Ricordando Pio La Torre
Un uomo sembra di carattere assai più spesso perché segue Il suo temperamento, che perché segue sempre i suoi principi. (F. Nietzsche, Umano troppo umano)
La mia amica Antonella è una bella tipa. Vive a Francofonte, Siracusa, ed è proprio una bellissima persona. Determinata, testarda, onesta, capace di tenersi dentro incazzature ferree, inossidabili contro qualcuno o qualcosa che le garba. Ma non è scontrosa o burbera. Tutt’altro. Ride e sa ridere, ama la vita, la musica, la poesia, la letteratura. Ed è antimafiosa. Visceralmente antimafiosa. Odia i prepotenti, i parassiti che si ingrassano sulle disgrazie e sulle paure altrui, i violenti che vogliono imporre le loro ragioni sparandole fuori da una semiautomatica. Anche per questo, devo dire il vero, è mia amica.
Poco meno di un mese fa, Antonella mi ha chiamato. Ha ricevuto una bellissima notizia. E’ risultata assegnataria, assieme ad altri ragazzi coraggiosi e tenaci, di alcune terre sequestrate a Cosa Nostra nella Sicilia Orientale, tra le province di Catania e Siracusa. Ora formeranno una bella cooperativa, che si chiamerà come un’altra integerrima combattente, Felicia Bartolotta, la mamma di Peppino Impastato. E inizieranno a produrre olio d’oliva, pasta di grano duro, vino forte e irruente come la passione di questi ragazzi. Con il gusto dolce e corroborante della libertà. Sono fiero di loro. E contento. Ho pensato a come la vita di questi miei coetanei cambierà, a come si sentiranno impegnati, carichi di responsabilità. A tutte le soddisfazioni e le inevitabili delusioni cui andranno incontro. Ché, si sa, non si mangia mai miele senza mosche, come si dice dalle nostre parti.
Ma qui scatta un altro ricordo. Il ricordo dell’uomo che, a costo della vita, ha consentito tutto questo. Che ha reso possibile il dipanarsi della vicenda di Antonella e dei suoi colleghi, così come quella di centinaia di altri giovani meridionali divenuti per la prima volta padroni di se stessi e delle proprie vite, liberi dalle mafie e dal disonore. Quest’uomo che mi piace ricordare si chiamava Pio La Torre e morì ammazzato a Palermo l’ultimo giorno di aprile di ventotto anni fa insieme al suo autista, Rosario Di Salvo.
Ci sono delle foto, delle immagini che fanno ormai parte della memoria collettiva. Una sorta di mondo visivo che accompagna i nostri ricordi e la nostra storia. Così, in questo immenso archivio fotografico, trovano posto le istantanee della storia del Novecento italiano. La donna che mostra il titolo sul Corriere della Serra “E’ nata la Repubblica italiana”, il ragazzo che, nel ’77, punta, a braccia tese, la P38; Zoff che alza la Coppa del Mondo vinta in Spagna nel 1982; Moro nella prigione delle BR davanti alla bandiera con la stella a cinque punte. E ancora, la 112 beige di Dalla Chiesa crivellata di colpi in Via Carini; Falcone e Borsellino che confabulano complici; l’orologio della stazione di Bologna, il vetro frantumato, arrestatosi alle 10,25 del 2 agosto 1980. Infine, un piede. Anzi, una gamba. Una gamba che sbuca dal finestrino di una Fiat 132. Una gamba come quella di una marionetta, a penzoloni da quel finestrino. La gamba destra di Pio La Torre, ucciso in Piazza Generale Torba, alle 9,27 di una mattina irrorata dalla luce e dall’azzurro della primavera palermitana. Muore così, a nemmeno 55 anni, l’uomo che aveva capito come dare scacco a Cosa Nostra.
