cassandra

Note a margine del film Oppenheimer di Christopher Nolan (2023).
Quando frequentavo le scuole elementari, nei lontani anni ‘60, c’era il “sussidiario”, un libro pieno di figure che aveva la funzione di farci apprendere, per prima cosa, l’Alfabeto, e per seconda cosa, la Cultura Italiana. C’era infatti, per esempio, una sezione dedicata alle stagioni dove campeggiavano aratri e contadini che seminavano i campi, chicchi di grano sotto la coltre di neve, bambini sorridenti e famiglie felici. Le lettere dell’Alfabeto rappresentavano frutta (Arancia, Banana) o animali domestici (Cane, Gatto), tutte immagini rassicuranti e benevole, tranne una. La lettera H. Non ho mai dimenticato quella scritta che diceva “bomba H”: e sotto non c’era il disegno di un’esplosione o di un marchingegno elettronico, ma una piccola macchia giallastra, simile alla pipì di un cane.
Così mi sono immaginata, in quegli anni della mia beata infanzia di baby boomer, la bomba. Una lettera che si scrive ma non si pronuncia, come un soffio. Qualcosa che lascia un segno che poi evapora, che serve a marcare un territorio ma che non lascia dolore. Quando la H si è trasformata, in edizioni successive, nella confortante H di Hotel, eravamo già tutti globalizzati, era passata la paura.
Il film di Christopher Nolan (definito in ogni modo possibile: epico, biografico, scientific biopic, storico, thriller…) non ha deluso le aspettative di chi si era già preparato da almeno due anni al capolavoro assoluto. Mentre io, rannicchiata sulla mia poltroncina nel buio di una sala sorprendentemente gremita (e dire che era una versione originale pomeridiana), ripensavo alla bomba H del mio libro delle elementari, le immagini e le musiche del film scorrevano fluide e determinate, impeccabili e spaventosamente simmetriche (come avrebbe detto il poeta inglese William Blake) al mio sguardo e al mio udito: un prodotto perfetto, non sono io la prima a riconoscerlo. Dopo la scapestrata avventura di Tenet, il regista (qui anche sceneggiatore e co-produttore) ha puntato dritto all’Oscar – personalmente voterei per almeno sei statuette – pur non trasmettendo certamente la stessa emozione che ci ha dato il suo Batman, se non per le splendide concessioni alle allucinazioni, a mio parere l’elemento più memorabile di un film che, per i miei gusti, è ancora un po’ troppo intriso di testosterone. Del resto, qui siamo nella realtà: affondiamo nel liquame della politica, altro che Gotham City. E qui Trinity è l’esperimento atomico che precede Hiroshima e Nagasaki, non certo la protagonista di Matrix. E qui la signora Oppenheimer – dobbiamo ricordarlo? – non è la Regina Vittoria, così come Robert Downing Jr. non è Sherlock Holmes.
- Oppenheimer - locandina del film
Il romanzo da cui è tratto Oppenheimer (American Prometheus: The Triumph and Tragedy of J. Robert Oppenheimer di Kay Bird e Martin J. Sherwin, 2005) recava nella Prefazione un’efficace immagine Jamesiana: la beast in the jungle. Qui però non è la paura della paura, quella che ti paralizza e che non ti fa vivere con pienezza (come appunto nel capolavoro di Henry James, nonché nel famoso Four Freedom Speech di F. D. Roosevelt), bensì la paura del comunismo, quella bestia che viene evocata magistralmente per tutto il film – suggerendo comunque che sono ben altre le “bestie” da cui guardarsi. A ben vedere, credo sia questo il vero filo conduttore del film: non solo la coscienza dello scienziato, diviso fra la ricerca e l’obbedienza al governo; non solo la difficoltà della sua scelta politica e morale; ma anche e soprattutto la perplessità di ieri e di oggi riguardante l’ostinata messa al bando, insieme al comunismo, della possibilità di un pensiero divergente, di un legittimo dissenso, nel Paese tradizionalmente ritenuto la culla della democrazia e del libero pensiero.
