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Quanto fa 50 e 50?

Proposta dall’Udi (con rilevanti dissensi interni, ad es. dell’Udi di Palermo) e appoggiata da Ds, Prc, Laboratorio 50&50, Usciamo dal silenzio, Aspettare stanca, è partita nella primavera la campagna per una legge di iniziativa popolare... Un articolo di Ida Dominijanni (IL Manifesto, 18 settembre 2007).

di Redazione - domenica 23 settembre 2007 - 7632 letture

Proposta dall’Udi (con rilevanti dissensi interni, ad es. dell’Udi di Palermo) e appoggiata da Ds, Prc, Laboratorio 50&50, Usciamo dal silenzio, Aspettare stanca, è partita nella primavera la campagna per una legge di iniziativa popolare che stabilisca parità di donne e uomini nelle candidature a tutte le assemblee elettive, dai comuni al parlamento europeo, nel solco della legge per la parità approvata dal parlamento francese nel 2000. La proposta divide il femminismo italiano, com’è già accaduto in passato ogni volta che si è cercato di promuovere a suon di leggi, quote e dispositivi antidiscriminatori (o di inclusione forzata, come sarebbe meglio definirli) la presenza delle donne nelle istituzioni. La divisione riguarda in verità in primo luogo come leggerne l’assenza (se come puro effetto di discriminazione o anche come segno di autosottrazione), e, a seguire, molti altri punti, dal giudizio sullo stato della rappresentanza e della democrazia a quello sul rapporto fra la scena politica istituzionale e la politica inaugurata dalle pratiche femministe. L’ultimo numero di Via Dogana, la rivista della Libreria delle donne di Milano («Cinquanta e cinquanta. Sessi e potere», 5 Euro), motiva un no ragionato alla proposta paritaria, pur presentando anche interventi favorevoli (Arianna Censi, che la presenta come una norma transitoria utile al «compimento di una reale democrazia», altro argomento, questo del compimento della democrazia, ritornante almeno dall’’87) o possibilisti (Annarosa Buttarelli, che la legge come «un segno del kairòs, cioè delle numerose circostanze favorevoli che ci suggeriscono un agire politico capace di cogliere l’offerta contenuta nel tempo presente». Prima di presentare gli argomenti contrari di Lia Cigarini, Giordana Masotto, Letizia Paolozzi e Sabina Baral, che personalmente condivido, consiglio l’attenta lettura nel fascicolo dell’analisi di Joan Scott (gender theorist americana fra le più note) sugli effetti della legge francese. Scott mostra come il tentativo di completare l’universalismo «oltrepassando» la differenza fra i sessi, cioè scrivendo in diritto che «il cittadino» è sia uomo che donna alla pari, si sia scontrato nei fatti con il ripresentarsi della differenza sul piano dell’immaginario e del simbolico, che evidentemente resistono al diritto: nelle campagne elettorali delle candidate, l’essere donna, l’immagine di femminilità proposta, il corpo femminile non sono stati neutralizzabili, nel bene o nel male. Concordo con Scott che in questo c’è un elemento comunque perturbante della scena politica istituzionale da analizzare con attenzione e passo agli argomenti delle non-paritariste italiane. Lia Cigarini scrive senza mezzi termini che la proposta del 50e50 è «una fettina di torta avvelenata» (la torta del potere, s’intende) perché occulta «l’altrove e l’altrimenti» delle pratiche politiche della differenza, costringe le donne che vuol promuovere ad accettare le mediazioni maschili per la spartizione del potere, non interroga e rimuove lo scarso interesse alla questione da parte delle donne esterne al ceto politico. E soprattutto, per spartire la rappresentanza democratica che c’è, non si interroga e non prende posizione sullo stato morente della democrazia rappresentativa oggi. Letizia Paolozzi elenca il vasto numero di questioni che andrebbero analizzate a monte della debole presenza femminile nelle istituzioni: «se sono le donne a non aver voglia di entrare nell’attuale politica; se sono i gruppi dirigenti dei partiti affetti da cronica misoginia; se i partiti hanno perso qualsiasi attrattiva; se la relazione maschile-femminile è cambiata; se il patriaracto è ancora in agguato». Questioni che configurano, sul senso della politica, una partita aperta fra uomini e donne, mentre «quando si dice pari e patta, la partita è finita» (a Paolozzi parrebbe più adeguato semmai lasciare aperto lo squilibrio con la regola del 40 e 60 che non parificarlo col 50 e 50). Sabina BAral dichiara la propria propensione a opporsi con la sottrazione alla «smania di volerci essere a tutti i costi»: «non posso prestare il fianco a una politica che si riduce a mero tecnicismo efficientista, che non riesce a dire alcun vissuto esperienziale». Giordana Masotto guarda molto opportunamente dentro le fratture generazionali fra il femminismo degli anni 70 e le trentenni di oggi per trovare risposta alla difficoltà di identificazione fra elettrici e (eventuali) candidate. Partita pari e chiusa, o partita dispari e aperta?


L’articolo di Ida Dominijanni è stato pubblicato su Il Manifesto


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