“Più belle perché san di lontananza”
Lontananze / di Alessandro Castellari. - Argelato : Minerva, 2025. - 112 p. - ISBN 978-88-33248-50-9.
Lontananze è l’ultimo (nel senso di più recente) piccolo gioiello di Alessandro Castellari, docente, studioso, fondatore di due Università per adulti (Primo Levi prima, Italo Calvino poi), della Pluriversità dell’Immaginazione con Stefano Benni, e poi prolifico autore: dall’antologia La pratica letteraria (2007) curata con Maria Teresa Cassini (sua compagna di vita, musa e complice letteraria) al parodico Manzoni si diverte (2009), da Gli uomini e le donne (2016) a Quando parla la Gioconda (2018), da In ascolto di voci mute (2019) a Care adultere (2022), Castellari dimostra una versatilità coinvolgente e febbrile, un’urgenza creativa mai autoreferenziale. Al contrario, fin dai primi esperimenti si affida ai “maestri” della letteratura italiana ed europea, contaminandoli con l’Arte e declinandoli sempre più in senso femminile.
Castellari dimostra in pieno le esigenze del post-postmoderno. Passando attraverso la parodia, l’ironia e la riscrittura, quasi a rendere omaggio all’inevitabile “angoscia dell’influenza” (Harold Bloom) di cui giocoforza soffre chiunque aspiri a essere originale nel Novecento, per accedere gradualmente a un proprio stile personale che si rafforza proprio mediante la “lettura forte” di quei classici che ha insegnato e amato (la mislettura, per citare ancora Bloom, che non è l’interpretazione basata sul giudizio ma, appunto, la lettura forte che permette di dialogare col testo), Castellari con quest’ultima breve opera (un trittico di tre racconti) spicca per così dire il volo verso la sua cifra narrativa più autentica.
Lontananze si rifà (fin dall’epigrafe) a una celebre poesia di Emily Dickinson, la quale diventa così il primo punto di riferimento della raccolta:
Ha un pathos il vento del Sud
come una voce umana:
come a scoprire su un imbarcadero
accenti d’emigrante,
che suggeriscono porti e persone
e molte cose che non si comprendono,
più belle perché san di lontananza
e di terra straniera.
La lontananza è una condizione geografica, storica, psicologica, fisica o mentale, nostalgica o piacevole; le lontananze, al plurale, invece, sono veri e propri universi che danno un senso alle domande del nostro qui-e-ora, che contrastano l’immobilità e inducono al movimento, all’accettazione dell’alterità e del dispiegarsi di possibilità.

- Copertina di Lontananze, di Alessandro Castellari
Incontriamo tre donne in questi racconti. Il primo racconto (“Cercando Ester”) è narrato da una prima persona maschile, ma presto si evince che la protagonista è Ester, la donna da lui amata e perduta, perduta e ritrovata. Sullo sfondo, le vicende conflittuali (sia a livello del suo percorso individuale sia a livello politico) fanno da contraltare alla vulnerabile magnificenza di una città, Sarajevo, che trasporta lettori e lettrici in un mondo lontano eppure vicino, quasi interiore. Le parole chiave di questa prima narrazione sono il vuoto, il confine, la via di mezzo. Il vuoto (e l’indicibile, che ne è una versione) si moltiplica in una serie di “vuoti” da riempire di parole, di sensazioni, di emozioni. Il confine non è solo geografico: è quello del corpo e dei corpi, è quello fra moglie e marito, fra passato e futuro. La via di mezzo, poi, non è il compromesso: è al contrario la strada inesplorata, quella non presa in considerazione, quella che porterebbe all’armonia e non alle scelte divisive, binarie, agli aut aut. È quella strada che non si palesa nemmeno nella splendida poesia “La strada non presa” di Robert Frost (1916) o nel “Giardino dei sentieri che si biforcano” di Borges (1941).
Il secondo racconto (“Elvira”) è una lunga lettera scritta da una nonna a una nipote. Qui il punto di vista è tutto femminile, e pur arrivando dal passato rappresenta un ponte verso il futuro. Il disordine e la distanza diventano centri focali dell’esperienza dell’amore, punti di sutura necessari e fra i “vuoti” apparenti. Qui i luoghi sono altri: la vicenda ci porta a Istanbul, con tutta la sua magia e la sua apertura sul Mediterraneo, avamposto dell’Europa che si spinge verso l’Asia e l’Africa. Prima Sarajevo, poi Istanbul: è chiaro che Castellari guarda preferibilmente a est, che i suoi punti di riferimento non sono verso Occidente ma verso l’Europa di Paolo Rumiz (Canto per Europa, 2021). Leggendo le sue pagine mi sono ricordata di Henry David Thoreau, scrittore e filosofo americano che nell’Ottocento scriveva: “i miei piedi mi portano sempre verso ovest” (Walden, 1854). Era l’epoca della Frontiera, della grande favola della democrazia americana destinata a infrangersi contro lo smascheramento della mostruosità del colonialismo. Ma Thoreau ci credeva davvero, vuoi per giovinezza, vuoi perché si sentiva parte di un progetto grandioso, proprio lui che a 31 anni aveva preferito farsi mettere in prigione piuttosto di pagare le tasse che avrebbero finanziato la guerra contro il Messico (cfr. Disobbedienza civile, 1848).
E arriviamo al terzo racconto (“Notte”), ambientato a Santorini. Qui la voce appartiene a un narratore esterno, con focalizzazione interna su Martina, una giovane donna vittima di violenza da parte del partner, aiutata dal fratello e dalla famiglia a lasciare il lavoro e fuggire. Nel suo rifugio, a contatto con la natura, il mare, le antiche vestigia della civiltà minoica, la giovane ripensa a un racconto di Melville letto al liceo, “Bartleby lo scrivano”, il cui motto ben noto è “preferirei di no”. Un motto che è un segnale di indipendenza, di resistenza, ma che a una donna abusata non basta: una donna deve dire no, un bel no forte e chiaro.
Mi hanno colpita molto gli affreschi della civiltà minoica in cui a un certo punto Martina sembra rispecchiarsi, come in un dialogo al femminile attraverso il tempo e lo spazio. E mi hanno ricordato una storia completamente diversa quella della Carta da parati gialla di Charlotte Perkins Gilman (1892), con la protagonista che impazzisce a causa del marito e del medico che l’hanno praticamente imprigionata in una stanza, e lei finisce per immedesimarsi nella figura femminile che intravvede nella carta da parati, la figura di una donna disperata, una figura tragica come diventerà lei stessa alla fine del racconto.
Qui è il contrario: i disegni danno speranza a Martina. Santorini, la sua cultura, la sua storia sono elementi di protezione e di conforto ma anche spinta propulsiva, costruttiva, vivificante. Qui le parole chiave sono quelle che troviamo verso la fine: conservare e custodire. Per contrasto, mi torna alla mente il binomio sorvegliare e punire di Michel Foucault (1976), con cui il filosofo francese sintetizzava (denunciandola) la tendenza all’imprigionamento, alla repressione, alla sanzione che è sistemica nella nostra società. Allo stesso modo, l’eredità femminile della conservazione e della custodia, della cura, dell’accoglienza si configura come una controtendenza a cui dovremmo riferirci quotidianamente nelle nostre scelte e pratiche private, politiche, relazionali.
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