E’ intelligente Pio. Passionale, intelligente, caparbio, cocciuto, persino petulante. E’ nato in una famiglia poverissima di contadini. Miseria. Miseria nera, è ciò che ricorderà della sua infanzia ad Altarello Baida, frazione di Palermo. Cinque figli ed i genitori dentro una sola stanza, assieme alle bestie, l’orinale sotto il letto, niente acqua in casa, niente elettricità. Nel ’45, finita la guerra, si iscrive al PCI e poi alla CGIL, di cui diviene ben presto segretario regionale. Si sta spalancando la stagione dell’occupazione delle terre e la Sicilia centrale e occidentale era in fermento. Tra il marzo e l’aprile del 1948, alla vigilia delle elezioni politiche, vengono uccisi vari segretari di Camere del Lavoro, Placido Rizzotto a Corleone, Calogero Cangelosi a Camporeale, Epifanio Leonardo Li Puma a Petralia. Ma La Torre non ha paura. Il 6 marzo il PCI decide di votare la mozione che fa scattare l’occupazione delle terre. Il 10 si parte. A Bisacquino, un corteo lungo cinque chilometri con seimila partecipanti muove per prendere possesso delle terre incolte, ma trova sulla strada le forze dell’ordine. Ne nascono disordini, alla fine dei quali Pio è arrestato. Resterà in carcere per un anno e mezzo, fino al 23 agosto 1951. Sempre in isolamento. Non può parlare con nessuno. Solo con la moglie, Giuseppina Zacco, che viene a trovarlo. Per i colloqui Pio non può raggiungere una sala visite, ma deve solo sporgere la testa dallo sportellino ritagliato nella porta della cella. Dirimpetto, un’altra porta con uno sportellino simile: da lì affaccia il capo la moglie. Così si parlano. Loro come tutti gli altri carcerati. In una bolgia di urla, lamenti, stridii, bestemmie, improperi.
Uscito di carcere, riprende la lotta. E studia e lotta. Studiare e lottare: questo è ciò che bisogna fare per liberarsi da servitù secolari e paure ancestrali. Studiare e lottare, ché difendersi bisogna, dice. Nel 1972 viene eletto deputato nelle liste del PCI e va a Roma, entrando a far parte della Commissione Antimafia, presieduta dal democristiano Luigi Carraro, fine giurista padovano, uomo moderato e temperato per natura, lontano mille miglia dalla sanguigna (e sanguinosa) emergenza meridionale. Tanto che, nella relazione di maggioranza, presentata nel 1976 il buon professor Carraro, sfidando ridicolo e senso della realtà, parla di un fenomeno mafioso in via di scomparsa o avviato a trasformarsi “in una comune forma di delinquenza organizzata, non più connotata da requisiti tipici”. E, in tale contesto, appaiono ben fondate le critiche che vengono dai commissari dell’opposizione, di destra (MSI) e sinistra, tra i quali spiccano i nomi di Pio La Torre e del magistrato Cesare Terranova, che presentano una relazione di minoranza frutto di uno scrupoloso lavoro che, accanto alla ricostruzione storica del fenomeno, pone l’accento sull’analisi dei traffici internazionali di droga, sulle ramificazioni orizzontali e verticali, nel Palazzo, di Cosa Nostra, sulla capacità di penetrazione nell’economia e nelle banche. Pio La Torre si dimostra un grande conoscitore del fenomeno mafioso e del suo sistema di potere e accaparramento. E’ conscio delle trasformazioni delle ‘coppole’ in ‘cappeddi’, della mafia rurale in mafia urbana e finanziaria. Fa nomi, in quella relazione. I nomi e i cognomi di quelli che hanno depredato Palermo e la Sicilia. Fa i nomi di Vito Ciancimino, sindaco di Palermo per undici giorni, ma suo padrone per più di due decenni, di Salvo Lima e dell’imprenditore Francesco Vassallo. Nel ricostruire la vicenda che aveva portato all’uccisione del sindaco di Camporeale Pasquale Almerico, reo di essersi opposto alla penetrazione della cosca di Vanni Sacco nel partito, La Torre scrive, senza mezzi termini che, l’allora segretario provinciale della DC, il fanfaniano Giovanni Gioia “non batté ciglio e proseguì imperterrito nell’opera di assorbimento delle cosche mafiose nella DC”. Come sottolinea Umberto Santino, “utilizzando le relazioni presentate alla Commissione dalle federazioni provinciali comuniste, la relazione di minoranza disegna un quadro del potere mafioso negli anni più recenti, da cui emergono chiaramente le interazioni tra gruppi mafiosi, mondo imprenditoriale e politico.” In particolare, La Torre si sofferma sul ruolo dell’imprenditore Cassina, per decenni unico collettore degli appalti pubblici a Palermo e subappaltatore a ditte dichiaratamente mafiose. Amici e sodali di Cassina sono altri inquietanti personaggi, tra i quali Pino Mandalari, gran maestro massone e ‘commercialista di Totò Riina’, oltre che presidente della Ri.Sa. srl, la ditta dello stesso Totò ‘u Curto. In allegato alla relazione, viene presentata una proposta di legge. Una proposta frutto di anni di paziente studio ed acuta osservazione. Una proposta che avrebbe cambiato per sempre il modo di combattere la mafia poiché individua il centro nevralgico da colpire, il cuore pulsante da annientare: il potere economico, i pìcciuli, come dice lui. “Disposizioni contro la mafia”: così si intitolava, semplicemente, quella proposta. E vuole integrare la legge 575/1965, introducendo, tra l’altro, quello che poi diventerà, probabilmente, l’articolo più conosciuto, famigerato persino, del nostro codice penale: l’articolo 416-bis, quello che prevede il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso.
