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Quando la realtà era più forte

Una petizione chiede per il cineasta Alberto Grifi il riconoscimento dei benefici previsti dalla Legge Bacchelli. Trent’anni fa il suo bellissimo ’Anna’ fu il precursore di una terribile epidemia: il reality show.

di Ivan Carozzi - giovedì 15 giugno 2006 - 5052 letture

Era la metà del febbraio 1972. Una ragazza sarda di sedici anni, una hippie, un po’ fatta, ciondola fra le statue e i fregi barocchi di Piazza Navona, appesantita da un pancione di otto mesi. Come accade nel Vangelo, del papà del nascituro non si sa niente. Il cineasta sperimentale romano Alberto Grifi decide di mettere in moto la sua macchina da presa e di lasciarla in funzione davanti alla vita di lei, Anna, e a quella della comunità di drop out, anarchici e libertari, che si ritrovano ogni giorno vicino alla fontana del Bernini. Da quell’antidiluviano esperimento di reality show, venne fuori ’Anna’, un film verità di dieci ore e mezzo, poi ridotte a 225 minuti, che venne presentato con grande successo ai festival di Cannes, Venezia e Berlino.

Girato in videotape e poi riversato in pellicola grazie al ’vidigrafo’, un macchinario inventato dallo stesso Grifi, ’Anna’ segue la vicenda di un pancione e di una mamma che non ha né un tetto né un lavoro, dolce come una madonna, vagamente amorale, dal temperamento lunatico. Il toscano Massimo Sarchielli, coautore del film, si presta di offrirle un tetto, di cucinarle delle amorevoli minestrine in brodo e di sostenerla lungo le ultime settimane della gravidanza. Ma questa non è che l’unica esile traccia di un plot che incespica sempre, che in realtà non esiste.

La cinepresa di Grifi, infatti, per qualche tempo si trasferisce in Piazza Navona e diventa il testimone delle storie, delle conversazioni e dei poetici deliri che covano nel mondo a zampa di elefante di quella umanità ancora nel mezzo del guado, uscita dal ’68 e già, in qualche modo, dentro al ’77. La maternità di Anna, i problemi che ne derivano e le solidarietà che s’innescano, sono soltanto lo spunto per spostare la conversazione verso la politica, l’organizzazione sociale, il futuro, le scelte di vita alternative, secondo quella modalità di scambio dell’epoca che trasformava tutto, per magia, in dibattito. Di tanto in tanto entra in scena anche qualche benpensante, così si chiamavano, e allora il quadro, per così dire, diventa davvero completo, diventa il quadro storico e dialettico di un’epoca.

Per il resto, tutto ha il respiro altalenante del caso: la preparazione del pranzo, il caffè, Massimo che rovista fra i capelli di Anna, per toglierle i pidocchi, e i pidocchi che diventano come l’evidenza bruta, animale, di una vita che non viene mai, nella sua rappresentazione, obliterata, sceneggiata o peggio, censurata. Rivedere oggi ’Anna’, nella dilagante pandemia dei reality show, fa davvero un certo effetto: è come se la realtà, in quella Piazza Navona del 1972, fosse molto più dirompente dei codici televisivi, come se conservasse ancora una sua flagranza, una sua naturale potenza, come direbbe Jean Baudrillard. Era una realtà che non si metteva in posa, che non si lasciava cortocircuitare dalle immagini, forse perché la società dello spettacolo, allora, aveva appena appena iniziato a divorarla. Ed è per questo che ’Anna’ resta un oggetto filmico meravigliosamente pimpante e seducente.

Ma perché tornare a parlarne oggi, dove sta la notizia? La notizia è che da qualche tempo circola una petizione per attribuire ad Alberto Grifi i benefici della Legge Bacchelli. Grifi, intellettuale, cineasta indipendente, classe 1938, ha continuato a lavorare, in cambio di un piatto di pasta, fino a pochi anni fa, tenendo lezioni e laboratori di cinema in molti centri sociali (io ne frequentai uno, bellissimo, al ’Macchia Nera’ di Pisa), ma adesso non possiede più una casa, si fa ospitare da qualche amico, e soprattutto le sue condizioni di salute sono molto critiche. Per firmare la petizione è sufficiente scrivere ad info@barbaranocinelab.it. La notizia l’abbiamo data in fondo all’articolo, tanto per scompaginarne la grammatica, un po’ come Jean Luc Godard, Alain Resnais e Alberto Grifi facevano con il loro pazzo, pazzo cinema.


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