Quaderno 5. Jean-Marie Muller, Significato della nonviolenza
"entrando insieme nelle vere questioni, finiremo certamente con l’entrare insieme nelle vere risposte".
Corso di educazione alla pace presso il liceo scientifico di Orte, anno scolastico 2004-2005
Materiali per la riflessione. 5
JEAN-MARIE MULLER SIGNIFICATO DELLA NONVIOLENZA
Testo estratto da "La nonviolenza è in cammino"
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Premessa
Il testo seguente è estratto dal n. 764 del 21 dicembre 2003 del notiziario telematico quotidiano "La nonviolenza è in cammino", edito dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo. Esso riproduce il saggio di Jean-Marie Muller, Significato della nonviolenza, pubblicato nel 1974 e tradotto in italiano nel 1980 per le cure di Matteo Soccio nell’opuscolo: Jean-Marie Muller, Significato della nonviolenza, Edizioni del Movimento Nonviolento, Torino 1980; da questo opuscolo abbiamo ripreso il testo del solo saggio mulleriano, ivi alle pp. 7-27. L’opuscolo integrale e’ richiedibile presso la redazione di "Azione nonviolenta", e-mail: azionenonviolenta@sis.it, sito: www.nonviolenti.org). Jean-Marie Muller è nato nel 1939 a Vesoul in Francia, docente, ricercatore, è tra i più importanti studiosi del pacifismo e delle alternative nonviolente, oltre che attivo militante nonviolento e fondatore del MAN (Mouvement pour une Alternative Non-violente). Opere di Jean-Marie Muller: Strategia della nonviolenza, Marsilio, Venezia 1975; Il vangelo della nonviolenza, Lanterna, Genova 1977; Significato della nonviolenza, Movimento Nonviolento, Torino 1980; Momenti e metodi dell’azione nonviolenta, Movimento Nonviolento, Perugia 1981; Lessico della nonviolenza, Satyagraha, Torino 1992; Simone Weil. L’esigenza della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994; Vincere la guerra, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1999; Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004. Per contattare il Centro di ricerca per la pace di Viterbo: recapito postale: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo; recapito telefonico: 0761353532; recapito di posta elettronica: nbawac@tin.it Il responsabile del centro, e direttore responsabile del notiziario da cui è estratto il testo di seguito presentato, è il coordinatore del corso di educazione alla pace che si svolge presso il liceo scientifico di Orte.
Orte, 20 dicembre 2004
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JEAN-MARIE MULLER: SIGNIFICATO DELLA NONVIOLENZA
Cio’ che caratterizza, in gran parte, ogni dibattito sulla nonviolenza e’ il
fatto che questa non ha un posto rilevante nel nostro passato. Cio’
giustifica la nostra prima reazione che non puo’ che essere di diffidenza,
di scetticismo, nonche’ d’ironia, ora bonaria ora cattiva. Percio’ si tratta
di rendere chiaro questo dibattito, al di la’ di ogni equivoco, di ogni
malinteso e di ogni confusione.
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Partire dai fatti
Bisogna partire dai fatti ed e’ sin troppo evidente che, se ci mettiamo
davanti ai fatti, ci troviamo davanti alla violenza. Del resto non saremmo
seri nella nostra riflessione sulla nonviolenza se, prima di tutto, non
prendessimo sul serio la violenza. Questa violenza, che sembra presente
dappertutto attorno a noi, si tratta di comprenderla. Sarebbe troppo facile
metterla sul piano della cattiveria o della cattiva volonta’. Infatti, la
violenza nella nostra societa’ assolve delle funzioni necessarie. Essa e’
molto spesso la ricerca di soluzioni concrete a dei problemi concreti, che
si tratti della difesa delle liberta’ o della lotta contro l’ingiustizia.
Non potremmo accontentarci di una pura e semplice condanna di tutte le
violenze quali che siano, da qualsiasi direzione provengano, ponendoci al di
sopra della mischia e richiamandoci ad una innocenza che non puo’ essere di
questo mondo.
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La violenza e’ una distruzione
Bisogna riconoscere che, in un primo tempo, questa espressione "nonviolenza"
e’ equivoca nella misura in cui appare puramente negativa. Tanto piu’ quando
noi siamo abituati a pensare alla violenza riferendola a quantita’ di valori
e di virtu’: il coraggio, la virilita’, la nobilta’, l’attaccamento alla
giustizia e alla liberta’... In modo tale che nella nostra coscienza e piu’
ancora nel nostro subconscio, la violenza appare essa stessa come un valore
e una virtu’ di cui la nonviolenza sarebbe la negazione e il rinnegamento.
E’ cosi’ che a destra, quelli che si richiamano alla nonviolenza sono
accusati di essere traditori della patria e, a sinistra, di essere traditori
della rivoluzione.
Infatti, se noi prendiamo coscienza della violenza per cio’ che essa e’,
dobbiamo definirla negativamente, come un attentato fatto alla liberta’ ed
alla dignita’ di colui che la subisce, come un’alienazione, come una
distruzione. "Non bisogna lasciarsi ingannare - scrive Ricoeur -. Il volto
della violenza, il fine che essa persegue implicitamente o esplicitamente,
direttamente o indirettamente, e’ la morte dell’altro". Percio’ il rifiuto
della violenza, la nonviolenza, diviene la condizione preliminare di ogni
azione rispettosa di "tutto l’uomo e di tutti gli uomini".
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La violenza di oppressione
Bisogna sforzarsi di comprendere non soltanto la violenza ma le violenze,
perche’ la violenza presenta molti aspetti, molte facce, e conviene dunque
introdurre delle distinzioni fondamentali.
Ne introdurro’ tre:
1) la prima violenza, che Helder Camara definisce la violenza madre di tutte
le violenze, e’ la violenza delle situazioni di ingiustizia. Potremo
chiamare questa violenza: la violenza degli oppressori, la violenza dei
ricchi e dei potenti per mezzo della quale i poveri sono mantenuti in
condizioni di oppressione.
Questo e’ importante da sottolineare nella misura in cui siamo portati a
pensare che la nonviolenza denunci le azioni armate, terroristiche o
militari, e metta tra parentesi le situazioni di violenza.
E’ importante sottolineare quanto pesi sulla nonviolenza l’equivoco del
pacifismo. Il pacifismo si attiene ad una pura e semplice condanna della
violenza armata, ma questa dottrina non e’ in grado di farci assumere fino
in fondo le nostre responsabilita’ di fronte agli avvenimenti. Se il
pacifismo si e’ sviluppato dopo la prima guerra mondiale, bisogna pero’
riconoscere che ha fallito al momento dell’aggressione nazista.
Non si puo’ eludere il problema della difesa delle comunita’, e in
particolare delle comunita’ nazionali visto che le nazioni ci sono ancora.
E’ necessario garantire la sicurezza delle comunita’. E’ un problema reale
che i pacifisti non hanno saputo risolvere.
Una comunita’ non potrebbe garantire la sua unita’, la sua coerenza, se non
ci fosse nei suoi membri il sentimento di vivere in sicurezza. Ora, e’ un
fatto che, fine ad oggi, salvo qualche eccezione, le comunita’ non hanno
saputo trovare altri mezzi per garantire la loro sicurezza che la violenza o
la minaccia della violenza, la guerra o la sua preparazione. Il problema,
dunque, non e’ soltanto di trovare un’alternativa alle virtu’ militari,
bisogna trovare anche un’alternativa ai metodi militari. Non e’ giusto
lasciare intendere che basterebbe sopprimere gli eserciti e gli armamenti
per avere la pace.
Simone Weil, che era vicinissima agli ambienti pacifisti fra le due guerre
mondiali, ha dovuto riconoscere cio’ che ha definito "l’errore criminale"
del pacifismo. In quel momento e’ andata a raggiungere anche lei le file
della resistenza violenta.
Non si tratta, dunque, di privilegiare la violenza militare e la violenza
delle armi. Se e’ vero che sono le situazioni di ingiustizia che provocano e
spiegano le azioni violente, e’ dunque innanzitutto l’ingiustizia che la
nonviolenza denuncia e combatte.
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La violenza degli oppressi
2) La seconda violenza e’ la violenza che nasce dalla rivolta degli oppressi
quando essi tentano di liberarsi dal giogo della oppressione che li
schiaccia.
