Persone: Ali Rashid, giornalista e scrittore
È morto Ali Rashid. Era nato nel 1953 ad Amman primo rifugio dalla Palestina di una famiglia di Gerusalemme costretta addirittura a cambiare cognome dal regime hashemita che nel ’70 massacrerà i palestinesi. Era un militante di sinistra di Al Fatah. È stato segretario nazionale del Gups, l’Unione degli Studenti palestinesi, aveva fatto parte dell’Unione degli scrittori e giornalisti palestinesi e, dal 1987 per molti anni è stato il Primo Segretario della Delegazione generale palestinese in Italia, dove aveva fatto parte di Democrazia proletaria, eletto nel 2006 come deputato per Rifondazione comunista (si era ricandidato nel 2008 per Sinistra Arcobaleno e nel 2024 con Pace Terra Dignità, senza essere rieletto). Ma queste scarne righe sulla sua vita politica non rendono appieno la sua forza, il suo coraggio instancabile, la sua dolcezza nonostante tutto.
- Ali Rashid
Nella sequenza di addii in questa epoca alla deriva di senso e di futuro ho spesso usato, con sincerità, l’espressione «per me era un fratello». Stavolta l’espressione è più vera, lui è stato più fratello che mai. Con lui ho condiviso quasi quaranta anni di appassionata quanto disperata vicinanza per la lotta e la tragedia del popolo palestinese.
Ora se ne va proprio nel giorno del 77° anniversario della Nakba, la catastrofe della cacciata di quel popolo nel 1948 da parte delle milizie e dell’esercito israeliano dalla propria terra e dalle proprie case; e nei giorni in cui i palestinesi muoiono in massa tra le rovine di Gaza e nella nuova colonizzazione della Cisgiordania; hanno fiato solo come bersagli di un sanguinoso tiro al piccione dell’esercito di Netanyahu, abbandonati da tutti e nell’indifferenza del cosiddetto civile e democratico Occidente mentre si consuma un genocidio. Il suo cuore non ha retto, si è spezzato. Chi può reggere il dolore provato a distanza e nell’impotenza opprimente di fronte alle scene di stragi che arrivano tra bambini e donne che si contendono tozzi di pane?
Che resta ai palestinesi come arma se non la scrittura e la presa di parola, ci dicevamo. Così nell’ultimo anno insieme abbiamo organizzato molte presentazioni della terza edizione de “La terra più amata. Voci della letteratura palestiinese”, curata con l’altro fratello di Palestina, Wasim Dahmash: per un’idea di “Divano” che recuperasse almeno le ragioni dei poeti, da Goethe a Mahmud Darwish. “Nel Diwan – mi scriveva proponendo il testo di presentazione delle iniziative a Firenze – scorrevano le parole verso l’infinito. Rispettose e cordiali, si spogliavano dal piglio del dominio e si ammantavano dell’ansia di comunicare. Poeti, narratori e cantastorie…si alternavano sul palcoscenico che durava tutto l’anno. Passato, presente e futuro con filo ininterrotto per non smarrirsi nel vuoto… Protagonisti sono le parole che sfilano come la seta dai gelsi e lasciano indelebile il segno sul quaderno della notte. Solo il chiarore della mente a farci lume nella ascesa verso le nostre ardite deduzioni».
«Nel Diwan – continuava – rinascerò da me stesso e sceglierò lettere capitali per il mio nome, in questo presente senza tempo e senza luogo. Ormai nessuno ricorda come abbiamo varcato l’indicibile e ci siamo accorti che non siamo più capaci d’attenzione. Per non sentirci dire un giorno “era mio padre quell’uomo in pena da far sopportare a me la sua storia”. Questa nostalgia, che né l’oblio ci allontana né il ricordo ci avvicina, questa tensione verso l’altro che è in noi non si risolve nel soggetto pensante – concludeva – , quello che Marx in parole suggestive definisce “il sogno di una cosa”, il soggetto umano che attende il tempo che non c’è ancora, l’uomo inedito, in tensione verso il futuro, verso il suo adempimento per creare il futuro che non è più certezza ma è una pura ipotesi. Il futuro ci sarà se lo avremo creato». Questo era Ali.