Kai Bird è uno scrittore americano vincitore del Premio Pulitzer e studioso delle relazioni pubbliche fra Stati Uniti e Medio Oriente. Si è occupato in modo approfondito dei bombardamenti atomici sul Giappone e ha scritto American Prometheus insieme a Martin Jay Sherwin, storico esperto di armi e guerra nucleare, deceduto nel 2021. Leggendo oggi le loro pagine, ho ripensato a un romanzo che ho letto durante la pandemia, The Cassandra di Sharma Shields (2019). Se in Oppenheimer abbiamo il recupero del mito di Prometeo che ruba il fuoco agli dei per darlo agli uomini, The Cassandra reinterpreta un’altra figura mitica, quella di una delle protagoniste più inquietanti dell’immaginazione letteraria dell’antichità e oggetto di suggestive rivisitazioni in età moderna (vedasi la più nota, Cassandra di Christa Wolf, 1983). In lei convergono infatti vari topoi, dalle problematiche di genere al ruolo politico del linguaggio, fino alla tematica della catastrofe annunciata, tanto cari al dystopian romance, ai disaster movies e alle plot theories. In ambito americano, da The Cassandra Crossing di Robert Katz (1976) a Cassandra’s Dream di Woody Allen (2007), fino a The Cassandra Compact di Robert Ludlum (2009), tuttavia, non avevamo mai incontrato un personaggio che incarnasse veramente la profetessa: avevamo dovuto accontentarci di allusioni, allegorie e metafore (generalmente negative) legate a nomi di oggetti, animali, luoghi o procedure.
The Cassandra di Sharma Shields (2019), al contrario, riguarda la storia di una donna che, nonostante abbia un altro nome, viene così definita per la sua capacità visionaria. Come l’eroina del mito, è in grado di prevedere sventure e questo basta a emarginarla sia in famiglia sia nella società. La sua posizione all’interno di un’azienda governativa che contribuisce, in segreto, alla costruzione della bomba atomica (il romanzo inizia nel 1944) non può che accentuare il suo “dono”, che la porta a una crescente agitazione nervosa e a una conseguente separazione dalle colleghe e dagli uomini con i quali ha relazioni complicate.
Il rapporto con la madre e la sorella prima, con le colleghe poi; il tentato omicidio compiuto quando era ragazzina e l’omicidio che compie effettivamente una volta adulta; i due animali simbolici – airone e coyote – che le fanno compagnia nei suoi sogni di sonnambula; tutto intorno a lei sembra dimostrare l’impossibilità di raggiungere un’identità (di cittadina, di donna, di americana, di essere umano) contro l’evidenza che tutto è destinato a duplicarsi, a frammentarsi, a esplodere. Provando su di sé il dolore di chiunque sia destinato a soffrire, e sperimentando in prima persona e prima di chiunque altro lo strazio dei corpi di uomini, donne e bambini massacrati dall’esplosione nucleare e dai suoi effetti collaterali, la Cassandra del romanzo in questione ci pone questioni cruciali di ordine etico, politico, biologico e culturale, interrogandoci a ogni pagina sul nostro livello di responsabilità.
Il film di Nolan, pur incentrato sulla figura del fisico “padre dell’atomica” e pur focalizzato soprattutto sulla scienza, si muove su binari analoghi, ma gli manca a mio parere quella forza visionaria e quella passione politica che ne fanno un film di contestazione, ma mai abbastanza coraggioso. Oppenheimer, del resto, non è Batman: il suo mondo reale non gli permette né un eroismo sensazionale, né una risurrezione rituale. Sarebbe bello che Nolan, o altri registi del suo pari o ancor meglio registe, sceneggiatrici e produttrici, scoprissero il gioiello racchiuso in The Cassandra – del resto, il Prometeo Americano ha aspettato per più di 15 anni prima di approdare al grande schermo. Restiamo in paziente attesa.
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