Quando gli oppressi, per disperazione, ricorrono alla violenza, noi non
possiamo, in nome della nonviolenza, voltare loro sdegnosamente le spalle,
sotto il pretesto di un ideale astratto e formale di nonviolenza. La
nonviolenza ci deve mantenere sempre legati agli oppressi quand’anche questi
adoperino la violenza: non spetta a noi rimettere in discussione questa
solidarieta’ fondamentale. Possiamo avere le nostre opzioni personali, ma
non spetta a noi decidere, al posto degli oppressi, dei mezzi che essi
devono adoperare per la loro liberazione.
Se la nonviolenza condanna e combatte innanzitutto la violenza degli
oppressori, essa pero’ viene a rimettere in questione anche la violenza
degli oppressi. Liberare i poveri, vuoi dire anche liberarli dalla loro
violenza. Anche questo e’ un compito dell’amicizia e della solidarieta’; non
e’ certo il compito piu’ facile e cio’ ci obbliga ancor piu’ a non
sottrarcene. Del resto, e’ troppo facile dimostrare una solidarieta’ formale
con la violenza dei poveri e giustificarla se non prendiamo su di noi i
rischi di questa violenza.
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La violenza della repressione
3) La terza violenza e’ la violenza della repressione, essenzialmente legata
alla violenza d’oppressione per mezzo della quale i ricchi ed i potenti
spezzano i movimenti di liberazione dei poveri.
Ancora una volta, in nome della nonviolenza, dobbiamo dichiararci solidali
con quelli che sono vittime di questa violenza di repressione quando la loro
lotta e’ veramente quella della giustizia.
E’ chiaro che questo schema non puo’ essere puramente e semplicemente
applicato ad ogni situazione concreta; sara’ opportuno, partendo volta per
volta dall’analisi piu’ rigorosa, correggerlo e adattarlo.
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La necessita’ del conflitto
Nella comprensione della violenza bisogna andare piu’ lontano cercando di
situarla al livello in cui sorge, nelle relazioni fra gli uomini.
Il primo rapporto che abbiamo col nostro prossimo e’ il piu’ delle volte un
rapporto di avversione, di opposizione, di scontro. Dobbiamo guardarci da un
certo idealismo, di cui si vorrebbe che la nonviolenza resti prigioniera, da
un idealismo che lascerebbe troppo facilmente intendere che "tutti gli
uomini sono fratelli". In realta’ e’ vero che il mio vicino, il mio
prossimo, prima ancora di essere potenzialmente il mio amico, e’
potenzialmente mio nemico.
Sartre ha trovato una formulazione felice quando scrisse: "il peccato
originale e’ il mio sorgere in un mondo dove c’e’ l’altro". L’altro,
infatti, e’ innanzitutto per me quello la cui liberta’ minaccia la mia
liberta’, quello i cui diritti vengono a usurpare i miei diritti, quello i
cui progetti vengono a compromettere i miei progetti. Dovro’ riconoscere,
accettare questo momento di conflitto con l’altro, questo momento di
opposizione, di lotta, questa prova di forza, al fine di poter far
riconoscere i miei diritti e di farli rispettate.
In altre parole la nonviolenza non presuppone un mondo senza conflitti;
anzi, ha senso parlare di nonviolenza solo in situazioni di conflitto.
Peguy, proprio contro i pacifisti del suo tempo, diceva che "era una follia
voler legare alla dichiarazione dei diritti dell’uomo una dichiarazione di
pace perche’ ogni dichiarazione dei diritti dell’uomo e’ istantaneamente un
inizio di guerra". Se prendiamo questa parola "guerra" nel suo significato
piu’ ampio, e se intendiamo per essa: un conflitto, una lotta, un
combattimento, una prova di forza, Peguy aveva ragione di andare contro i
pacifisti.
Lo stesso Peguy diceva che era da maleducati volere la vittoria e non aver
voglia di battersi. In effetti, saremmo maleducati se ci contentassimo di
formulare dei voti per un mondo piu’ giusto e non avessimo voglia di
batterci contro l’ingiustizia.
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Nonviolenza e aggressivita’
In questa battaglia, non si tratta di reprimere l’aggressivita’ dell’uomo,
ma di metterla in opera.
La storia e’ cosi’ piena di violenza che siamo talvolta tentati di credere
che quest’ultima sia innata nel cuore umano: parlare di nonviolenza sarebbe
allora andate contro la legge stessa della natura.
Tuttavia se ascoltiamo gli psicologi, questi ci dicono che non e’ la
violenza che e’ inscritta nella natura umana, ma piu’ precisamente
l’aggressivita’, e che non e’ fatale che l’aggressivita’ si manifesti con la
violenza.
L’aggressivita’ e’ una capacita’ di combattere, una capacita’ di affermare
se stessi per mezzo della quale io sono portato a rivendicare i miei diritti
di fronte all’altro. Senza aggressivita’ io non potrei ne’ costruire la mia
personalita’, ne’ salvaguardarla. Senza aggressivita’ non ci potrebbe essere
ne’ rispetto per se stessi, ne’ amore per gli altri.
Questa aggressivita’ bisogna invece disciplinarla, controllarla in modo che
si manifesti attraverso altri mezzi, piu’ costruttivi della violenza.
Come disse il padre Cottier, con un’espressione che mi sembra molto
suggestiva, la nonviolenza non attecchisce nella speranza di vivere un
giorno in "un paradiso devitalizzato dove anziane zitelle tengono al
guinzaglio leoni erbivori". Cio’ sarebbe molto noioso e, per fortuna, e’ del
tutto inconcepibile.
Bisogna, dunque, accettare questa realta’ del conflitto, anzi, in un primo
momento, la strategia della nonviolenza si sforzera’ di create il conflitto
e di risvegliare l’aggressivita’.
Abusiamo spesso di parole come rivolta, rivoluzione e violenza. In realta’,
se consideriamo bene la storia dell’uomo - sia nella nostra vita quotidiana
che nella storia dei popoli - ci accorgiamo che il piu’ delle volte, di
fronte all’ingiustizia, la sua capacita’ di rassegnazione e’ superiore alla
sua capacita’ di rivolta. Quando lo schiavo e’ sottomesso al suo padrone,
non esiste conflitto; al contrario, e’ proprio allora che "l’ordine e’
stabilito" e che niente sembra venire a metterlo in causa. Il conflitto
incomincia ad esistere dal momento in cui lo schiavo prende coscienza dei
suoi diritti e si erge per rivendicarli.
Prendiamo l’esempio di Martin Luther King: per cio’ che riguarda il popolo
nero degli Stati Uniti, il suo primo e piu’ grande lavoro e’ stato quello di
risvegliare l’aggressivita’ dei neri che si erano rassegnati al loro destino
di schiavi. Gli stessi leaders neri che in seguito hanno preconizzato la
violenza gli hanno riconosciuto questo merito.
La spiritualita’ degli spirituals neri e’ una spiritualita’ di evasione per
mezzo della quale i neri riponevano nell’Aldila’ la loro speranza in un
mondo libero da ingiustizie. Aspettavano il regno di Dio in cui Gesu’ li
avrebbe accolti riconoscendo la loro dignita’ di uomini. C’era in quel caso
come una rassegnazione di quel popolo davanti alla propria storia. Martin
Luther King risveglio’, dunque, l’aggressivita’ di questo popolo e creo’ il
conflitto tra i bianchi e i neri - e, come sempre in casi analoghi, ci sono
stati naturalmente rischi di scontri violenti.
La rassegnazione, la passivita’ sono dunque piu’ contrarie alla nonviolenza
della violenza stessa. Gandhi ha sempre affermato che se la scelta fosse
unicamente tra vilta’ e violenza, tra passivita’ e violenza, allora
bisognerebbe scegliere la violenza.
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L’importanza dei mezzi
Se, dunque, riconosciamo la necessita’ della lotta, la necessita’ dello
scontro, allora, e’ il problema dei mezzi che si pone.
Questo problema dei mezzi e’ stato troppo trascurato a solo vantaggio della
ricerca dei fini. E’ per questa ragione che molto sbrigativamente si arriva
a dire, specialmente nel campo politico, che il fine giustifica i mezzi,
vale a dire che il fine giustifica qualsiasi mezzo. Si scivola subito dalla
giustificazione del fine alla giustificazione dei mezzi. Ora, questo non e’
soltanto un problema morale, e’ anche un problema di efficacia.