Eppure, quella proposta – depositata in Parlamento il 31 marzo 1980 con il nr. 1581 - dovrà aspettare parecchio tempo prima di diventare legge dello Stato. Con il rischio sempre presente di essere insabbiata, dimenticata, annacquata. E più i tempo passa, più si allunga la lista sanguinosa dei delitti eccellenti, da Mario Francese a Boris Giuliano, dal giudice Terranova al procuratore Costa, al Presidente della Regione Piersanti Mattarella.
Intanto, però, un altro fronte di lotta si apre. Il 7 agosto 1981 il governo italiano, presieduto dal repubblicano Giovanni Spadolini, annuncia l’accordo con la Nato per l’installazione degli euromissili nucleari Cruise nella base militare di Comiso, Ragusa.
La Torre capisce che non si può perdere tempo. Un’altra battaglia richiede la sua presenza. E così chiede a Berlinguer una cosa strabiliante, allora come adesso: tornare in Sicilia. In un paese, l’Italia, in cui tutti correvano e corrono dalla periferia al centro, a Roma, in cerca di poltrone, prebende e onori, La Torre fa una scelta romantica e coraggiosa: ritornare a Palermo per guidare il nascente movimento pacifista e proseguire la lotta antimafia anche su questo fronte. Tornato a casa, diviene Segretario del PCI siciliano nell’autunno del 1981, al posto di Gianni Parisi. E parte la nuova sfida. Comincia a spiegare che, se la base missilistica di Comiso fosse entrata in funzione, sarebbero arrivati almeno 10 mila soldati americani, che avrebbero ridotto la Sicilia in una specie di portaerei, in un porto franco, in cui tutti i traffici illeciti con gli Stati Uniti sarebbero diventati facili e fatali. Inizia a dare forza al movimento antimissili, organizzazione alla protesta. La Sicilia non può diventare un avamposto di guerra, ma un recinto di pace e di confronto tra i popoli, il Mediterraneo un mare di dialogo e collaborazione.
Dal Circolo della Stampa di Palermo lancia una petizione nell’ambito di un convegno al quale aderiscono esponenti di ogni orientamento politico, culturale religioso. L’obiettivo è quello di raccogliere un milione di firme. Viene fissata anche una manifestazione a Comiso per l’11 ottobre 1981, alla quale partecipano un numero enorme di sigle, circoli, club, associazioni, molti partiti e uomini politici siciliani – tra i quali, uno spezzone significativo del PSI, il partito di Lelio Lagorio, Ministro della Difesa - , ma soprattutto un’impressionante fiumana di persone, cittadini, uomini, donne, famiglie intere, con ombrellini, piccoli nei marsupi o in spalla, bandiere colorate di ogni foggia e tipo, nacchere, tamburelli, trombette, fisarmoniche, gioia di vivere e voglia di pace. Un successo enorme, inatteso. Parimenti la raccolta di firme, che spesso si svolge porta a porta, con banchetti anche nelle piazza di frazioni e comuni infinitesimali. Lo stesso La Torre spiega, in un articolo apparso postumo su “Rinascita” del 14 maggio 1982 che i motivi della contrarietà ai missili sono fondati sulla assoluta opposizione a che si trasformi la Sicilia “in un avamposto di guerra in un mare Mediterraneo già profondamente segnato da pericolose tensioni e conflitti. Noi dobbiamo rifiutare questo destino e contrapporvi l’obiettivo di fare del Mediterraneo un mare di pace.”
