Perchè è giusto il no del Parlamento europeo al prelievo delle impronte digitali ai bambini rom
Il 10 luglio 2008 il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione che invita il Governo italiano ad astenersi dalla schedatura dei bambini rom mediante la raccolta di impronte digitali nei campi nomadi...
Il 10 luglio 2008 il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione che invita il Governo italiano ad astenersi dalla schedatura dei bambini rom mediante la raccolta di impronte digitali nei campi nomadi, dichiarando che essa “costituirebbe chiaramente un atto di discriminazione diretta fondata sulla razza e l’origine etnica, vietato dall’art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e per di più un atto di discriminazione tra i cittadini dell’Ue di origine rom o nomadi e gli altri cittadini, ai quali non viene richiesto di sottoporsi a tali procedure”.
Non bisognava aspettare la pronuncia del Parlamento europeo per sospettare di discriminazione la misura del Governo italiano, che quasi sicuramente non supererebbbe il vaglio di costituzionalità, posta l’evidenza del contrasto con l’articolo 3 della Costituzione italiana, che sancisce il principio secondo cui “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
È irrefutabile che una disposizione di legge concepita “ad hoc” unicamente per i rom rappresenta un trattamento differenziato assai difficilmente giustificabile con la situazione specifica dei nomadi, mentre potrebbe avrebbe senso, semmai, una disciplina generale, senza distinzioni etniche o di altra natura, che preveda la raccolta delle impronte digitali come "extrema ratio" in tutti quei casi in cui non sia possibile altrimenti la identificazione dell’individuo, perché mancano dati anagrafici certi o verificabili, e ricorrano esigenze di tutela peculiari, che vanno dalla lotta alla criminalità al contrasto dell’immigrazione clandestina.
Non ci vuole molta fantasia per capire che il prelievo delle impronte digitali limitato ad un unico gruppo etnico è come apporre su di esso uno stigma negativo, un sorta di marchio di criminalizzazione, specie perché evoca una schedatura che di norma colpisce chi delinque e viene arrestato. È agevolmente intuibile come una tale provvedimento istituzionalizza il sospetto sociale verso quella gente e non agevola affatto la tanto auspicata integrazione. In più, la storia recente del secolo scorso induce a nefaste associazioni, laddove ci insegna che le persecuzioni razziali hanno sempre avuto inizio da forme di odioso censimento dei “diversi”. Nè può sfuggire l’impatto che l’imposizione del trattamento di raccolta delle impronte può avere su di un bambino, nel quale può ingenerare un "imprinting" potenzialmente idoneo marcare a vita irrimediabilmente e in un accezione deteriore e ribellistica il senso della propria irriducibile distanza e separatezza dalle comunità diverse da quella di appartenenza.
Meglio sarebbe stato affrontare il problema, che pure esiste, con una modalità “politically correct”.
Troppo facile dare una connotazione esclusivamente politica alla risoluzione, perché votata a maggioranza dai gruppi di sinistra del Parlamento di Strasburgo. Le motivazioni espresse dai deputati europei sono assolutamente ragionevoli e condivisibili, in particolare allorché si fa notare come “il migliore modo per proteggere i diritti dei bambini rom sia di garantire loro parità di accesso a un’istruzione, ad alloggi e a un’assistenza sanitaria di qualità, nel quadro di politiche di inclusione e di integrazione, e di proteggerli dallo sfruttamento”.
La diversità culturale è il sale della terra per l’umanità, tanto quanto la biodiversità lo è per la continuità della vita. La varietà delle culture è ragione di confronto, arricchisce il genere umano: la interazione delle diverse visioni del mondo è un potente fattore di crescita e di progresso del pensiero.
Tutela della specificità culturale e lotta alla criminalità operano, però, su piani diversi.
Nessuno può sognarsi di sopprimere il diritto dei nomadi alla propria cultura, ad esprimere il proprio universo di valori e la propria sensibilità con il linguaggio e con gli stili di vita che hanno elaborato nel corso della loro storia difficile.
Di contro, nemmeno è un atto di sopruso esigere dai singoli rom comportamenti rispettosi delle leggi che assicurano le basi della civile convivenza nel contesto sociale in cui hanno scelto di vivere, non conta quanto stabilmente.
Tuttavia, ritenere di risolvere i problemi di ordine pubblico partendo dai rom dà fastidio, poiché si ha l’antipatica sensazione che si voglia fare di essi per l’ennesima volta - come se la storia nulla ci avesse insegnato in proposito – il capro espiatorio, dietro il quale nascondere la propria montante inciviltà di ritorno, l’annegarsi del senso civico in una barbarie sempre più dilagante.
Perché tanti e in assoluta maggioranza sono i non rom che delinquono, perché non sono rom gli ultrà che si abbandonano al teppismo fuori e dentro gli stadi, perché non è colpa dei rom se lasciamo ammucchiare montagne di spazzatura per le strade. Perché non l’hanno voluto i rom che il nostro tessuto collettivo divenisse nient’altro che “poltiglia di massa”, “mucillagine sociale”, secondo l’azzeccata quanto disarmante definizione di Giuseppe De Rita nella sua introduzione all’ultimo rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese. Perché non ce lo impediscono i rom di riappropriarci dei nostri centri storici e di farli il luogo di incontro di una rinnovata vita comunitaria, e intanto ci rinchiudiamo ogni giorno di più nell’angusta dimensione di un privato nel quale il vicino è quasi sempre un estraneo di cui diffidare.
Davvero poca indignazione ha suscitato la caccia all’uomo nei campi nomadi di Ponticelli. Eppure bastava vedere le immagini della ignobile rincorsa a bambini e donne rom per vergognarsi, e non poco, di essere italiani, se nostri concittadini sono stati capaci di lasciarsi andare ad una aggressione in perfetto stile da pogrom nazista.
Se proprio dobbiamo moralizzare la nostra vita sociale, forse è bene partire da noi stessi, innanzitutto per dare l’esempio a chi sosteniamo essere “diverso”, anziché mostrarci a nostro uso e consumo, anche nei più insignificanti comportamenti quotidiani, scandalosamente insofferenti al freno della legalità.
E offriamo ai nomadi una dignitosa possibilità di integrazione, perché esclusivamente su questa strada ogni forma di rigore sarà credibile e non apparirà come una insopportabile persecuzione razzista.
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sono di sinistra. ma non credo sarebbe sbagliato identificare -e non soltanto far loro macchiare con le dita un fogliaccio- tutti coloro che vivono nei campi rom. non lo sarebbe se questo accurato "censimento" fosse teso a migliorare le condizioni di vita di quanti scelgono o sono costretti a vivere in situazioni che molti di noi definiscono aberranti e disumane. personalmente,rispetto e ammiro dal profondo del mio cuore la cultura nomade, ma come ben sappiamo la destra e talvolta,in segreto,la sinistra vedono in essa un elemento di disordine sociale: forse, sommergendo di impronte i commissariati, i nostri governanti sperano di mettere ordine in quel meraviglioso e colorato caos?