Una delle caratteristiche della nonviolenza e’ precisamente di affermare
che, se la scelta dei mezzi vien dopo (e’ seconda) rispetto al fine da
conseguire, non e’ tuttavia secondaria, e’ anzi essenziale alla effettiva
realizzazione di quel fine. Gandhi diceva: "il fine e’ nei mezzi come
l’albero nel seme". Il compito della nonviolenza sara’ giustamente quello di
ricercare dei mezzi omogenei al fine che si persegue. Non e’ un semplice
principio teorico: si puo’ benissimo, a livello di critica degli
avvenimenti, constatare che l’impiego di mezzi violenti rischia di produrre
altre situazioni di violenza, altre situazioni di sfruttamento, anche se
assumono forme diverse.
Proviamo ora a mettere in luce il significato della nonviolenza ponendoci
successivamente a tre livelli diversi:
il livello personale;
il livello delle relazioni interpersonali;
il livello delle relazioni sociali e politiche.
Non si tratta di separare l’uno dall’altro questi tre livelli; e’
precisamente una caratteristica della nonviolenza non considerarli staccati,
mentre le diverse morali hanno sempre avuto la tendenza a separare, ad
esempio, cio’ che era della vita privata e cio’ che era della vita pubblica;
cio’ che la morale richiedeva nel campo della vita personale, non lo
richiedeva piu’ nel campo della vita sociale e politica.
Passero’ molto rapidamente a considerare i primi due punti per arrivare al
piu’ presto al problema delle relazioni sociali e politiche che costituisce
forse il piu’ grosso problema e al quale siamo piu’ sensibili.
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Un dinamismo della speranza
Sul piano personale, la nonviolenza puo’ definirsi come la ricerca di una
corrispondenza perfetta tra i nostri pensieri, i nostri sentimenti e le
nostre azioni; come la ricerca di una saggezza di vita, come la ricerca del
controllo di quella aggressivita’ di cui parlavamo prima.
Sarebbe interessante sviluppare il significato della nonviolenza in quanto
rivendicazione di un senso da dare alla vita in un mondo reso assurdo
dall’ingiustizia e dalla violenza. E’ la dimensione filosofica e anche
(credo che non si debba aver paura delle parole) la dimensione metafisica
della nonviolenza.
La violenza e’ il segno di una certa assurdita’ del destino umano. La
filosofia comincia con la presa di coscienza della violenza come ostacolo
alla riconciliazione dell’uomo con se stesso e con l’altro. Potremo
riprendere per esempio tutte le affermazioni di Camus che vanno in tal
senso.
Se la violenza e’ fatale, se l’uomo deve necessariamente farsi complice
della violenza, allora la speranza non e’ possibile.
In questo senso la nonviolenza ci permette di affermare che la speranza e’
possibile. Essa ci colloca in un dinamismo della speranza che ci libera
dalla fatalita’ della violenza. Cio’ non e’ legato, infine, ad alcuna
filosofia particolare, ma ad ogni filosofare. Non ci puo’ essere altra
filosofia che quella della nonviolenza.
Ogni filosofia, e cosi’ pure ogni morale, non puo’ non riconoscere la
violenza come una contraddizione, per cui non e’ piu’ possibile avanzare
alcuna giustificazione della violenza. La violenza e’ giustificata nella
misura in cui noi non abbiamo piu’ il sentimento che essa e’ una
contraddizione in rapporto alle aspirazioni profonde dell’uomo, allorquando
ci stabiliamo nella violenza. Il fallimento delle ideologie consiste nel
fatto che esse hanno creduto di dovere, sotto un falso pretesto di realismo,
venire a giustificare la violenza e integrarla nell’ideale umano.
I grandi maestri della nonviolenza, che si tratti di Tolstoi, di Gandhi, di
Martin Luther King, e anche piu’ vicino a noi, di Cesar Chavez, hanno
legato, nel loro cammino personale, la scelta della nonviolenza ad una fede
religiosa. Ma non e’ necessariamente cosi’; degli uomini come Danilo Dolci
hanno provato che la nonviolenza poteva trovare la sua radice in una visione
dell’uomo che non era religiosa, ma che afferma ugualmente questa speranza:
di fronte all’esistenza quotidiana e di fronte alla storia, e’ possibile
superare questa fatalita’ della violenza.
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Chiamare crimine un crimine
Detto questo, e’ logico che ci troveremo sempre nel compromesso con la
violenza; non si tratta di pretendere una "nonviolenza assoluta". Gandhi ha
insistito su questo punto: "fino a che non saremo degli spiriti puri la
nonviolenza perfetta sara’ altrettanto teorica quando la linea retta di
Euclide".
Ma le filosofie e le morali devono sempre chiamare compromesso un
compromesso. Ricoeur dice: "Colui che chiama crimine un crimine, e’ gia’
sulla via del senso e della salvezza". Le violenze delle quali abbiamo
coscienza di essere complici esigono non una giustificazione ma una
riparazione. Se la violenza e’ un diritto per l’uomo, questo si adatta, si
adegua all’uso della violenza e non ci sara’ piu’ nessuna ricerca per
superare questo atteggiamento; l’immaginazione, la creazione sono esse
stesse bloccate e non possono piu’ proporre altre vie. Ora e’ essenziale,
qualunque sia il riferimento culturale in rapporto al quale ci situiamo, di
ritrovare il senso della contraddizione di ogni violenza.
La nonviolenza appare qui come una dimensione essenziale della rivoluzione
culturale che deve essere realizzata perche’ possa compiersi, senza tradire
se stessa, la rivoluzione delle strutture.
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Le relazioni interpersonali
Sul piano delle relazioni interpersonali, diro’ semplicemente due parole,
perche’ qui ci siamo spesso trovati nella stessa situazione del signor
Jourdain che faceva della prosa senza saperlo; abbiamo soddisfatto le
esigenze della nonviolenza senza saperlo.
Nel campo delle relazioni interpersonali, le morali e le filosofie hanno
sempre insistito sulla ricerca del dialogo piuttosto che sulla
giustificazione della violenza, su questa necessita’ che c’e’ da fare
richiamo alla ragione per convincere, alla coscienza per convertire.
A questo livello si e’ sempre privilegiato il perdono rispetto alla
vendetta. Il perdono e’ certamente un atteggiamento piu’ virile della
vendetta. E si potrebbe parlare, in questa prospettiva, del sacrificio,
dell’accettazione, senza compiacimento, della sofferenza come condizione di
un amore autentico del prossimo. Al di fuori di tutte le deviazioni nel
senso del masochismo, c’e’ posto, in ogni lotta nonviolenta, per
l’accettazione dei piu’ grandi rischi e delle piu’ grandi sofferenze.
D’altronde, tutte le societa’ hanno saputo darsi dei tribunali capaci di
condannare come criminali - con (notiamolo) un raddoppiamento della
violenza - quelli che hanno fatto uso della violenza sul piano delle
relazioni interpersonali.
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La specificita’ del politico
Arrivo subito al problema delle relazioni sociali e politiche.
Queste non devono, come un certo spiritualismo ha preteso, essere poste nel
quadro allargato delle relazioni interpersonali, perche’ a questo livello le
relazioni umane sono notevolmente condizionate - io non direi determinate,
come certuni forse penseranno - dalle strutture della societa’. La
nonviolenza non intende porre soltanto dei problemi che troverebbero la loro
origine e la loro soluzione in un rapporto fra persona e persona, ma dei
problemi sociali e politici che non possono porsi e risolversi che in
termini di strutture. Cosi’ c’e’ sicuramente una consistenza propria del
politico, tuttavia non penso che ci sia un’autonomia del politico. Certo,
nel campo politico, non e’ sufficiente attenersi alle esigenze morali. Le
buone intenzioni non bastano a far della buona politica. La legge
dell’azione deve sottostare alle esigenze della efficacia. Non basta, come
diceva Bernanos, "aver ragione contro l’errore, bisogna averne ragione".
