Quel patto generazionale

Individui meschini hanno avuto dunque l’ardire di reggere e dominare comunità e categorie di lavoro, studenti ed operai, giovani ed anziani.
Ci voleva quell’operaio sardo arrabbiato e maldicente verso l’ex ministro leghista Castelli (in diretta tv nel programma di Santoro) a scagliare parole come pietre verso la classe politica, accusata di aver disatteso ed umiliato quel “patto generazionale”, per aver messo contro la generazione dei padri a quella dei figli.
Operai cinquantenni con lavori precari (se non cassintegrati) contro figli scolarizzati ed inoccupati. Un quadro scellerato provocato dalla incapacità di chi per decenni non ha saputo programmare il futuro, pur essendosene arrogato il diritto-dovere di governarne le sorti, a favore delle nuove generazioni.
Una politica permeata di egoismo in nome di un progresso (spesso inopinatamente chiamato sviluppo) che non ha saputo inventarsi nulla di evoluto, se non situazioni governabili a propria immagine e consumo. L’ultimo episodio del tesoriere di partito che ruba 13 milioni di euro (alle spalle del suo “inconsapevole” capo) è solo l’ultima rapina del potere affiorata ai danni delle nuove generazioni.
Individui meschini hanno avuto dunque l’ardire di reggere e dominare comunità e categorie di lavoro, studenti ed operai, giovani ed anziani. Fasce sociali sempre più alle prese con disagi esistenziali e di sopravvivenza quotidiana. E giovani illusi da una scolarizzazione di massa, plagiati da coloro che non hanno saputo progettarne l’utilizzo ai fini (questo si) di una evoluzione collettiva e previdente.
Quel patto generazionale ha toccato l’apice di uno scontro sociale che appare infaustamente irreversibile, mentre i Falliti che hanno devastato il Bene comune hanno abdicato ai Tecnocrati le sorti di un paese che hanno scalciato sull’orlo del collasso. Eppure continuano spudoratamente a fare dichiarazioni, a mostrarsi apparentemente preoccupati per questo Paese. Ci hanno ridotti sul lastrico, questo è certo, umanamente prima ancora che economicamente, mentre ci accingiamo a sublimare le loro fortune, pur consapevoli che questa loro “politica” è solo una messinscena. Solo l’economia, l’alta finanza e il capitale muovono i fili del teatrino, mentre tutt’intorno la classe dei Falliti fa finta che tutto sia preservabile; recitano di non accorgersi che non c’è più nulla di recuperabile, come i residui di una nave del benessere abbandonata su uno scoglio: è ormai una balena mortalmente ferita.
Un intellettuale francese, il regista Jules Les Jour, si chiedeva: “Se montassi gli spezzoni dei cinegiornali in cui c’è De Gaulle in modo che sembri una storia, sarebbe realtà oppure finzione?” Non si accorgono (oppure lo sanno) che la scena si è frantumata. Il prologo è cronaca, mutata in storia oramai: decenni di lacrime con ponderate speranze.
Li ha descritti poeticamente il cineasta greco (appena tragicamente scomparso) Theo Angelopoulos nel suo straziante “La sorgente del fiume” (2004). Un lacrimatoio di conflitti dal secolo scorso cui solo Giobbe (e la biblica pazienza) potrebbe oggi lenirne le conseguenze. Quell’operaio sardo ha riletto, in poche imprecanti battute, una storia che pesa come un macigno.
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