Dà fastidio, Pio La Torre. Anzi, rompe le scatole. A molti, a troppi. Così qualcuno pensa di porre fine a quell’anomalia. E, da che mondo è mondo, come si estirpano le anomalie, in Sicilia? Ammazzandole. E’ sempre stato così, perché stupirsi in fondo? Pio La Torre cade così. E’ il 30 aprile 1982. Sta raggiungendo la sede del partito a bordo di una Fiat 132 guidata dal compagno di partito Rosario Di Salvo. Chissà di cosa stanno discutendo i due. Progetti, parole di riscossa e di lotta, desideri di rivincita per una terra sfolgorante e martoriata. Chissà, forse parlano semplicemente del tempo, di quel cielo azzurro cobalto, di quella temperatura che invita ad un bagno a Mondello, a Sferracavallo. La macchina viene affiancata da due moto di grossa cilindrata. Sparano con pistole e mitragliatrici. La Torre muore sul colpo. Forse vuole scalciarli in un estremo tentativo di autodifesa. Ma non è così che si fermano le pallottole dei kalashnikov. Resta la macchina crivellata di colpi, il cadavere di Rosario Di Salvo che stringe in pugno la pistola con la quale ha tentato di reagire. E quella gamba fuori dal finestrino, immortalata in una foto che diventa da sola uno dei simboli della barbarie mafiosa. I funerali si svolgono il 2 maggio. Bandiere rosse a Piazza Politeama. Bandiere rosse listate a lutto. Rabbia a serrare le mascelle, occhi lucidi, animi lividi. Ennesimo senso di impotenza, di sconfitta. Parla Enrico Berlinguer: Pio non era un parolaio. Era un uomo d’azione, che faceva davvero quello che aveva in mente. Per questo è stato ucciso. Di Salvo, invece, è morto come un partigiano. In tribuna Spadolini, mezzo governo, il Presidente della Repubblica Sandro Pertini.
Poi, comincia un’altra storia. Un’altra storia all’italiana. La dinamica dell’omicidio era sembrata chiara: è stata la mafia. Ma qualcuno vuole rimestare nel torbido. Si propongono altre piste. La prima è quella cosiddetta interna. Di che si tratta? Piccolo passo indietro. Quando La Torre era tornato in Sicilia, aveva avuto sentore che qualcuno, dentro il partito, proprio onesto e corretto non era. Era stata aperta un’inchiesta interna. La Commissione disciplinare aveva appurato che di ruberie non ce n’erano state, ma aveva provveduto ugualmente a rimuovere alcuni funzionari. Tutto qui. Sembrava tutto finito. E invece, ad omicidio consumato, qualcuno si ricorda di questa vicenda per avanzare la tesi di una vendetta interna. E all’inizio anche alcuni magistrati ne vengono abbagliati. Una pista improbabile, assurda. Di una sproporzione enorme tra causa ed effetto. Ma tant’è: qualcuno la prende per buona. Ed è tanto più farsesca e improbabile quanto più si pensa che, se le cose fossero andate davvero così, ma il delitto fosse stato comunque attribuito alla mafia, quest’ultima, mai disposta ad accollarsi delitti non suoi, avrebbe provveduto a stanare e punire in tempi rapidissimi i veri assassini. Ma ciò non accade e non può accadere. Una bufala, insomma. Più interessante la seconda pista. Quella dei servizi segreti, con l’annesso forte sospetto di depistaggio. Questo filone si rivela con sorpresa nel momento in cui la Corte d’Assise di Palermo deposita le carte del processo. Si scopre allora che Pio La Torre è stato tenuto sotto osservazione (‘attenzionato’, come si dice in gergo) da parte del SIOS dell’Aeronautica militare dal 1952/53 al 1976 e poi ancora dall’ottobre 1981, in coincidenza con il suo ritorno in Sicilia, al 21 aprile 1982. Cioè fino a nove giorni – nove - prima della morte. Ora, a parte il fatto che Pio La Torre era un deputato della Repubblica italiana e, ciò nonostante, è stato sottoposto al controllo da parte dei servizi che manco un boss della mafia, desta qualche sospetto il fatto che abbiano smesso di seguirlo, controllarlo, osservarlo proprio nove giorni prima della morte. Escludendo una inverosimile coincidenza, non restano che due ipotesi allarmanti: o la mafia ha avuto la possibilità di sapere che non era più sotto osservazione oppure la sospensione del controllo è stata effettuata proprio in vista del delitto, per dare una mano agli assassini. Altra spiegazione non viene in mente.