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Morale e politica
E’ vero che il politico deve basarsi su un’analisi razionale e obiettiva
delle situazioni e deve ricorrere ai mezzi tecnici che gli permetteranno di
far riuscire i suoi progetti. Ma e’ anche vero che il politico, essendo al
servizio dell’uomo e avendo per preciso fine quello di creare le migliori
condizioni possibili all’uomo per condurre la sua esistenza, non puo’
sottrarsi alle esigenze della morale. Se il politico e’ veramente al
servizio dell’uomo e se la morale e’ cio’ che stabilisce il rispetto di
tutto l’uomo e di tutti gli uomini, allora appartiene effettivamente alla
morale giudicare ed apprezzare il politico, sia nei fini che persegue che
nei mezzi che adopera.
Cosi’ non possiamo restare prigionieri dell’alternativa secondo la quale non
avremmo scelta che tra mezzi morali ma inefficaci e mezzi efficaci ma
immorali: non e’ possibile basare l’efficacia dell’azione dell’uomo al di
fuori della moralita’.
Quali sono, in effetti, i criteri dell’efficacia?
L’efficacia: per fare che cosa?
L’efficacia: per quale societa’?
Eí qui che la moralita’ di un’azione politica appare come uno dei criteri
essenziali della sua efficacia. Si puo’ dire che una azione non e’ efficace,
nella misura stessa in cui viene a contraddire le esigenze della morale.
Siamo allora costretti, per amore o per forza, a ricercare dei mezzi
efficaci che possano soddisfare le esigenze della morale.
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Una dimostrazione di forza
Qui e’ necessario che noi parliamo in termini di strategia. Bisogna mettere
l’accento non tanto sulle disposizioni soggettive delle persone, sui buoni o
cattivi sentimenti, sulle buone o cattive intenzioni delle persone, ma sulle
obiettive situazioni in cui esse si trovano nella societa’, sulle situazioni
di potenza o d’impotenza. L’azione nonviolenta e’ una prova di forza.
Riferendosi a formule utilizzate da Gandhi, la nonviolenza e’ stata spesso
definita come la forza dell’amore e della verita’. In effetti al di fuori
dell’amore e della verita’ non c’e’ speranza possibile per una societa’ piu’
giusta e piu’ libera. Ma noi non possiamo accontentarci di definire la
nonviolenza come forza dell’amore e della verita’, perche’ nei conflitti
politici potremmo chiederci a lungo cosa significhi la forza dell’amore e
della verita’. Bisogna guardarsi dal nascondersi dietro certe formule che
vogliono dire tutto e niente allo stesso tempo.
Infatti, un’azione nonviolenta non e’ una dimostrazione d’amore. Essa e’
molto piu’ precisamente una dimostrazione di forza. La nonviolenza, non e’
l’amore, ma piuttosto la ricerca di tecniche e di metodi di lotta
compatibili con l’amore, compatibili con il rispetto della verita’. Ci
sembra che qui gia’ gli accenti sono posti diversamente. Si tratta di
situarsi in una visione dell’uomo che non e’ moralistica, anche se e’
morale. Si tratta di porsi in una visione politica.
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Il principio di non-cooperazione
Qual’e’ la strategia dell’azione nonviolenta?
Il principio essenziale di questa strategia e’ il principio di
non-cooperazione; io lo chiamerei meglio: principio di non-collaborazione.
Esso si fonda sulla seguente analisi: la forza dell’ingiustizia nella
societa’ deriva dalla complicita’ che la maggioranza dei membri di questa
societa’ apporta a questa ingiustizia.
Il nostro dibattito sulla violenza e la nonviolenza sarebbe falsato se
presupponessimo che di fronte alla ingiustizia, la nostra prima tentazione
e’ sempre la tentazione della violenza. Ancora una volta, noi ci
accontenteremmo di parole. Infatti, di fronte alla ingiustizia siamo
pochissimo tentati dall’uso della violenza perche’, il piu’ delle volte, la
violenza ci pare troppo rischiosa. Del resto la nonviolenza non intende fare
nessun processo alle intenzioni di quelli che ricorrono alla violenza
perche’ spesso essi si assumono i piu’ grossi rischi; e noi dobbiamo, al
contrario, rispettarli. Ma sara’ sempre una piccola minoranza che fara’
ricorso alla violenza di fronte all’ingiustizia. Il piu’ delle volte, siamo
tentati di cooperare con questa ingiustizia, di collaborare con essa. Cio’
si capisce facilmente nella misura in cui questo atteggiamento di
complicita’ salvaguarda i nostri interessi, la nostra tranquillita’, il
nostro comodo.
Il vero dibattito, percio’, non e’ tanto, come invece si fa con un certo
compiacimento, di opporre la resistenza violenta di una piccola minoranza a
cio’ che potrebbe essere la resistenza nonviolenta, ma piuttosto di opporre
alla passivita’, complicita’, collaborazione della maggioranza cio’ che
potrebbe essere la resistenza nonviolenta. A questo punto il dibattito si
presenta gia’ in prospettive diverse.
Si tratta, dunque, di mettere in opera questa non-cooperazione, cercando di
far beneficiare dell’apporto del numero le azioni condotte.
Se soltanto alcuni si dispongono a non cooperare con l’ingiustizia, benche’
il loro atteggiamento sia del tutto giustificato e s’imponga ad essi in ogni
caso, l’azione intrapresa non puo’ avere la pretesa d’incidere sul piano
politico. Quelli che hanno rifiutato di fare le guerre di Hitler (penso ai
tedeschi e agli austriaci che sono stati le prime vittime del nazismo),
quelli, proprio perche’ erano un piccolo numero, non hanno potuto cambiare
il corso degli eventi. Tuttavia saremmo tutti unanimi nel riconoscere che
solo il loro atteggiamento era giustificato sia sul piano morale che su
quello politico.
Quando si organizzano queste azioni di non-cooperazione, bisogna mirare ad
esaurire le sorgenti del potere dell’avversario. Si tratta di rifiutare ogni
cooperazione con le istituzioni, le strutture, le leggi, i sistemi, i regimi
che creano o che mantengono l’ingiustizia, al fine di metterli "in
condizione di non nuocere".
Diviene chiaro qui che l’azione nonviolenta non e’ soltanto una azione di
persuasione, ma anche una azione di costrizione.
Allora come arrivare a precisare meglio questa strategia nonviolenta?
Innanzitutto a partire dall’analisi.
Io insisto su questa necessita’ dell’analisi, ma non faro’ ulteriori
precisazioni perche’ non e’ il mio proposito. E’ chiaro che non si tratta di
applicare delle esigenze morali a una realta’ che non conosciamo. Si tratta
invece di analizzare questa situazione. E qui, la nonviolenza non ci apporta
una competenza particolare; la divergenza, a livello di analisi, non e’
certamente tra quelli che si richiamano alla nonviolenza e quelli che si
richiamano alla violenza.
A partire dall’analisi di ciascuna situazione concreta, converra’ condurre
una prova di forza per stabilire un rapporto in favore di quelli che sono
vittime dell’ingiustizia.
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Le azioni di protesta
Il primo passo sara’ quello di realizzare delle azioni di protesta pubblica
contro l’ingiustizia: sfilate, marce, sit-in, etc. E’ d’altronde a queste
azioni che noi siamo piu’ spesso, se non quotidianamente, chiamati. Io
preciserei semplicemente due punti.
Innanzitutto a proposito della spiegazione che si da’ della manifestazione:
il piu’ delle volte, sia attraverso volantini che slogans, si arriva troppo
facilmente alla condanna sistematica, e percio’ spesso semplicistica,
dell’avversario; ci si compiace di maneggiare l’invettiva e l’ingiuria. E’,
molto spesso, sia una ingiustizia che un errore strategico. Perche’,
infatti, quelli che manifestano devono manifestare per farsi capire da
quelli che non manifestano. Ogni movimento di resistenza deve sforzarsi di
avere le migliori "relazioni pubbliche" con la maggioranza dei membri di
questa societa’. Nel campo delle relazioni pubbliche, se e’ un obbligo
attenersi alle esigenze della morale, e’ una necessita’ soddisfare le
esigenze della psicologia. E’ certamente inopportuno maneggiare l’ingiuria
per voler convincere della giustezza di una causa; questo comporta il
rischio ben piu’ grande di indisporre il pubblico e di discreditare la
manifestazione.