Ora ai palestinesi non resta neppure Ali Rashid. Dalla voce pacata, sommessa che però pretendeva l’ascolto e l’otteneva, anche dai nemici. È stato per tutti noi il vero e degno rappresentante della Palestina. Non si è mai risparmiato in una vita fatta di esilio e dolore – negli anni ’90 il Pd prendeva sprezzante le distanze dai palestinesi. Contro ogni sopraffazione è stato un costruttore tenace quanto inascoltato di pace. Addio Ali.
Chi volesse salutare Ali Rashid potrà farlo venerdì 16 maggio a Orvieto, presso la Sala Expo del Palazzo del Popolo dalle 10 alle 17.30
Fonte: Tommaso Di Francesco (Il Manifesto)
Ali Rashid: un uomo ammirevole / di Pierluigi Sullo
Ali Rashid ha avuto un infarto, il secondo, e ne è morto. Credo che nel conteggio dei morti di Gaza vada aggiunto un “più uno”.
Ali era palestinese, per molti anni aveva rappresentato l’Organizzazione per la liberazione della Palestina e poi l’Autorità nazionale palestinese. Io lo conobbi verso la fine degli anni ottanta, veniva in redazione per parlare con i compagni più amici dei palestinesi e portare la sua opinione, facemmo amicizia e una volta gli dissi: “Sei uno degli uomini più belli che conosca”. Lui, con il suo sorriso morbido, rispose: “Anche tu sei bello”. Lui scherzava, io no. Aveva quella fluidità garbata di molti arabi, nonostante la sua vita fosse stata ingrata, esule due volte da quella che sarebbe diventata Israele, profugo in una tenda in Giordania, infine miracolosamente accettato come studente in una università italiana. Si era laureato e si era dedicato ai suoi, tutti quanti. E non smetteva: qualche mese fa mi telefonò per rinvitarmi a partecipare a una “lezione”, così la definì, a Firenze, sulla Palestina. Io gli dissi: ho appena avuto un problema di salute grave, non posso muovermi. E lui, affettuoso come sempre, mi disse “non preoccuparti, faremo una serie di queste lezioni”. Fu a metà degli anni novanta, trent’anni fa, che ci legammo davvero. Noi facevamo un settimanale, supplemento del Manifesto, che si chiamava Extra, lui venne e ci chiese se ci interessava il racconto del suo primo viaggio in Israele, in un tempo relativamente pacifico, alla ricerca della casa di famiglia, di suo nonno, che non aveva visto da quando erano tutti fuggiti prima in campagna e poi in Giordania. Ci interessa eccome, gli rispondemmo, scrivi. Dopo un po’ tornò con un testo che io lo aiutai a mettere in piega, discutevamo ogni aggettivo, ogni paragrafo. Lui ci teneva molto, e io anche. La sua era stata una famiglia di antica nobiltà, la casa di suo nonno era un piccolo palazzo di pietra bianca, dove il piccolo Ali era cresciuto. Lui raccontava di come avesse individuato la via, dentro quella che ora è Tel Aviv, l’incrocio stradale esatto, ma ecco, la casa di pietra bianca era stata rasa al suolo e sostituita da palazzine banali come se ne vedono in ogni periferia europea. Così Ali si sedette su una panchina e rimase a guardare, cercando di vedere la casa di famiglia attraverso i muri e i balconi reali.
Quando raccontai a Piergiorgio Maoloni, il grande grafico che ci aiutava a fare Extra, la storia di Ali, lui si mise d’impegno e propose una illustrazione in cui le linee di una casa antica si intrecciavano a quelle delle case moderne, una specie di groviglio inestricabile. Ali vide il disegno e gli spuntarono lacrime sull’orlo degli occhi: Ecco, disse, è stato proprio così. Si vedeva bene, e si leggeva, la zona oscura tra il passato che non c’è più e un presente che non si vuole accettare.
La scomparsa di Ali Rashid è l’ennesima riprova, durissima, che i compagni, gli amici, se ne vanno, ma io spero che da qualche parte, qui o in Palestina, una piccola targa, magari solo un sasso bianco, ricordino che è esistito un uomo ammirevole come lui.
Questo ricordo di Gigi Sullo è stato diffuso su Facebook e da Pressenza.
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