Relazione DIA 2023: la permeabilità della società civile alle mafie
Non è più, ammesso lo sia mai stato, solo un problema di mafia, ma dei suoi interlocutori, di chi le asseconda, accoglie, protegge, sostiene
Se si procede a una lettura veloce dell’ultima relazione pubblicata dalla Dia – relativa al primo semestre del 2023 – e si cerca un’analisi generale del fenomeno mafioso, è possibile individuare alcune linee di tendenza delle trasformazioni delle consorterie criminali, che attestano come la dialettica persistenza – mutamento accompagni questo come altri processi storici. Nelle considerazioni che seguiranno, si prenderanno in esame le sole pagine introduttive del documento reperibile in rete (qui) proprio perché sono quelle più adatte ad argomentare la tesi generale di questo articolo.
Un primo dato chiaro è l’orientamento sempre più rilevante del mondo mafioso in ambito imprenditoriale, accompagnato sia da un aumento delle capacità relazionali sia da un uso sempre meno eclatante, ma mai dismesso del tutto della violenza. Infiltrazione silenziosa e azioni corruttive sono le strategie adottate in tal senso, grazie anche alla larghissima disponibilità di capitali accumulati in modo illecito e al crescente ricorso alle moderne tecnologie digitali. È stato proprio il Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Giovanni Melillo, audito nel giugno 2023 dalla Commissione parlamentare antimafia, a sostenere che «in generale le organizzazioni criminali mafiose vivono nel cyberspace […] lo piegano ai fini più diversi».
Se il traffico di stupefacenti resta la principale fonte di reddito dei cartelli criminali, a livello transnazionale, è vero anche che tale attività conosce anch’essa dei mutamenti, soprattutto a livello organizzativo, in virtù delle potenzialità del web in fase di smercio nonché dell’attività di «cessione al minuto, in qualche caso demandata a manovalanza straniera per compiti meramente “esecutivi”». Senza contare che l’internazionalizzazione del crimine si manifesta, poi, tramite contatti con narcotrafficanti stranieri per l’attivazione di nuovi canali di approvvigionamento o attraverso la ricerca di nuove prassi illecite, quali, ad esempio, la commercializzazione dei prodotti petroliferi. Né va omesso che la Dia rileva crescenti e significativi segnali di inserimento delle consorterie nella gestione degli enti pubblici.
A proposito di quest’ultimo aspetto, è bene avanzare qualche considerazione che attiene, di fatto, meno al mondo mafioso che alla società civile nella sua interezza e che rappresenta un elemento portante della riflessione della Dia. Si parta da un concetto chiaro espresso nella relazione: è difficile investigare sulle organizzazioni criminali anche in virtù del fatto che esse raccolgono «il massimo possibile del consenso sociale nel presentarsi come organismi che dispensano servizi e opportunità di guadagni». In sostanza, gli estensori del documento richiamano una questione centrale nell’analisi del fenomeno, ossia il tema della legittimazione sociale delle mafie data dalla loro capacità, per così dire, seduttiva. Elargiscono benessere sociale, ma non in quanto diritto del cittadino – si precisa, ancora – ma come concessione di un’entità superiore alla quale è necessario corrispondere obbedienza o, almeno, condiscendenza.