Cosi’ un’esigenza della nonviolenza sara’ la "pacificazione della parola".
E’ solo per un pregiudizio che noi pensiamo di transigere sui fini di
giustizia che ci siamo dati, se siamo educati con l’avversario. Questo
atteggiamento di cortesia nei riguardi dell’avversario, che si manifesta con
la parola, attraverso il testo di un volantino o il contenuto di uno slogan,
viene a stabilire un’atmosfera gia’ diversa nel conflitto intrapreso.
Converra’ cosi’, per esprimersi, ricorrere quanto piu’ e’ possibile allo
humour. Lo humour e’ certamente la migliore protezione contro l’odio. Lo
humour ci dispensa dal disprezzare il nostro avversario. Se noi facessimo
piu’ umorismo faremmo meno spesso la guerra.
Un altro punto al quale siamo molto sensibili e’ l’atteggiamento dei
manifestanti davanti alle forze di polizia. E’ vero che un certo razzismo si
e’ sviluppato, da molti anni a questa parte, nei confronti dei poliziotti.
Ancora una volta, dobbiamo chiederci se questo non sia insieme
un’ingiustizia e un errore strategico. Qui l’esigenza della nonviolenza
sara’ anche di attenersi ad un atteggiamento di stretta cortesia nei
confronti dei membri del servizio d’ordine. Cio’ dovrebbe permettere un
clima piu’ propizio a reali soluzioni, piuttosto che arrivare a voler
sistematicamente "lanciare la pietra" sui poliziotti, talvolta nel vero
senso della parola, talvolta nel senso figurato.
*
Lo sciopero della fame
Lo sciopero detta fame e’ una delle azioni di protesta piu’ specifiche della
nonviolenza. Ha raggiunto un notevole sviluppo in questi ultimi tempi ed e’
stato utilizzato da quelle stesse persone che generalmente intendono usare
mezzi violenti, o per lo meno, non intendono escluderli. Si corre forse il
rischio di abusare di questo mezzo; si tratta, quindi, di non condurre
scioperi della fame a sproposito. D’altronde, uno sciopero della fame non e’
sempre nonviolento: se i volantini che lo accompagnano usano ad ogni riga
l’ingiuria, dobbiamo mettere in discussione il suo carattere nonviolento.
Dobbiamo sottolineare ancora che lo sciopero della fame non e’ nonviolento
se diventa un ricatto nel confronti dell’avversario. C’e’ ricatto quando si
lascia capire, piu’ o meno esplicitamente, che quelli che sono entrati in
sciopero - prenderei, in particolare, l’esempio di uno sciopero illimitato -
fanno cadere la responsabilita’ della loro morte, se morte ci sara’ - e non
si potrebbe escludere a priori - sull’avversario. E’ un ricatto
inammissibile. L’avversario porta su di se’ la responsabilita’
dell’ingiustizia per la quale conduco le sciopero della fame, ma se conduco
uno sciopero della fame, devo prendere fino in fondo le mie responsabilita’
e non far cadere su altri la responsabilita’ dei rischi cui vado incontro.
*
Le azioni di costrizione
Ma la nonviolenza non puo’ limitarsi alle azioni di protesta.
Dopo aver esaurito le possibilita’ del dialogo, le possibilita’ del
negoziato, bisogna passare all’azione diretta. Perche’, ancora una volta,
contrariamente a quello che si lascia troppo spesso capire, la nonviolenza
non si limita alla pratica del dialogo. Il piu’ delle volte, il dialogo non
e’ possibile tra gli oppressori e gli oppressi. Il dialogo non e’ possibile
tra quelli che sono troppo potenti e quelli che sono troppo poveri. Quando
ci sono scontri di piazza, delle anime "candide" ci richiamano subito al
negoziato, al dialogo, e invitano le due parti che si scontrano al tavolo
delle trattative. Generalmente questi appelli alla ragione sono vani.
Bisogna dunque rovesciare i termini e non dire che il negoziato e’ il mezzo
per risolvere il conflitto, ma che il conflitto e’ un mezzo per risolvere il
negoziato. E’ proprio perche’ il negoziato non e’ possibile che il conflitto
e’ necessario per rendere possibile il negoziato e per creare le condizioni
in cui il dialogo e il negoziato saranno possibili.
Quando M. L. King condusse la sua prima azione di una certa ampiezza, il
boicottaggio degli autobus a Montgomery, aveva solo 26 anni (credo che non
si sia sufficientemente sottolineato il fatto che M. L. King era gia’ leader
nazionale dei neri ad un’eta’ in cui non gli era possibile assumersi tutte
le responsabilita’ che lo schiacciavano) e, nella sua ingenuita’ - lo dice
molto semplicemente nei suoi scritti autobiografici - si immaginava che dopo
un po’ di giorni sarebbe stato possibile iniziare il dialogo e condurre a
buon fine i negoziati con il potere bianco. Ha dovuto ricredersi e
accorgersi che il dialogo non era possibile. C’e’ voluto piu’ di un anno di
questo boicottaggio degli autobus, condotto in condizioni estremamente
difficili per rendere possibile il dialogo.
Si fa ricorso alle azioni dirette per esercitare sull’altro reali
costrizioni sociali, per poter negoziare al fine di soddisfare le
rivendicazioni degli oppressi.
Quali sono i mezzi?
*
Lo sciopero
Lo sciopero, nel senso in cui l’intendiamo generalmente, e’ un metodo che si
apparente direttamente all’azione nonviolenta: e’ una azione di
non-cooperazione, di non-collaborazione con le strutture ingiuste. L’analisi
sulla quale si fonda lo sciopero e’ questa: se i borghesi, vale a dire i
proprietari dei mezzi di produzione, non possono mantenere il loro potere e
la loro ricchezza che grazie alla collaborazione dei lavoratori, si tratta
per questi di cessare ogni attivita’ per obbligarli a cedere.
Sarebbe sicuramente derisorio, e cio’ e’ al di fuori del nostro proposito,
pretendere di recuperare gli scioperi operai nel grembo della nonviolenza.
Spesso gli scioperi sono stati condotti in un clima di violenza, anche se
queste violenze sono state marginali in rapporto allo sciopero propriamente
detto. Ci si puo’ d’altronde chiedere se queste violenze non siano venute
piuttosto a screditare lo sciopero che a rafforzarlo. Parecchi esempi (come
lo sciopero di Perus in Brasile) ci mostrano che uno sciopero puo’ essere
condotto con piu’ efficacia in una prospettiva nonviolenta.
*
Il boicottaggio
Il boicottaggio e’ ugualmente un metodo di non-cooperazione sul piano
economico: rifiuto di far beneficiare l’altro del mio potere d’acquisto che
diventa allora veramente un potere che io oppongo a quello del mio
avversario. C’e’ soltanto da constatare che questa forma di lotta e’ stata
pochissimo utilizzata se non in maniera troppo spontanea ed effimera;
potrebbe certamente essere utilizzata meglio, in particolare nell’ambito
delle lotte operaie.
Per togliere la segregazione nei grandi magazzini bianchi degli Stati Uniti,
che avevano una fortissima clientela nera e nonostante cio’ si rifiutavano
di assumere personale nero - creando per conseguenza situazioni di
sottoimpiego e dunque di miseria -, Martin Luther King e il suo gruppo
decisero il boicottaggio di questi magazzini fino a che un numero
sufficiente di posti di lavoro non fossero stati creati per i neri. Da quel
giorno piu’ nessun nero ando’ a rifornirsi in quei magazzini. Molto
rapidamente, dopo una settimana o due, i proprietari di quei magazzini
decisero di soddisfare le richieste di M. L. King.
E’ interessante chiedersi quali abbiano potuto essere le ragioni che hanno
indotto i proprietari di quei magazzini a cedere alle rivendicazioni di
Martin Luther King. Si erano forse convinti dei giusti diritti dei neri? Si
erano forse convertiti? Forse. Noi avremmo torto ad escludere del tutto
questa eventualita’. Tuttavia la piu’ verosimile e’ che la minaccia del
fallimento, che incombeva su quei magazzini, li ha costretti e cedere: cio’
traduce perfettamente la nozione di costrizione e tuttavia di una
costrizione senza violenze.