C’è da dire che la circostanza insospettisce anche Giovanni Falcone. Dopo la sua morte, dalle pagine del diario conservate nel suo computer, ai giorni 18 e 19 dicembre 1990, emerge il suo interesse per l’istanza presentata dalla parte civile, durante il processo per il delitto La Torre, che ha invitato ad indagare sui collegamenti con la vicenda Gladio. Falcone, da quanto emerge dai suoi scritti, avanza la richiesta di incontrare i giudici romani che indagano su questa associazione segreta, ma la richiesta cade nel vuoto: chi di dovere (che Falcone non nomina, ma che tutto lascia supporre sia il Procuratore capo Giammanco) non l’accoglierà mai.
Il 12 gennaio 2007 la Corte d’assise d’Appello di Palermo emette l’ultima di una serie di sentenze che porta ad individuare in Giuseppe Lucchese, Nino Madonia, Salvatore Cucuzza e Pino Greco gli autori materiali del delitto. Dalle rivelazioni di Cucuzza, poi, divenuto collaboratore di giustizia, si è potuto tracciare la mappa dei mandanti: Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Bernardo Brusca, Antonio Nené Geraci. Perché? Per la legge che La Torre volle e che ancora porta il suo nome. Una legge che, tuttavia, non venne approvata nemmeno dopo il suo omicidio. Lo sarà solo dopo la mattanza di Via Carini e la fine di Dalla Chiesa. Probabilmente, se non ci fosse stato questo ennesimo delitto, sarebbe stata insabbiata o accantonata come avevano fatto in tante altre occasioni. Il tempo giocava pro domo mafiosa. Morto il Prefetto, sull’onda dell’emozione collettiva, la legge viene approvata una manciata di giorni appresso, il 13 settembre. E, comunque, solo perché reca la doppia firma, essendo state accorpate la proposta La Torre, dell’opposizione, e quella di Virginio Rognoni, all’epoca Ministro dell’Interno.
La legge introduce il reato di associazione di stampo mafioso. Il banco di prova sarà il maxiprocesso dell’86, ma soprattutto la sentenza della Corte di Cassazione della fine del 1992 che sancirà la consistenza di questo reato e darà ragione alla lettura ed alla ricostruzione che il pool antimafia palermitano aveva fatto della struttura di Cosa Nostra. Nel 1996 l’associazione Libera di don Ciotti raccoglie più di un milione di firme per proporre un progetto di legge popolare finalizzata a ritoccare la legge La Torre. L’obiettivo è usare i beni sequestrati alle mafie per fini sociali. La proposta diviene la legge 109/1996. Un piccolo capolavoro, che qualcuno, oggi, senza ritegno, vorrebbe stravolgere. Magari per fini inconfessabili ammantati da imprescrutabili esigenze di razionalità ed emergenza finanziarie. Ma Pio La Torre vive, oggi più che mai, nella legge da lui voluta. Quella che ha consentito alla mia amica Antonella ed ai suoi compagni di vedersi attribuire i terreni sequestrati a Cosa Nostra. E’ questa, in fondo, la parte più straordinaria che ci resta di lui. E’ questo ricamo ordinato di frasi, articoli e commi che ha incastrato Cosa Nostra. E in ogni riga, in ogni aggettivo, in ogni parola di quelle norme riecheggiano le battaglie, le speranze, le delusioni, le lotte, i desideri, i sogni di un uomo che – così mi piace pensare – ha ancora voglia di dirci, con i versi di una canzone di Rosa Balistreri, “ quannu iu moru/ faciti ca nun moru/ diciti a tutti/ chiddu ca vi dissi/ quannu iu moru/ ’un vi sintiti suli/ ca suli nun vi lassu/ mancu ditra lu fossu.”
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