In tal senso, il documento qui presentato trova un tangibile esempio all’interno di un settore ben preciso della società nostrana: «ne consegue l’attrazione fisiologica per le organizzazioni, dotate di forte liquidità illecitamente acquisita, avvertita da quella parte del mondo imprenditoriale qualche volta in difficoltà ad affermarsi nei complessi meccanismi che regolano l’attività produttiva ed i costi di esercizio». In sostanza, al piccolo-medio imprenditore in crisi o fortemente ambizioso e immesso in un circuito ad alto livello di competitività può risultare comodo o facile farsi incantare dalla grande disponibilità monetaria delle mafie, al di là di qualsiasi riflessione sulle possibili ricadute negative nella propria attività d’impresa. Una sorta di do ut des utile a entrambi i contraenti il patto illecito: non a caso, richiamando ancora le parole del procuratore Melillo, gli estensori del documento sottolineano come la relazione mafioso – imprenditore solo marginalmente, si muova secondo uno schema che vede il secondo vittima di pressioni intimidatorie violente da parte del crimine organizzato; più spesso, «quella relazione assume caratteri diversi, dati dallo scambio di reciproci vantaggi». Ma non è il solo mondo imprenditoriale a passare al vaglio dell’analisi della Dia. Poco sotto, infatti, è possibile incontrare alcune considerazioni sui professionisti, i quali, a detta del documento, in molti casi accertati ricercano «la scorciatoia offerta dalla protezione mafiosa, con l’aspettativa di ottenere presunti vantaggi e l’illusione di riuscire a rimanere al di fuori dell’illegalità»
Ciò che emerge è, dunque, una trasformazione non recente, ma innegabile e in crescita nel rapporto tra le mafie e alcuni comparti della società civile; vale la pena osservare che una simile trasformazione si registra – come si è documentato su questa stessa rivista – nel rapporto tra ceto politico e holding mafiose, con il primo sempre più propenso a ricercare le seconde, anziché riceverle a domicilio negli uffici romani o decentrati dell’apparato politico-amministrativo.
Questa capacità delle mafie di porsi quali garanti dei conflitti nel delitto di corruzione o quali dispensatrici di servizi in tanti ambiti della vita associata – dalla guardiania dei cantieri alla risoluzione di conflitti interpersonali tra privati – è un dato di enorme importanza e chi scrive crede che non sia del tutto errata la considerazione della Dia in base alla quale «la mentalità che sottende all’atteggiamento mafioso persista tuttora nell’immaginario popolare».
Da tale osservazione, gli inquirenti ricavano un monito, un invito al mondo della politica, della cultura, dell’informazione, «infine, ma non per ultimo, al mondo del lavoro» affinché contribuiscano con i loro rispettivi sforzi a liberare «i cittadini dal bisogno di “protezione” per soddisfare i propri bisogni primari, nonché dal timore di dover sottostare a pressioni e intimidazioni». E, per dare concretezza all’assunto generale, gli autori della relazione presentano la lunga rete di fiancheggiatori che ha consentito la latitanza del fu Matteo Messina Denaro. Né omettono di ricordare come per scalfire la rete di protezione attorno ai boss mafiosi sia necessario guardare con grande lucidità al mondo carcerario e ciò non soltanto per quanto riguarda l’ordine pubblico o la sicurezza interna agli istituti detentivi, ma anche, e forse soprattutto, «per limitare la capacità delle organizzazioni di prosperare e crescere dentro le mura dei penitenziari». In altre parole, sarebbe necessario poter monitorare più accuratamente l’ingresso nelle carceri di materiale di telecomunicazione sempre più sofisticato e di dimensioni ridotte, in grado di vanificare la funzione delle misure di isolamento e di consentire un contatto permanente dei boss con il mondo esterno.
Questa lunga digressione sulla permeabilità della società civile ai presunti benefit garantiti dalle mafie serve a dare conto della porosità degli stessi enti pubblici e dell’inserimento dei criminali mafiosi al loro interno. È chiaro che il deficit civico, il malessere socio-economico, la sirena tintinnante dell’agio personale, il successo sociale – o almeno percepito così – delle mafie, unitamente alle strategie di queste ultime possono piegare le resistenze di privati cittadini e pubblici amministratori. La defezione della società civile dinanzi al contrasto alle mafie non può che rinsaldare le consorterie criminali nei loro obiettivi. Quali obiettivi? Come asseriscono i relatori della Dia, la finalità prioritaria delle mafie «si rintraccia nella tendenza ad assumere anche il potere economico, con l’intento di prevalere sugli altri acquisendo il controllo della vita civile e politica».