*
La lotta di classe
Esaminero’ un altro esempio concreto, recente, che illustra in maniera
notevolissima la possibilita’ di condurre con la nonviolenza uno sciopero e
un boicottaggio nel quadro della lotta di classe.
Si dice spesso che la nonviolenza puo’ forse soddisfare le esigenze
spirituali o intellettuali dei ricchi e dei benestanti, ma che non puo’
assolutamente armare la lotta degli oppressi. Credo che tutto cio’ sia
fondato, soprattutto, su malintesi.
Gli ambienti spiritualisti, o notoriamente gli ambienti cristiani, hanno per
molto tempo rifiutato di riconoscere non soltanto la lotta di classe, ma la
realta’ stessa della lotta di classe. Si diceva che il cristianesimo non
insegnava la lotta di classe, ma l’amore delle classi, come se fosse
possibile l’amore in situazioni di ingiustizia. E’ una presa in giro
predicare l’amore quando da una parte esistono poveri che restano poveri e
dall’altra parte ricchi che intendono restare ricchi. Logicamente, cio’ non
vuol nemmeno dire che il fatto di riconoscere la lotta di classe e
parteciparvi debba necessariamente sfociare in scontri violenti. Ma c’e’ una
certa nonviolenza che non merita nemmeno di essere presa in considerazione:
quando i poveri sono pronti a scendere in piazza per far riconoscere i loro
diritti, forse da quel momento i ricchi saranno tentati di parlare di
nonviolenza. In questo senso vi e’ un rischio di recupero della nonviolenza
da parte delle classi privilegiate. Cio’ spiega quella diffidenza, cosi’
caratteristica di quelli che sono impegnati nella lotta per la giustizia,
nei confronti della nonviolenza: hanno paura che essa generi una certa
smobilitazione. Ma, al di la’ degli equivoci, deve essere invece chiaro che
non soltanto la nonviolenza non e’ smobilitazione, ma che e’ un appello alla
mobilitazione, un appello alla lotta.
*
L’azione di Cesar Chavez
L’azione di Cesar Chavez condotta in California, purtroppo poco conosciuta
da noi, e’ un esempio di come anche quelli che sono i meno preparati hanno
la possibilita’ di mettere in opera i metodi nonviolenti, a condizione che i
responsabili dell’azione, i leaders del movimento, diano ordini precisi in
questo senso.
Cesar Chavez non e’ venuto in mezzo ai poveri, e’ nato in mezzo a loro; e’
nato in mezzo a quegli americani di origine messicana gli "chicanos", che
costituiscono la mano d’opera preferita dai grandi proprietari agricoli
degli Stati Uniti. Se i sindacati operai sono completamente integrati nello
"establishment" della societa’ americana, non e’ la stessa cosa nel campo
agricolo.
Tradizionalmente, i proprietari di vigneti californiani, che sono veri e
propri imperi industriali, utilizzavano una popolazione di origine
messicana, che costituiva un tipo di sottoproletariato, al tempo stesso
disorganizzato e supersfruttato. Tutti gli sforzi che erano stati compiuti
fino allora per giungere all’organizzazione di questa popolazione erano
falliti. Tanto erano potenti i proprietari di questi vigneti.
Cesar Cbavez ha fatto prima di tutto, per parecchi anni, un lavoro di
"coscientizzazione" e di organizzazione.
Indisse, poi, uno sciopero con certe esigenze precise riguardo alla
nonviolenza, che si estese molto rapidamente. I proprietari, aiutati dalle
autorita’ federali, cioe’ governative, poterono comunque reclutare
altrettanto rapidamente altri lavoratori messicani che non chiedevano altro
che guadagnare un po’ di denaro per sopravvivere. C’erano dunque dei
"crumiri" che hanno permesso il raccolto dell’uva, sebbene ci fossero stati
picchetti di sciopero che, ancora una volta, non intendevano fare uso della
violenza ma tentavano di mostrare il senso dello sciopero e che era
nell’interesse di tutti parteciparvi.
A questo punto, davanti al rischio di veder fallire lo sciopero, Cesar
Chavez decise di affiancare allo sciopero il bolcottaggio. Proclamo’ cosi’
il boicottaggio dell’uva, dapprima nelle grandi citta’ degli Stati Uniti.
Gli scioperanti organizzarono picchetti di boicottaggio in cui cercavano di
spiegare le ragioni del loro movimento e i suoi obiettivi. Questo
boicottaggio si dimostro’, molto presto, di un’efficacia sorprendente.
Cbavez ottenne subito il concorso dei militanti del movimento di M. L. King,
e in particolare degli studenti impegnati in quel movimento. In breve tempo,
il boicottaggio dell’uva divenne effettivo su tutto il mercato nazionale.
Allora, come in tutte le azioni nonviolente d’un qualche rilievo, la
repressione si abbatte’ su questo movimento: gli scioperanti ebbero a subire
violenze fisiche; ci furono processi promossi dai proprietari, il presidente
Nixon prese posizione contro gli scioperanti e arrivo’ al punto di prendersi
beffa di loro mangiando un grappolo d’uva davanti alle telecamere. Per
vendere il loro prodotto i proprietari decisero di esportare l’uva: interi
mercantili furono spediti a Londra; ma i dockers di Londra, per solidarieta’
col movimento di Cesar Chavez, si rifiutarono di scaricare l’uva. Ultimo
tentativo fu quello di spedire l’uva ai soldati americani nel Vietnam che
dovettero mangiare uva dalla mattina alla sera. Ma cio’ non e’ stato
sufficiente. Dopo uno sciopero e un boicottaggio durati cinque anni, i
proprietari furono costretti a cedere alle rivendicazioni di Cesar Chavez.
Oggi, questi e’ diventato il leader di tutti gli operai agricoli americani;
i sindacati riprendono sempre di piu’ questi metodi nonviolenti e tentano di
accoppiare lo sciopero col boicottaggio.
Per mostrare come per Cesar Chavez la nonviolenza non fosse un aspetto
secondario della sua lotta, conviene precisare il suo atteggiamento di
fronte ai rischi di violenza che ha dovuto fronteggiate.
Se l’azione nonviolenta consiste in un primo tempo nel risvegliare
l’aggressivita’ dei poveri, nel creare il conflitto, e’ dunque inevitabile
che ci siano rischi di violenze. Se si risveglio la coscienza degli oppressi
e se questi prendono coscienza del loro stato di oppressione, non ci sara’
da stupirsi se da un momento all’altro, esasperati, ricorrono alla violenza.
Ma a questo punto, Cesar Chavez, al fine di evitare la crescita della
violenza, intraprese un digiuno sia per motivi personali che per ragioni
tattiche (sapeva bene che se scoppiava la violenza, i proprietari avrebbero
potuto benissimo scatenare una repressione brutale). Digiuno’ per
venticinque giorni, non perche’ i proprietari cedessero alle sue esigenze,
ma perche’ gli operai stessi accettassero di attenersi ai principi
dell’azione nonviolenta. Dopo quei 25 giorni di digiuno, essi giunsero ad un
accordo, cio’ che ha certamente reso possibile al movimento di durare e
infine di riuscire.
*
Il boicottaggio del caffe’ dell’Angola
Ricordiamo anche il boicottaggio del caffe’ dell’Angola organizzato nei
Paesi Bassi agli inizi del 1972.
Una delle fonti piu’ importanti per il finanziamento della guerra coloniale
condotta dal Portogallo proveniva dalle imposte che pesavano
sull’esportazione dei prodotti agricoli delle colonie.
Ora, da una parte, il caffe’ dell’Angola rappresentava una parte importante
dell’esportazione totale (32%) e, dall’altra parte, i Paesi Bassi erano il
secondo paese importatore di questo caffe’ (21% del totale).
Nel febbraio 1972 un comitato d’azione per l’Angola lancia il boicottaggio
del caffe’ organizzando una campagna d’informazione sulla situazione nelle
colonie portoghesi e mostrando come il fatto di consumare del caffe’
angolano e’ un atto di collaborazione con la politica condotta dal
Portogallo. Questa azione ebbe una larga eco tra la popolazione olandese e
il boicottaggio riscontro’ rapidamente un grande successo. Alla fine di un
mese, nemmeno un grano di caffe’ dell’Angola era piu’ in vendita sul mercato
dei Paesi Bassi.
Il Portogallo aveva perduto una battaglia e l’opinione pubblica olandese era
mobilitata per altre battaglie.
*
La disobbedienza civile
La piu’ forte azione di non-collaborazione e’ l’azione di disobbedienza
civile.
Si rimprovera spesso alla nonviolenza di promuovere talvolta la
disobbedienza alle leggi.
Se da sinistra siamo accusati di disinnescare la rivoluzione e di
smobilitare le energie e le volonta’ necessarie nella lotta per la
giustizia, cosi’ da destra siamo accusati di rimettere in discussione la
legalita’ e l’ordine stabilito e di preparare la strada ad una rivoluzione
che non sarebbe affatto nonviolenta.
E’ vero che la nonviolenza preconizza la disobbedienza alle leggi, ma non la
preconizza a sproposito. In ogni societa’ le leggi hanno una loro funzione.
La funzione della legge e’ insieme quella di mantenere l’ordine e di
promuovere la giustizia; essa percio’ deve difendere i diritti dei piu’
poveri contro i privilegi dei piu’ ricchi. C’e’ da dire poi che le leggi non
sono stabilite una volta per tutte: bisogna costantemente rimetterle in
discussione per migliorarle. Quando la legge non adempie piu’ alla sua
funzione, anzi, al contrario, viene a difendere maggiormente gli interessi
dei privilegiati, dei ricchi e dei potenti contro, invece, gli interessi dei
piu’ sfavoriti, quando la legge copre e garantisce l’ingiustizia, non
soltanto e’ un diritto, ma e’ un dovere disobbedire ad essa.
Non si tratta evidentemente di predicare la disobbedienza alla legge in
maniera sistematica; si tratta semplicemente di non predicare
sistematicamente l’obbedienza alla legge.
La legge della maggioranza non puo’ imporsi a noi su dei problemi di
coscienza. E’ ragionevole che noi ci sottomettiamo su problemi di ordine
puramente tecnico alla legge della maggioranza, anche perche’ su tali
problemi le nostre non sono convinzioni ma soltanto opinioni. Su problemi
che impegnano invece realmente la nostra responsabilita’ morale, non ci e’
possibile rimetterci in maniera pura e semplice alla legge della
maggioranza. E’ a questo punto che la nonviolenza preconizza la
disobbedienza civile. Questa possibilita’ di disobbedire alla legge e’
necessaria all’equilibrio stesso della democrazia.
Infatti, non si tratta di cessare di essere solidali: colui che in coscienza
obietta, accetta di essere solidale, ma si rifiuta di essere complice.
Nella dottrina ufficiale degli Stati, ogni cittadino ha veramente la
possibilita’ di esprimersi votando. Se non dobbiamo disprezzare il suffragio
universale (penso a certi amici nostri che sono in lotta nei paesi
totalitari per ottenere il suffragio universale) dobbiamo, pero’,
riconoscerne i limiti. Bernanos diceva che "il suffragio universale non
rende alla fin fine piu’ liberi gli uomini di quanto la lotteria nazionale
non li renda ricchi".
Non conviene operare soltanto perche’ il potere cambi politica o per
provocare un cambiamento di potere, conviene esercitare effettivamente il
proprio potere di cittadino libero rifiutando da questo momento, con un atto
di disobbedienza civile, ogni collaborazione personale con l’ingiustizia.
Gandhi afferma: "la vera democrazia non verra’ dalla presa del potere da
parte di qualcuno, ma dal potere che tutti avranno un giorno di opporsi agli
abusi delle autorita’". Sulla strada che conduce alla vera democrazia, la
presa del potere per il popolo e’ una delle piu’ pericolose deviazioni dove
si finisce molto spesso per perdersi. La nonviolenza ci insegna, percio’, a
evitare questa deviazione: nel suo aspetto rivoluzionario, essa non ha per
proprio fine la presa del potere per il popolo, ma la presa del potere
direttamente da parte del popolo stesso. Non e’ lo Stato forte a costituire
la vera democrazia, ma i cittadini liberi.
Tra l’insufficienza della scheda elettorale e l’inefficacia del lancio di
pietre, la disobbedienza civile appare qui come una via privilegiata per
l’azione politica.
*
La vera figura di Gandhi
Prendero’ un esempio concreto di disobbedienza civile nella lotta condotta
da Gandhi per l’indipendenza dell’India.
Voglio aprire una parentesi sulla figura di Gandhi perche’ nella maggior
parte dei casi mi pare lo si conosca male. Il suo personaggio e’ stato
volgarizzato da qualche immagine di Epinal che ce lo rappresenta seduto per
terra, il dorso nudo, che fila la lana, e ci diciamo allora volentieri che
questo saggio orientale non ha nulla da dirci sui nostri problemi.
Facciamo nostra la sprezzante espressione di Churchill che derideva Gandhi
accusandolo di non essere che un "fachiro magro e nudo". Se riconosciamo che
Gandhi ha potuto acquistare l’indipendenza del suo paese di fronte
all’impero britannico, attribuiamo allora il merito di questo al "fair-play"
dei gentlemen britannici, come se a quell’epoca l’impero britannico fosse
pronto a lasciare le Indie e come se fosse bastata la santita’ attribuita, a
torto o a ragione, a Gandhi perche’ gli Inglesi accettassero di partire.
Credo che sarebbe interessante studiare a fondo quali siano le azioni di
Gandhi e quale fu la sua strategia. E’ utile sottolineare, a questo
proposito, che i membri del Congresso dell’India, primo dei quali Nehru, non
condividevano le convinzioni religiose e morali di Gandhi. Se Nehru accetto’
di seguire Gandhi nella pratica della nonviolenza e’ soltanto perche’ questa
si dimostro’ efficace. E il popolo indiano non era per niente pronto ad
attenersi alle esigenze della nonviolenza di Gandhi, che e’ estranea alla
tradizione religiosa dell’India. Come tutti gli altri popoli, e forse piu’
ancora degli altri, il popolo indiano oscilla tra la rassegnazione e la
violenza. Infatti, la nonviolenza di Gandhi non e’ orientale ma occidentale,
non invita alla meditazione al di fuori dei conflitti ma all’azione
all’interno dei conflitti.
*
La marcia del sale
Nel 1930, Gandhi decise di sfidare il governo (ogni azione di disobbedienza
civile e’ una sfida al governo) organizzando la disobbedienza ad una legge
che nel contesto globale della dominazione britannica appariva irrisoria: si
trattava della legge sul sale. Essa imponeva a tutti gli indiani di pagare
una tassa relativamente alta al governo inglese. Questa minima ingiustizia
veniva a simboleggiare tutta l’ingiustizia della dominazione britannica.
Gandhi organizzo’ una lunga marcia attraverso l’India per diverse centinaia
di chilometri. In ogni villaggio che attraversava, coscientizzava gli
abitanti e li invitava alla disobbedienza civile. Giunto sulla spiaggia del
mare, compi’ il simbolico gesto di raccogliere dell’acqua per poterne
estrarre il sale. Da quel momento preciso, Gandhi per l’impero britannico
era diventato un ribelle. Il governo, a dir la verita’, era molto
imbarazzato perche’, o arrestava Gandhi, facendone cosi’ un martire e
aumentandone di conseguenza il prestigio presso le masse indiane, o non lo
arrestava affatto, dimostrando cosi’ di tollerare la sfida aperta e dando,
in tal modo, prova di debolezza. Il riflesso professionale delle autorita’
ebbe il sopravvento nella risoluzione di questo dilemma: si arresto’ Gandhi
ma si dovettero arrestare pure tutti quelli che lo avevano imitato; perche’
questi, non soltanto accettavano di andare in prigione, ma esigevano di
andarci. Esiste, pero’, un limite di saturazione delle prigioni oltre il
quale un governo non puo’ piu’ governare in completa serenita’. Si puo’
discutere sulla proporzione necessaria di quelli che sono disposti ad andate
in prigione per far si’ che un popolo sia piu’ forte di qualsiasi governo -
Martin Luther King parlava di un 5 per cento.
Alla fine il governo dovette cedere e accettare di negoziare con Gandhi: non
soltanto discussero del problema del sale, ma anche del problema
dell’indipendenza.