Non è una frase neutra, oltre a non essere una frase rassicurante. Indica un altro cambio di passo, un’ulteriore evoluzione del mondo mafioso, non più pago della mera ricchezza materiale, ma dedito all’assalto, non troppo violento, ai luoghi decisionali, alle stanze dei bottoni. Ciò che emerge dalle pagine introduttive della relazione qui schematicamente in esame, almeno se si legge in filigrana l’architettura concettuale del documento, è un significativo appello alle capacità di resistenza del mondo non mafioso. Perché quello mafioso è, stando a quelle pagine, baldanzosamente orientato a fiaccare una resistenza sempre più fiacca di suo. La Dia, analizzando le mafie, pare analizzare il mondo attorno a loro, valutandone criticamente le debolezze e le propensioni, gli appetiti e le mancanze, a partire da una mancanza, per così dire, etica. Riflettendo sull’incauta apertura dei professionisti alle consorterie criminali, infatti, gli autori del documento osservano come sia fondamentale la corretta informazione nell’efficace lotta alla mafia, «la cui chiave di volta resta la valorizzazione del senso civico».
Ci si fermi un attimo su questo aspetto. È chiaro da sempre, è sempre stato chiaro ai magistrati che hanno contrastato il fenomeno mafioso che la dimensione repressiva è parziale ai fini della lotta al crimine organizzato. Lo era decenni fa e lo è ancora. Qualsiasi documento dotato di un minimo di lucidità analitica, non può che riprendere questo ritornello quasi logoro ormai: la repressione non basta. La Commissione parlamentare antimafia, nel corso del 2020, operò due missioni in Calabria, a Catanzaro e a Vibo Valentia; quanto a quest’ultima, vale la pena osserva che, di recente, per la seconda volta è stata ha conosciuto il commissariamento dell’Asp. Bene, al termine di quell’iniziativa in terra calabra, i membri della Commissione osservavano che la risposta giudiziaria «non è sufficiente, in quanto la ‘ndrangheta è ormai profondamente radicata in tutti i settori della vita sociale e si alimenta e trae la sua forza, non solo e non tanto dal contributo dei suoi accoliti o dalle capacità dei suoi capi, ma anche e soprattutto dal prestigio sociale ed economico che ha ormai acquisito, dal consenso diffuso nella popolazione più povera che in essa vede prospettive di lavoro e di miglioramento, dal timore che oramai incuti senza compiere violenza e che conduce all’omertà, un silenzio assordante fatto di paura e a volte di complicità e che le consente di continuare, indisturbata, ad operare». Combattere la ‘ndrangheta, dunque, in che modo? Privandola del suo prestigio e, soprattutto, «di quel consenso, costruendo una adeguata base sociale attraverso un profondo e rinnovato processo di formazione e di educazione. Agire sulla formazione delle coscienze».
Ecco, ritorna lo stesso motivo-guida. Non è più, ammesso lo sia mai stato, solo un problema di mafia, ma dei suoi interlocutori, di chi le asseconda, accoglie, protegge, sostiene. Valorizzare il senso civico dei pubblici amministratori, quello degli imprenditori, quello dei professionisti, quello dei cittadini, in generale, perché sappiano porre un argine alle pretese mafiose, perché sappiano valutare i pro e i contro dell’offerta dei boss, perché decidano da quale parte guardare, senza turarsi il naso in virtù dei profitti derivanti dall’accogliere le profferte criminali. In poche pagine, la Dia fotografa la condizione morale di un Paese, il nostro, dicendoci, senza dirlo apertamente, quanto si sa per ragione e per esperienza, ossia che non c’è contrasto alle mafie privo di una crescita rigorosa del senso di comunità, la quale ultima presuppone la capacità di pensare che un interesse personale immediato e illecito possa avere conseguenze devastanti sul tessuto complessivo degli interessi collettivi e di lungo periodo.
Questo, però, è un problema che supera il tema mafioso e si innesta su un’altra questione: l’attitudine a coltivare la rettitudine, che non promette agi e paventa sacrifici. Roba impensabile o, almeno, difficile da attuare in questa piccola galassia egoistica in cui ci si trova a coabitare.
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