*
La violenza e’ l’arma dei ricchi
Vorrei ancora insistere su questo punto che mi pare essenziale: di fronte
alle situazioni d’ingiustizia, arriviamo spesso a pensare e a dire che non
esiste piu’ che una sola soluzione e che questa soluzione e’ la violenza.
Ma dobbiamo chiederci: quale soluzione puo’ essere la violenza? E anche: la
violenza puo’ veramente essere una soluzione?
Prendo un esempio su cui abbiamo molto parlato: quando M. L. King mori’,
ovunque si sostenne che con lui la nonviolenza era finita, che se egli aveva
potuto migliorare di qualcosa la sorte dei neri, spettava ora ai movimenti
violenti di condurre in porto il lavoro che lui aveva incominciato. Pareva
allora che il "Potere Nero", il partito delle "Pantere Nere", i "Musulmani
Neri", fossero in grado, e solamente loro, di liberare i neri. Ci si poteva
chiedere, gia’ da allora, se era ragionevole credere che i neri ponendosi
sul piano della violenza, sarebbero stati in grado di riuscire vincitori e
di stabilire un rapporto di forza in loro favore.
Quando si pensa alla capacita’ di repressione di cui dispone il potere
bianco, era realista per i neri situarsi sul piano della violenza per
intraprendere la prova di forza?
Ora, accadde quello che poteva gia’ essere previsto: i movimenti neri che si
richiamano alla violenza si trovarono nella incapacita’ di mettere in opera
azioni rilevanti all’infuori di qualche colpo di mano che potevano
effettuare. La stampa ne parlo’: il partito delle "Pantere Nere" che e’
stato il piu’ rappresentativo di questo movimento violento e’ attualmente
smantellato, si trova ad essere completamente disorganizzato sotto i colpi
della repressione del potere bianco. Certamente Eldridge Cleaver puo’
moltiplicare, da Algeri dove si trova in esilio, le dichiarazioni
fracassanti contro il potere bianco, ma cio’ non puo’ venire in aiuto ai
neri che sono negli USA; cosi’ pure Stokely Carmichael, che fu uno dei
leaders del "Potere Nero", che milito’ nelle file delle "Pantere Nere" e che
si trova ora in Guinea, di la’ non puo’ proporre ai suoi fratelli degli
Stati Uniti che un impossibile ritorno verso la madre terra Africa.
Cosi’ nel nome stesso del realismo, non cadiamo troppo facilmente nella
affermazione che solo la violenza puo’ essere una soluzione?
Sapete pure che questo argomento e’ stato trattato da dom Helder Camara
quando gli e’ stato chiesto se non sarebbe, almeno in un primo momento,
necessario usare la violenza. "Certo, potremo avere qualche arma, ma il
nostro avversario avra’ sempre un numero maggiore di armi e piu’ perfette
delle nostre; e’ vano voler intraprendere su questo terreno la nostra prova
di forza".
Il Padre Comblin e’ venuto a confermarci nell’aprile ’72 le affermazioni di
dom Helder Camara: "Una piccola parte dell’opposizione e’ entrata nella
clandestinita’, ha creato dei piccoli movimenti di guerriglia, ha lanciato
delle operazioni di terrorismo. Questo ha provocato da parte del potere un
apparato di repressione estremamente potente, che e’ riuscito praticamente
non solo a contenere questa opposizione violenta ma anche a ridurla sempre
piu’. E, in questo momento, il potere alimenta una psicosi d’angoscia che
sta creando un "circolo vizioso del terrore" che coinvolge lo stesso potere:
sentendosi minacciato, esso reagisce in maniera angosciosa, donde dei
controlli sempre raddoppiati, cosa che mantiene nelle masse un sentimento di
paura, la quale provoca a sua volta una piu’ grande angoscia nei
dirigenti... e cosi’ di seguito". ("Informations catholiques
internationales", 15 aprile ’72).
Forse che noi non possiamo arrivare a questa ipotesi di lavoro: la capacita’
di violenza degli oppressori sara’ sempre smisuratamente piu’ grande della
capacita’ di violenza degli oppressi? Abbandonare il piano della giustizia
per porci sul piano della violenza e’, in fondo, un errore strategico:
quando un movimento di resistenza ricorre esso stesso alla violenza, viene
ad offrire all’avversario le ragioni di cui ha bisogno per giustificare la
sua repressione.
Ogni dibattito pubblico che sara’ aperto da atti di violenza non vertera’
sulle motivazioni politiche che hanno ispirato quegli atti, ma sui mezzi,
sui metodi che sono stati utilizzati. L’azione armata attira l’attenzione
dell’opinione pubblica sulla violenza che io commetto, non sull’ingiustizia
che io combatto.
La forza della nonviolenza consiste nel rifiutare di offrire all’avversario
i pretesti che giustifichino la sua repressione. Con questo non voglio dire
che i movimenti nonviolenti non diano luogo a repressione - e’ certo che in
una prova di forza che si prolungasse, ci sarebbe una repressione esercitata
sul movimento nonviolento e la sua forza consistera’ nella misura della
capacita’ che avra’ di resistere a questa repressione - ma questa
repressione restera’ senza vera giustificazione; essa arrivera’ al contrario
a screditare quelli che l’esercitano e ad accreditare, per cio’ stesso, il
movimento.
*
La nonviolenza e’ preferibile
Data l’ignoranza e insieme il disprezzo nei quali e’ stata tenuta fino ad
ora la nonviolenza, non e’ concepibile che essa sia in grado di risolvere
tutti i nostri problemi e subito.
Molti conflitti si sono sviluppati in un crescendo di violenza dall’una e
dall’altra parte; non e’ facile, a partire di la’, tentare di intravvedere
una soluzione nonviolenta.
Ma noi potremmo almeno metterci d’accordo su questa ipotesi di lavoro: se la
nonviolenza e’ possibile, allora essa e’ preferibile.
Ad un algerino che durante e dopo la rivoluzione algerina aveva ricoperto
cariche di grossissima responsabilita’ nel governo rivoluzionario, chiedevo
se credesse che la nonviolenza avrebbe potuto essere impiegata dal popolo
algerino. Mi diede questa risposta paradossale: "In linea di fatto, Gandhi
era il maestro al quale ci ispiravamo". Perche’ diceva questo? Precisamente
perche’ Gandhi fu il primo a scuotere il giogo del colonialismo. Ci siamo
lasciati prendere forse troppo dall’idea che il colonialismo britannico
fosse un colonialismo dove il "fair-play" prevaleva sulla brutalita’ - cio’
costituisce, invece, una contro-verita’ storica. Gandhi appariva in effetti
ai popoli colonizzati come colui che, per primo, si oppose a questa
oppressione. Ma, aggiungeva quest’algerino, non conoscevamo proprio niente
di questa nonviolenza, non ne eravamo per niente preparati, e non ci era
assolutamente possibile costruire la nostra lotta in questa prospettiva.
Diceva ancora - ed e’ proprio questo che mi pare molto interessante:
"attualmente mi interesso e studio sulla possibilita’ della nonviolenza,
perche’ se la nonviolenza e’ possibile, sarebbe criminoso per un
rivoluzionario usare la violenza".
Se la nonviolenza e’, dunque, da preferire, ci spetta ora il compito di
studiare le possibilita’ offerte dalla nonviolenza.
Bisogna ammettere che finora non l’abbiamo mai fatto. Ci siamo sempre
accontentati di idee ricevute, di schemi prefabbricati e di vere e proprie
caricature della nonviolenza; cio’, evidentemente, ci permetteva di
condannarla piu’ facilmente.
Se misuriamo gli investimenti che a destra o a sinistra sono stati fatti per
la violenza, e se misuriamo gli investimenti che non sono stati compiuti per
la nonviolenza, allora avremo la giusta misura di cio’ che puo’ essere
fatto, cercando di discernere cio’ che e’ possibile da cio’ che non lo e’.
Comunque, se la nonviolenza non puo’ permetterci di risolvere subito tutti i
nostri problemi, ci permette almeno di impostarli in maniera giusta.
E concludo con questa riflessione di Rilke: "entrando insieme nelle vere
questioni, finiremo certamente con l’entrare insieme nelle vere risposte".
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